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parte 3° Il decennio della distensione e la ripresa dell'espansionismo sovietico 1963-1985    

L'UNIONE SOVIETICA VERSO IL DECLINO

 La posizione di Kruscev negli anni successivi alla crisi dei missili di Cuba si era indebolita nonostante i progressi nelle relazioni con gli Stati Uniti. La crisi economica aggravata dalla soppressione dei piccoli appezzamenti in concessione ai privati, le agitazioni sociali nelle grandi industrie, la nascita del dissenso intellettuale, la inconcludenza delle riforme economiche amministrative crearono nella società, come nella burocrazia civile e militare una notevole insoddisfazione. Le promesse di un superamento economico degli Stati Uniti, i millantati successi produttivistici della regione di Rjazan, l'infelice esito della prova di forza con gli Stati Uniti del '62, dopo le roboanti affermazioni degli anni precedenti rappresentarono il colpo definitivo all'immagine del leader ucraino.

 Nell'ottobre del 1964 il Presidium del Comitato Centrale si riunì nel periodo in cui Kruscev era assente (per vacanze sul Mar Nero) da Mosca; il suo rientro precipitoso nella capitale non gli consentì di rovesciare la situazione, Suslov con l'appoggio della totalità dell'assemblea denunciò una serie di errori del leader del Cremlino, il quale visto mancare l'appoggio anche dei vertici militari senza reagire accettò tutte le risoluzioni dell'organismo. Scomparivano così a distanza di un anno i due leader russo e americano che avevano dato vita alla diplomazia della distensione degli anni '63-'64. I maggiori appunti che furono mossi al compagno Nikita non erano sulla linea politica, (i successori non misero in discussione i principi della coesistenza pacifica, né tentarono un ritorno ai metodi staliniani), ma i modi eccessivamente bruschi e le discutibili impennate che risultavano intollerabili per una burocrazia desiderosa soprattutto di tranquillità.

 Il Comitato Centrale infine timoroso di un nuovo uomo forte sulla scena politica decise che la carica di segretario del C.C. e di presidente del consiglio dei ministri non potessero più essere cumulate nella stessa persona, e affidarono la prima a Leonid Breznev e la seconda a Nikolaevic Kossighyn, all'interno di una direzione collegiale.

 I successori di Kruscev annullarono alcune riforme degli anni precedenti sulla riorganizzazione del partito e sui limiti alla rieleggibilità di alcune cariche, ma mantennero invariato l'assetto politico dello stato e i principi ispiratori della politica internazionale. La preoccupazione maggiore dei nuovi dirigenti del Cremlino era di dare al paese stabilità e tranquillità dopo gli eccessi degli anni precedenti. Probabilmente all'interno della classe dirigente nessuno credeva più in un grande destino del socialismo, né aveva fiducia in un grande avvenire del paese. L'Unione Sovietica di quegli anni appariva sempre più chiusa in se stessa e timorosa di qualsiasi innovazione.

 La direzione collegiale è stato un principio ricorrente nell'Unione Sovietica, ma che non ha avuto molto seguito; in occasione della successione di Lenin, di Stalin, di Kruscev, la collegialità lasciò sempre il passo ad un nuovo accentramento dei poteri. Le prime divergen-ze politiche all'interno della nuova direzione politica avvennero fra l'apparato del partito attraverso il suo massimo rappresentante, Breznev, e il Primo Ministro Kossyghin, uno degli ultimi bolscevichi che avevano preso parte alla rivoluzione e ai fatti immediatamente successivi. Kossyghin era favorevole ad un decentramento dell'economia, ad una maggiore diffusione del benessere nel paese attra¬verso una incentivazione delle industrie di beni di consumo e ad una maggiore autonomia delle aziende di stato. Tali principi trovavano conferma nelle indicazioni di alcuni economisti come Liberman, secondo il quale occorreva conferire maggiore libertà alle imprese e adeguare la produzione (sempre rigorosamente controllata dallo stato) alle leggi della domanda e dell'offerta. Tali progetti vennero visti come una minaccia da parte dell'or¬ganizzazione politica, che temeva che l'economia del paese potesse sfuggire dal proprio controllo. Nel 1965 il primo Ministro venne messo in minoranza e da allora, fino a quando uscì definitivamente di scena anni dopo, si mantenne più defilato. La vera figura emergente di quegli anni era un personaggio che nel passato non aveva brillato per iniziative politiche; cresciuto sotto la protezione di Kruscev, Breznev anche successivamente rappresentò la figura del funzionario amante del conformismo sotto il quale la burocrazia e la corruzione, che interessò anche membri della sua famiglia, (la mafia di Dnepropetronsk), raggiunse alti livelli.

 Il 23° Congresso del partito nell'anno successivo rappresentò un'altra vittoria per Breznev, e in seguito a tale successo anche l'anziano e prestigioso Mikoyan si ritirò dalla attività politica, lasciando il posto a uomini fedeli del nuovo capo del Cremlino. Da quell'anno in poi non si verificarono più scontri politici nelle alte gerarchie sovietiche e tutta la vita politica del paese si svolse monotona in un clima di apatia, non interrotta dall'assunzione della carica di presidente del Soviet Supremo nel 1977 da parte di Breznev, cumulata con quella precedente di capo del partito (divenuta nel frattempo segretario generale anziché primo segretario).

 Non si ebbe in quegli anni un vero "culto della personalità" come ai tempi di Stalin, tuttavia si verificò una forma di scadente adulazione nei confronti del nuovo leader del Cremlino, esaltato come illustre letterato per la pubblicazione nel 1979 di alcuni suoi libri a contenuto autobiografico di scarso valore, mentre si assisteva nel paese alla consueta corsa alle onorificenze di stato, e Breznev stesso né accumulò più di Zukov, il prestigioso comandante che sconfisse il Terzo Reich.

 A partire dal 1969 si accrebbe l'influenza dei militari all'interno del governo e nonostante il processo di distensione internazionale, si ebbe un consistente aumento del bilancio della difesa, intorno al 25% all’anno; in tal modo quegli anni veniva raggiunta la parità nel campo degli armamenti nucleari con l'America e nel giro di non molto tempo il superamento degli avversari. Intorno al 1970 si ebbe una temporanea ripresa del neostalinismo, del nazionalismo e della concezione autoritaria dello stato all'interno della classe politica e dei mezzi di comunicazione. Tale tendenza non ebbe comunque molta fortuna e nel 1973 molti dirigenti di questo movimento vennero allontanati dal potere o ridimensionati all'interno della nomenclatura.

 Nel 1977 venne emanata una nuova costituzione dopo quella staliniana del 1935; quello che in un altro paese avrebbe costituito una importante innovazione rappresentò invece nel sistema sovietico un semplice aggiustamento tecnico all'ordinamento giuridico. La nuova costituzione prevedeva la restrizione dei diritti del cittadino, che non potevano essere in contrasto, nemmeno quelli inalienabili della persona, con gli interessi dello stato. La maggiore novità, ma era stata già annunciata dal Comitato Centrale del partito nel 1961, era nella definizione dell'URSS come "stato socialista di tutto il popolo" diverso quindi dalla "dittatura del proletariato" di leninista memoria. Singolarmente la costituzione precisava anche la posizione dell'Unione Sovietica nel mondo comunista e quella degli altri paesi del socialismo reale; si affermava infatti il diritto di intervento nella politica di un altro stato alleato qualora il socialismo risultasse minacciato.

 Rispetto agli anni di Kruscev nel periodo di Breznev venne dato maggiore impulso agli investimenti nell'agricoltura, conferiti miglioramenti economici ai lavoratori del settore (attraverso anche la reintroduzione degli appezzamenti agricoli a conduzione familiare), e provveduto ad un incremento nella produzione di beni di consumo, che consentì un relativo miglioramento nel tenore di vita della popolazione. I risultati furono comunque scadenti, negli anni 1971-73 la resa delle coltivazioni cerealicole era di 14,7 quintali per ettaro, pari a quella della Grecia o della Jugoslavia di 15 anni prima. Nello stesso periodo la produzione per addetto nel settore agricolo era di 4,5 t. di raccolto l'anno contro i 54,7 di un analogo lavoratore del Nord America. Rispetto ai paesi industrializzati l'URSS continuava ad avere un numero di occupati nel settore agricolo notevolmente elevato, circa il 25% della popolazione contro il 3% degli USA, e mentre il paese americano costituiva uno dei principali esportatori del settore cerealicolo, l'Unione Sovietica era costretta a continue importazioni di grano.

 Le statistiche ufficiali parlavano di incrementi della produzione industriale e del PIL notevolmente superiori a quelli dei paesi occidentali, tali da far ritenere che l'arretratezza di questo paese nei primi del '900 dovesse essere colmata, ma negli anni Settanta, e lo stesso si potrebbe dire per gli anni successivi, il divario sulla produttività, sul tenore di vita rispetto all'Europa risultava enorme , e ad eccezione del settore militare la Russia restava un paese scarsamente progredito. Il problema dell'economia sovietica non era quello della produzione industriale, sulle quali si basavano le statistiche, ma quello della qualità dei prodotti, degli stock di merci che per deficienze dell'organizzazione amministrativa non giungevano sul mercato ovvero rimanevano invenduti perché non corrispondenti alla domanda del mercato. La questione fondamentale dell'economia sovietica, e mai risolta, era di conciliare il servili-smo richiesto dal potere con quella dose di apertura e di innovazione di cui necessita un'economia ed una società per potersi sviluppare.  

 La autonomia delle imprese rispetto al potere centrale attuato in Cecoslovacchia in quegli anni aveva portato ad un relativo ridimensionamento del ruolo dell'apparato politico, fenomeno ritenuto da Mosca inconciliabile con i principi dello stato comunista, in seguito a ciò al Congresso del PCUS nel 1971 si stabilì l'abrogazione della riforma economica, già rimaneggiata in precedenza, progettata da Liberman. Il maggiore interesse nel settore economico negli anni successivi fu l'acquisto di derrate alimentari, di crediti, l'intensificazione dello scambio commerciale con l'estero, e l'innovazione tecnologica, da realizzarsi attraverso accordi con i paesi occidentali. Gli scambi con gli USA passarono da 200 milioni di dollari del 1971 a 1 miliardo nel 1974. Il debito con l'estero dell'URSS al termine dell'era di Breznev ammontava a 20 miliardi di dollari, la maggior parte nei confronti di banche europee e americane. I nuovi rapporti con l'Occidente vennero ritenuti particolarmente vantaggiosi per l'URSS, tuttavia ebbero termine alcuni anni dopo, nel 1980, con l'invasione dell'Afghanistan.

 Il tasso di crescita del reddito nazionale secondo fonti ufficiali risultava intorno al 10% annuo negli anni Cinquanta, del 6-7% negli anni Sessanta e prima metà degli anni Settanta, e del 2% nella seconda metà degli anni Settanta. Le difficoltà economiche si fecero sentire particolarmen¬te verso la fine del lungo periodo di Breznev; nel 1980 si ebbero scioperi nelle officine di Togliattigrad e in altre regioni per penuria di derrate alimentari, e in diverse occasioni lo stato ricorse per far fronte alla difficile situazione al razionamento della carne e di altri generi alimentari. Tali problemi non interes¬savano più di tanto il vertice politico; Breznev in un colloquio con il dirigente comunista italiano Berlinguer nel 1978 sostenne: "Ciò che occorre al nostro paese è... molto grano ed un armamento adeguato. Queste sono le due cose fondamentali... tutto il resto è relativo" .

 La società sovietica era molto più arretrata di quanto le istituzioni facessero ritenere in Occidente, la corruzione e l'apatia di cui aveva parlato anche lo scrittore Maksimov, era ben presente a tutti i livelli dell'organizzazione sociale; la criminalità, la prostituzione, o l'alcolismo ritenuti un tempo, un fenomeno tipicamente occidentale imperversava anche nelle grandi città sovietiche, nonostante le pesanti sanzioni contro il vagabondaggio, l'accattonaggio abituale, la promiscuità sessuale, istituiti negli anni precedenti. Molto sviluppata sebbene illegale, era anche l'economia sommersa e il cambio al nero della valuta straniera, non diversamente da quello che in tempi più recenti succedeva nella Russia di Eltsin. Nonostante i progressi sovietici nel Terzo Mondo l'Unione Sovietica negli anni Settanta procedeva verso un tragico declino economico e morale.

 La corruzione del potere non è un fenomeno recente come le vicende della Russia postcomunista potrebbero far ritenere, ma un fenomeno ampiamente diffuso e scarsamente contrastato nella società sovietica degli ultimi decenni. Importanti problemi della vita dei cittadini erano affidati a burocrati pronti ad elargire favori e raccomandazioni altrimenti non ottenibili, a chi si prestava alla illegalità; lo stesso Gromiko, l'uomo del dialogo con l'Occidente e i familiari di Breznev vennero additati come concussi per la gestione di numerosi affari di stato.

 I problemi della classe politica erano notevoli al vertice come alla base. Secondo lo storico russo Mihail Geller "Il programma della nomenclatura si può riassumere in tre punti: rafforzare il proprio potere, estendere i propri privilegi, godere in santa pace potere e privilegi medesimi" . La classe dirigente negli anni Settanta costituiva una categoria privilegiata che evitava ormai di nascondere la sua natura, nelle grandi città del paese erano presenti negozi speciali riservati alla nomenclatura dove i prezzi dei prodotti variavano con la posizione gerarchica dell'acquirente, e dove gli stessi potevano accedere a beni inavvicinabili per la grande parte della popolazione. Nelle sue memorie Richard Nixon ricorda che il capo del Cremlino non disdegnasse il lusso e fosse uno dei maggiori collezionisti di automobili di gran lusso; "...durante le mie visite in Unione Sovietica" sostenne l'ex presidente americano, "ebbi modo di pensare che l'elite comunista si avvicinava, per caratteristiche, alla descrizione della classe dominante fatta da Marx molto più di qualsiasi gruppo o consorteria di  capitalisti" . Nell'Unione Sovietica, paese dell'uguaglianza per eccellenza, molte categorie rimanevano ai margini della società, le donne in particolare, non raggiunsero mai posizioni dirigenziali elevate né in politica né nelle altre attività della società civile.

 Alla fine degli anni Settanta l'Unione Sovietica attraversava un periodo di forte stabilità politica ma la direzione dello stato appariva sempre più consolidata in una forma di geronto¬crazia che poneva gravi problemi di ricambio politico. Nel 1977 gli uomini della troika erano tutti molto anziani, Breznev aveva raggiunto i 71 anni, Kossyghin 73, Podgorny 74, l'età media degli altri membri del Politburo era lo stesso intorno ai settanta anni. l'Unione Sovietica sembrava sempre più una società chiusa e immobilizzata.

 La separazione fra potere e società nel corso degli anni Settanta non poteva essere più totale, e il dissenso, la cosiddetta cultura clandestina, ebbe un grande sviluppo rispetto agli anni di Kruscev. Il tentativo di reprimere l'attività cosiddetta antisovietica risultò talvolta maldestro, si evitò di ricorrere ai metodi drastici del periodo staliniano, ma si presero una serie di misure, alcune delle quali, come il rifiuto di ritirare i riconoscimenti internazionali o l'impedire cure chirurgiche all'estero, scarsamente sensate.

 Nel 1966 gli scrittori Daniel e Siniawsky vennero arrestati e condannati, rispettiva-mente a 5 e 7 anni di lavori forzati per "propaganda antisovietica" (art.70 del codice penale) a causa di diverse pubblicazioni realizzate in parte attraverso editori europei e altre attraverso la stampa clandestina (fra le quali un saggio sul realismo socialista e racconti di varia natura di non interesse politico). La loro condanna non passò sotto silenzio né in Occidente, né presso gli intellettuali sovietici, che in una lettera collettiva ai vertici del partito e del Soviet Supremo, sottolinearono che il processo aveva causato un maggiore danno all'immagine dello stato che non le opere condannate in sé.

 Nell'anno successivo venne arrestato per propaganda e agitazione antisovietica Aleksander Ginzburg insieme ad altri tre letterati per aver diffuso un opuscolo sul processo Daniel-Sinjavskij; i quattro vennero condannati (dopo un poco credibile processo) a pene detentive fra gli 1 ed i 7 anni. L'azione repressiva ebbe vasta risonanza, e sostenitori dei letterati organizzarono una manifestazione di protesta in piazza Puskin a Mosca, in seguito a tale episodio le autorità sovietiche risorsero per combattere il dissenso prevalentemente all'internamento negli ospedali psichiatrici piuttosto che affrontare incredibili processi. 

 Nel 1970 Sacharov e altri eminenti uomini di cultura fondarono il Comitato per la difesa dei diritti civili e alcuni anni dopo si costituì il Gruppo di vigilanza sull'applicazione degli Accordi di Helsinki, entrambe le associazioni raggiunsero un'ampia diffusione nella Russia occidentale e nelle altre regioni più progredite del paese, e nonostante che la loro azione si svolgesse nella più rigorosa legalità, subirono pesanti repressioni.

 Il dissenso oltre a pubblicare clandestinamente le opere che non potevano accedere sulla stampa ufficiale, iniziò a denunciare sistematicamente le violazioni dei diritti umani e le persecuzioni a cui erano soggetti scrittori, artisti o semplici cittadini, per aver espresso opinioni difformi a quelle ufficiali. Sostenuti dall'opinione pubblica occidentale e negli ultimi anni dai partiti comunisti europei, le autorità sovietiche si trovarono in difficoltà a perseguitare oltre misura certi personaggi, nel timore di perdere i crediti e le agevolazioni commerciali con l'Occidente di cui la nazione aveva bisogno. Nel 1970 e nel 1975 Solgenitsin e Sacharov vennero conferiti del premio Nobel come riconoscimento alla attività culturale svolta e al coraggio con cui portarono avanti le loro idee; l'alta onorificenza fece capire al paese che non si trattava di fomentatori, come la stampa ufficiale li riteneva, ma di uomini apprezzati nel resto dell'Europa per le loro idee, e che contro di essi il regime era ricorso alla menzogna. Dato il grande rilievo di cui godevano i due eminenti uomini di cultura, furono oggetto di una limitata repressione. Solgenitsin venne inviato in esilio dove si riteneva non potesse nuocere e Sacharov confinato a Gorkj, soggetto al controllo ventiquattro ore su ventiquattro della polizia segreta.

 Tre furono le principali correnti di pensiero del dissenso: i socialisti anche marxisti, che pretendevano un maggiore pluralismo e un maggiore impegno nella lotta alla corruzione, i liberaldemocratici di cui il massimo esponente fu Sacharov e chiedevano uno stato realmente democratico sul modello occidentale, e i cristiani democratici come Solgenitsin che sentivano l'esigenza di una maggiore spiritualità negata dalle istituzioni. Numerosi furono i dissidenti "minori" come il letterato Amalrik, che in un famoso libro parlò della dissolu¬zione dell'Unione Sovietica, Vladimir Maksimov, che descrisse i mali della società sovietica, il matematico Pliusch che subì il peggiore trattamento; lo scienziato venne licenziato nel 1968 dall'Accademia delle Scienze per una lettera inviata alla Pravda contro la condanna di due dissidenti, e successivamente internato in un ospedale psichiatrico per propaganda antisovietica dove fu oggetto di trattamenti forzati a base di farmaci con gravi conseguenze sul sistema nervoso, e vittima di mezzi di correzione che costituivano autentiche torture.

 Non solo gli intellettuali si impegnarono nella contestazione del regime, sfidando apertamente la repressione, ma anche gruppi di cittadini insoddisfatti della situazione politica; nel dicembre del 1965 si tenne a Mosca una manifestazione, non grande ma spontanea, per il rispetto dei diritti costituzionali e le libertà dell'individuo, e nel 1968 in Piazza Rossa contro la soppressione del comunismo "dal volto umano" in Cecoslovacchia. Le notizie riguardanti agitazioni in Unione Sovietica sono ovviamente frammentarie e molte probabilmente non hanno mai raggiunto l'Occidente; il noto dissidente Petr Grigorenko in una lettera al Procuratore Generale dell'URSS denunciò l'aggressione poliziesca contro una pacifica manifestazione dei Tatari di Circik avvenuta nell'aprile del 1968.

 Anche se il regime non ricorse ai metodi staliniani, non mancarono alcuni casi di azione repressiva feroce o di ricorso all'illegalità; nel 1970 un piccolo gruppo di ebrei che aveva tentato di abbandonare il paese subì 9 severissime condanne detentive e 2 condanne alla pena capitale. Nel 1979 infine vennero condannati a morte tre presunti nazionalisti per l'attentato alla metropolitana di Mosca, in un processo in cui l'esigenza di mostrare il rigore dello stato passò sopra la fondatezza delle prove. Dissidenti e persone ritenute scomode dal regime vennero perseguitate anche all'estero; nel 1966 si ebbe un tentativo da parte del KGB di rapire e riportare in patria la figlia di Stalin Svetlana fuggita in precedenza dall'Unione Sovietica.

 Molto diffuso risultò poi il dissenso per motivi religiosi, specie fra i cattolici lituani, (nel 1972 un credente si diede fuoco per protesta), gli ebrei, capro espiatorio dei nazionalisti russi più intransigenti, i battisti e altri gruppi religiosi come gli islamici non allineati, mentre relativamente tollerata fu la chiesa ortodossa, in larga parte controllata dal regime. Il dissenso sovietico ha costituito un significativo evento nel mondo comunista e in Occidente, l'opera di Solgenitsin in particolare, ha costituito un grande avvenimento culturale del nostro secolo e ha dato un contribuito alla caduta del comunismo in maniera notevolmente superiore a quanto generalmente si può ritenere.

 Un'evidente frattura si è manifestata in seno ai paesi dell'Est fra i paesi relativamente industrializzati, Polonia, Ungheria e Cecoslovacchia, che hanno sperimentato, particolarmente quest'ultima, nel periodo fra le due guerre istituzioni democratiche e i paesi slavi del sud, nei quali più forti è stata la rassegnazione verso la dittatura.

 La Bulgaria è stato il paese dove minori sono state le proteste interne contro il regime; successivamente alla destituzione di Chervenkov il paese si è affrancato dallo stalinismo, senza comunque modificare di molto la sua politica e rimanendo l'alleato più fedele dell'URSS. Il regime ricorse anche qui ai peggiori sistemi di potere, e nel 1978 il noto dissidente lgaro Markov venne ucciso all'estero ad opera di agenti al servizio del KGB, con l'uso di sofisticati mezzi di morte.

 La Romania, il paese più povero dei paesi satelliti dell'URSS, con oltre un terzo della popolazione impegnata nell'agricoltura, non ha conosciuto un vasto fenomeno del dissenso, tuttavia il paese è stato protagonista di una imponente svolta. Nel 1958 il governo di Gheorghiu Dej richiese e ottenne il ritiro delle forze d'occupazione sovietiche, la cui permanenza non era giustificata da questioni internazionali. La nuova linea politica venne confermata dal successore Ceausescu, che prese posizioni divergenti rispetto al paese guida e sviluppò relazioni di amicizia con la Jugoslavia. Il governo di Bucarest si mantenne estraneo alla polemica cino-sovietica, migliorò i rapporti commerciali con l'Occidente, stabilì autonome relazioni diplomatiche con la Germania di Bonn, e rifiutò di partecipare con proprie truppe all'invasione della Cecoslovacchia. Nel 1964 il Comitato Centrale del PC romeno affermò con intransigenza il principio di non ingerenza di un paese socialista nei confronti di un paese alleato. Gli avvenimenti di quegli anni ebbero però un significato profondamente diverso da quelli cecoslovacchi; all'interno del paese venne mantenuto un rigido sistema repressivo, e a causa della disastrata situazione economica del paese vennero imposte pesanti misure economiche, abolizione del salario minimo, riduzione del potere d'acquisto dei redditi reali, razionamento alimentare, che portarono il paese vicino al collasso.

 Delle diverse vicende dell'Unione Sovietica, e dell'intero blocco comunista, l'invasione della Cecoslovacchia, condotta da parte di tutti i paesi del Patto di Varsavia con l’eccezione della Romania, rappresentò l'avvenimento più grave. Nella Cecoslovacchia del '68 vi era un movimento che non intendeva minacciare l'assetto del blocco comunista o portare il paese fuori dall'alleanza sovietica, (diversamente dall'Ungheria del '56), ma realizzare una nuova forma di socialismo.

 Ci sarebbe da chiedersi perché la "primavera di Praga" sia stata repressa con brutalità, perché furono Gomulka e Ulbricht i maggiori sostenitori dell'intervento armato, e perché la Romania, che aveva compiuto scelte di politica estera e militare che andavano ben oltre quelle del governo di Praga, non abbia subito la stessa sorte. Il quesito dovrebbe far ritenere che i dirigenti comunisti ritenessero la libertà di stampa, la più importante delle riforme di Dubcek, più temibile dell'uscita di fatto dall'alleanza militare del governo di Ceausescu; dobbiamo infatti ricordare che nei regimi contrari al nuovo corso socialista la corruzione e il privilegio della classe al potere avevano molto da temere da una stampa non controllata. Secondo il noto dissidente Anatoli Marcenko la causa dell'invasione era da ricercarsi nel timore della diffusione dei principi della primavera di Praga a tutto il mondo comunista, "I nostri dirigenti" sostenne "non sono soltanto preoccupati, sono spaventati, e questo non perché l'evoluzione della Cecoslovacchia minacci lo sviluppo del socialismo o la sicurezza delle nazioni del Patto di Varsavia, ma perché rischia di troncare l'autorità dei dirigenti di questi paesi e di gettare il discredito sui principi e sui metodi stessi di governo che regnano oggi nel campo socialista" .

 La Cecoslovacchia con un reddito nazionale pro capite di oltre 5.000 dollari l'anno, risorse minerarie notevoli e affermate industrie, costituiva il paese più progredito dell'Europa orientale, e quello dove maggiormente era sentito il disagio per la dittatura. In seguito ad una situazione di diffuso malcontento, popolare e intellettuale, inasprito dalle difficoltà economiche del paese, nel gennaio del 1968 il segretario del partito, il conservatore ed ex stalinista Novotny, venne sostituito dal giovane dirigente slovacco, già alto esponente della resistenza antinazista, Alexander Dubcek che introdusse nel corso di sei mesi alcune importanti riforme economiche e politiche.

 In quel periodo che passò alla storia come la "primavera di Praga", venne abolita la censura e consentita la libertà di stampa, denunciati i responsabili delle gravi persecuzioni degli anni precedenti, introdotto il diritto di sciopero e la facoltà del cittadino di spostarsi anche fuori dal paese senza restrizioni, liberati infine coloro che avevano subito condanne per reati politici, innovazioni che consentirono all'opposizione di far sentire la propria voce. La più importante iniziativa di questa fu la pubblicazione di un appello, il "Manifesto delle 2000 parole" sottoscritto da decine di migliaia di cittadini in cui si affermava che il partito comunista "da partito politico e organizzazione di idee, era diventato un organo di potere e una forza d'attrazione per egoisti ambiziosi, pusillanimi, e gente dalla coscienza sporca" . Nei mesi successivi Dubcek promosse una riforma dell'organizzazione interna del partito che consentiva un maggiore dibattito e un rinnovamento del programma favorevole ad un maggiore pluralismo e alla distensione nel campo internazionale.

 Nel corso dei mesi di giugno e luglio divenne intensa l'attività diplomatica all'interno del mondo comunista e le manovre militari del Patto di Varsavia ai confini della repubblica dissidente. Dubcek venne convocato dai dirigenti di Mosca ai quali assicurò che le riforme avevano un carattere puramente interno, che la Cecoslovacchia manteneva intatti i suoi impegni nel COMECON e nel Patto di Varsavia, ed escludeva che si arrivasse, come in Ungheria nel '56, ad una contestazione aperta del comunismo e dei sovietici. All'interno del mondo comunista Tito e Ceausescu fecero conoscere il loro punto di vista favorevole alle riforme cecoslovacche che comunque non poté influenzare gli avvenimenti successivi. Nel luglio l'intero Politburo dell'URSS si recò a Praga dove venne intimata una inversione di rotta che non fu accettata da nessuno dei dirigenti di Praga. Nella notte fra il 20 e il 21 agosto iniziò l'invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe di Unione Sovietica, Polonia, Ungheria, Bulgaria avvenuta senza incontrare resistenza da parte dell'esercito cecoslovacco per espresso ordine del governo. Cechi e Slovacchi evitarono che la tragedia sfociasse in un bagno di sangue e si limitarono ad una resistenza passiva non collaborando con gli invasori. L'occupazione del paese fu un operazione non difficile, ma reclutare chi fosse disposto a collaborare alla amministrazione del paese secondo le direttive di Mosca non fu altrettanto facile. Dubcek e altri dirigenti del partito già dalle prime ore vennero arrestati e condotti a Mosca ma il capo dello stato Ludvik Svoboda, e il Comitato Centrale del partito si rifiutarono di collaborare con gli invasori e di annullare le riforme dei mesi precedenti. Per i sovietici esisteva la minaccia che la Cecoslovacchia scivolasse verso il disordine e il capitalismo; secondo il ministro degli esteri Gromiko "Le forze legate al vecchio sistema" ritenevano di "attuare un colpo di stato avvalendosi a questo fine di persone infiltrate nell'apparato dello stato. Ovviamente i nemici della nuova Cecoslovacchia avevano anche ricevuto aiuti dall'esterno, così come era successo in Ungheria nel 1956" .

 I sovietici furono quindi costretti a negoziare con Dubcek (che venne rilasciato il 27 agosto) e si giunse ad un parziale annullamento delle riforme, ma per diversi mesi la situazione rimase estremamente confusa. Successivamente il dirigente comunista cecoslovacco Gustav Husak, che in precedenza aveva contribuito alle riforme, si dimostrò disponi-bile alle richieste sovietiche e alla normalizzazione imposto dai sovietici; progressivamente i dirigenti riformisti vennero esautorati, e la Cecoslovacchia rientrò nell'alveo politico tracciato da Mosca. Epilogo dei drammatici eventi fu il suicidio in piazza Venceslao, nel cuore di Praga, di un giovane universitario, Jan Palach, come protesta per la repressione sovietica, i funerali diventarono l'occasione per una protesta di massa con la partecipazione di mezzo milione di cittadini; nella primavera dell'anno successivo si ebbero nuove imponenti manifestazioni, scioperi e occupazioni di università; ad esse il nuovo regime rispose con l'espulsione di oltre 300.000 iscritti dal PC cecoslovacco perché ritenuti sostenitori di Dubcek, e negli anni successivi venne dato seguito a numerosi processi contro i principali esponenti della primavera di Praga.

 Nel '58 quando la situazione era ormai tornata alla normalità in Ungheria si ebbe la fucilazione di Imre Nagy, il generale Malater e altri esponenti minori degli avvenimenti del '56; le esecuzioni considerate inopportune, portarono ad un peggioramento dei rapporti con la Jugoslavia; comunque nel 1962 venne definitivamente allontanato dal potere il vecchio stalinista Rakosi, e una relativa tolleranza politica si diffuse progressivamente nel paese, soprattutto dal 1968, che consentì una discreta prosperità economica.

 Negli anni Sessanta in Polonia si ebbero alcune importanti riforme economiche e politiche; la collettivizzazione dell'agricoltura venne abbandonata, vennero intensificati i rapporti con l'estero e ricercata una intesa con la chiesa cattolica che nel paese godeva di un grande ascendente. Nel 1968 parallelamente al movimento riformistico nella vicina Cecoslovacchia, si ebbero numerose manifestazioni studentesche dirette contro il regime che vennero represse duramente, e costarono la vita a diversi manifestanti. Nel 1970 in seguito alla crisi econo¬mica, alla scarsità e all'aumento dei prezzi dei generi alimentari, si verificarono scioperi e manifestazioni operaie a Danzica e nelle altre grandi città industriali; le agitazioni vennero soffocate nel sangue (il numero delle vittime è sconosciuto), ma la protesta provocò comunque la caduta di Gomulka. L'anziano esponente venne sostituito alla guida del partito da Gierek che attuò alcune misure di liberalizzazione e dei provvedimenti favorevoli agli operai, (blocco dei prezzi dei principali beni di consumo, riduzione dell'orario di lavoro), che non contribuirono comunque alla ripresa produttiva e al miglioramento dell'economia. Da quell'anno in poi la Polonia venne investita da ricorrenti agitazioni sociali, alle quali il governo rispose con diversi provvedimenti sul contenimento dei prezzi, l'intensificazione degli scambi con l'Occidente, e una maggiore autonomia alle imprese, iniziative che tuttavia si rivelarono inefficaci e non portarono ad un risanamento dell'economia.

L'OCCIDENTE IN CRISI

 Crisi di valori e crisi economica furono la caratteristica principale dell'Europa e dell'America nel periodo che va della fine degli anni Sessanta all'inizio degli '80. La fine di un ventennio di crescita economica come mai la storia aveva conosciuto, aggravato dall'improvviso balzo del prezzo del petrolio e delle materie prime di cui le economie occidentali necessitavano, fu all'origine della stagnazione economica, dell'aumento della disoccupazio¬ne e dell'inflazione, ma anche di una perdita di fiducia in numerosi ideali in Europa come in Nord America, che diede origine alla contestazione giovanile.

 Il 1968 fu l'anno della agitazione studentesca in tutto il mondo occidentale, protesta che tuttavia ha avuto nei due continenti ispirazioni politiche e obbiettivi diversi; mentre in Europa sono prevalsi movimenti politici che richiedevano una revisione radicale dell'assetto sociale, in America, ma anche in Inghilterra, la protesta ha avuto obbiettivi e finalità più concrete che toccavano i diritti fondamentali dell'uomo, più che gli aspetti economici dello stato.

 In diversi paesi europei si è avuta la nascita di movimenti marxisti che iniziarono a contestare non solo le forze tradizionali del potere, ma anche le organizzazioni ufficiali del movimento comunista e operaio, per la loro disciplina partitica, il loro centralismo decisionale, la loro politica troppo legata al mondo comunista dell'Est, mondo che non rappresentava più un mito per gli ambienti giovanili. Molti di questi movimenti ripudiavano il modello democratico occidentale ma contestavano o ignoravano, nel migliore dei casi il modello sovietico; l'intervento militare sovietico a Praga avvenuto nello stesso anno era un avveni-mento troppo grave e troppo sentito perché potesse passare sotto silenzio. I gruppi extraparlamentari di sinistra nati in quel periodo, si richiamavano quindi alla Cina della Rivoluzione Culturale con il suo presunto spontaneismo di massa, ai movimenti marxisti guerriglieri dell'America Latina, simpatizzavano in altri casi per il Terzo Mondo e per i movimenti neutralistici dei paesi non allineati. Riprendendo un asserto maoista si riteneva che il concetto di lotta di classe tradizionale, che in quegli anni entrava in crisi per i progressi economici del proletariato, dovesse essere trasferito nell'antagonismo fra nazioni povere e nazioni ricche.

 La diffusione del benessere, la redistribuzione del reddito, e i fenomeni sociali dell'inurbamento e dell'industrializzazione, furono alla base di quella che venne chiamata la società dei consumi, che insieme ad alcune innovazioni nella vita quotidiana portò con sé una serie di miti e di status symbol ritenuti meno felici. Da qui la nacque la critica nei confronti di una società opulenta, consumistica dedita prevalentemente al profitto, (anche se la vita relativamente sobria degli uomini di finanza europei e nordamericani rispetto a certi magnati arabi o latino americani farebbe pensare diversamente), ma la critica trovava largo consenso anche fra diversi intellettuali come Marcuse, che aveva messo in luce i limiti della società industrializzata sulla creatività umana, e Sartre, il filosofo della libertà e della coscienza umana. Erich Fromm un altro stimato autore di quegli anni, sosteneva: "Nello sviluppo, sia del capitalismo sia del comunismo come possiamo prevederlo nei prossimi 50 o 100 anni il processo di automizzazione e di alienazione continuerà. Entrambi i sistemi stanno sviluppandosi in società manageriali i cui abitanti, ben nutriti, ben vestiti vedono soddisfatti i loro desideri e non hanno desideri che non possano essere soddisfatti, automi che seguono senza essere forzati, che sono guidati senza capi, che fabbricano macchine che si comportano come uomini, e producono uomini che si comportano come macchine; uomini la cui ragione decade mentre aumenta l'intelligenza creando così la situazione di dotare l'uomo dei più grandi poteri materiali senza la sapienza per usarli... L'uomo di oggi è posto di fronte alla scelta più decisiva: non quella fra capitalismo e comunismo, ma quella tra robotismo (sia del tipo capitalistico sia di quello comunista) o socialismo umanistico comunitario".

 Altri temi dibattuti in quegli anni erano la questione ecologica, il degrado delle metropoli, l'alienazione del lavoro moderno, il problema dei paesi in via di sviluppo e dei rapporti con i paesi cosiddetti avanzati. Non mancarono movimenti di contestazione a sfondo religioso che si richiamavano a numerosi gruppi confessionali ispirati a ideali di uguaglianza, pacifismo, fratellanza; comunità piccole e grandi che si ponevano al di fuori della società e delle sue regole, interessati a creare una nuova forma di convivenza sociale.

 Una componente dei movimenti giovanili nati dalla contestazione fu il fideismo, e tale tendenza portò in un periodo successivo ad atti di violenza, all'idea che si potesse e si dovesse fare giustizia da soli degli avversari politici. Questo fenomeno, che interessò comunque solo una parte del movimento, costituì la causa dell'esaurirsi della protesta, del riflusso, e del successivo ritorno nel "privato" degli anni '80.

 I gruppi di contestazione hanno notevolmente influenzato la politica estera dei paesi europei e del Nord America. Il pacifismo e il problema dei rapporti nord-sud ebbero grande importanza, ma il tema maggiormente dibattuto fu quello del Vietnam che suscitò notevoli manifestazioni al di qua e al di là dell'Oceano. Contro l'intervento americano in Indocina si ebbero grandi dimostrazioni in Francia, Gran Bretagna, Italia, Germania e particolarmente numerose negli Stati Uniti. Alcuni contestavano l'intervento in nome del pacifismo e contro la guerra in sé, altri in Europa specialmente, perché ritenevano che quello americano costituisse un atto di imperialismo e una minaccia per il mondo.

 Negli anni Cinquanta e '60 gli stati europei, grazie anche alla creazione del Mercato Comune, avevano presentato un tasso di sviluppo economico elevato, superiore a quello degli Stati Uniti. Nel 1955 l'economia USA rappresentava il 33% della ricchezza mondiale mentre l'Europa e il Giappone il 28%, nel 1970 la prima rappresentava il 26% ed i secondi il 36% La crescita economica dei paesi europei non aveva precedenti nella storia, il tasso di crescita del PIL annuo fra il 1953 e il 1973 per i 14 paesi europei era stato del 4,8% contro una media del 2% degli anni precedenti la guerra. Sebbene alla fine degli anni Sessanta la crescita economica fosse stata leggermente inferiore a quella del decennio precedente, l'economia europea godeva di un ottima salute, mentre gli Stati Uniti avevano avuto alcuni problemi. Il paese nordamericano presentava un deficit commerciale notevole, e nell'estate del 1971 il governo decise a causa di tale situazione, di sospendere la convertibilità del dollaro in oro, di svalutare la propria moneta, e di porre alcuni misure per frenare le importazioni, provocando la fine degli accordi di Bretton Woods e la fine del regime di cambi fissi fra le valute, già messo in crisi da precedenti misure adottate dalle autorità di Bonn relative al marco. Con tali misure gli Stati Uniti rinunciavano al ruolo di centro dell'economia mondiale, fortemente contestato negli anni precedenti dal governo De Gaulle, ma ottenevano una significativa riduzione del disavanzo commerciale con l'estero. La situazione conosceva una improvvisa svolta in tutto il mondo occidentale nel '73 a seguito della guerra arabo-israeliana che provocava una ritorsione di estrema gravità contro i paesi europei, gli Stati Unti e il Giappone.

 Nel 1973 si verificò il più importante tentativo da parte di paesi extraeuropei di costringere i paesi industrializzati ad un radicale mutamento negli scambi commerciali. In quell'autunno i paesi dell'OPEC, la cui maggioranza era formata da paesi arabi mediorientali, stabilivano il loro diktat sui paesi industrializzati e sui paesi poveri di risorse petrolifere portando il prezzo del petrolio da 3 a oltre 11 dollari il barile, e adottando altre misure di ritorsione contro i paesi che ritenevano filo israeliani. I paesi produttori di petrolio decretarono l'embargo nei confronti di Stati Uniti, Olanda, Portogallo, Sudafrica, Rhodesia, e la riduzione progressiva delle vendite contro gli altri paesi europei, Francia esclusa; in realtà i paesi europei avevano tenuto una posizione sostanzialmente moderata nel conflitto arabo-israeliano, e avevano contribuito a ridurre l'umiliante disfatta militare dell'Egitto.

 Il petrolio ha costituito il tallone d'Achille dei paesi industrializzati, e a differenza di altri prodotti come il carbone, la sua distribuzione si presenta concentrata in poche zone geografiche (quella mediorientale rappresenta circa un terzo della produzione mondiale di greggio) e i paesi riuniti nel cartello dell'OPEC si sono serviti di tale situazione con grande abilità per strappare prezzi sempre più elevati; il prezzo del greggio è così passato dai 16,67 dollari al barile nel '74, agli oltre 40 nel 1980, per poi stabilizzarsi a 34-38 dollari nel periodo successivo.

 Alla conferenza di Algeri del movimento dei paesi non allineati dell'aprile 1974, su istanza del presidente algerino Boumedienne, venne stabilito un altro principio in contrasto con lo spirito di collaborazione internazionale, il diritto alla nazionalizzazione delle società straniere, anche senza accordo con i paesi industrializzati, e il diritto di stabilire autonomamente l'ammontare dell'indennizzo. Politica che non ha portato significativi vantaggi per quei paesi, ma ha provocato invece una riduzione degli investimenti stranieri nei paesi afroasiatici.

 La crisi economica provocata dal rialzo dei prezzi delle materie prime si fece sentire soprattutto in Europa e in Giappone (ma anche nei paesi poveri del Terzo Mondo) nei quali il tasso di crescita del PIL subì una sensibile battuta d'arresto. Nei paesi della CEE il petrolio che rappresentava nel 1950 il 10% delle fonti di energia, nel 1973 arrivava a costituire il 64% del fabbisogno interno. Di fronte alla iniziativa dei paesi produttori di petrolio la reazione europea fu debole e inefficace. Gli Stati Uniti proposero, su iniziativa del Segretario di Stato Henry Kissinger, di costituire un fronte unico dei paesi consumatori di petrolio da contrapporre all'OPEC, ma l'iniziativa non trovò l'appoggio di Francia e Giappone. Nonostante alcune misure di risparmio energetico e di diversificazione delle fonti energetiche (che introdussero un nuovo elemento nel dibattito politico culturale di quegli anni) la crisi fece sentire i suoi effetti attraverso l'inflazione, l'aumento della disoccupazione e il calo produttivo delle industrie del settore automobilistico e chimico, crisi dalla quale l'Europa ne uscì con difficoltà anche dopo la cessazione delle cause.

 Il rialzo dei prezzi delle materie prime non favorì l'economia dei paesi produttori. I paesi dell'OPEC non furono in grado di utilizzare la grande massa di ricchezza accumulata (i cosiddetti petrodollari) né per favorire lo sviluppo interno né per acquistare un ruolo superiore nel sistema economico mondiale. Gli acquisti di partecipazioni azionarie nelle grandi compagnie industriali e finanziarie mondiali non furono organizzate con oculatezza e le redini del capitalismo internazionale rimasero nelle mani di europei e americani. Un'altra parte rilevante dei petrodollari vennero destinati per l'acquisto di armi e di beni destinati all'esclu-sivo beneficio di poche categorie privilegiate, gli sceicchi e i dittatori mediorientali, mentre le popolazioni e l'economia di quei paesi non risentirono del grande afflusso di capitali. Si è così avuto il paradosso di paesi del Terzo Mondo con arretrate strutture economiche ed elevato tasso analfabetismo, che presentano un PIL non diverso da quello dei paesi afroasiatici “ricchi”.

 Nel corso degli anni Settanta un nuovo elemento veniva a contribuire alla crisi economica esistente, l'aumento del costo del lavoro; in seguito alle agitazioni sociali di quegli anni e la legislazione sociale eccessivamente rigida rispetto alle fluttuazioni del mercato, si aveva un incremento della disoccupazione e della crescita incontrollata della spesa pubblica. Questi fattori mettevano in crisi la stabilità monetaria internazionale e davano vita ad un periodo estremamente agitato con significativi risvolti sul piano politico.

 La crisi economica e la crisi di valori innescata dal movimento sessantottesco, contribuivano non poco allo sviluppo delle vicende successive, ad una politica più attenta alle esigenze sociali, al maggiore ruolo dello stato nell'economia, e nel campo della politica estera, a iniziative di distensione internazionale. 

 Una grande prova attendeva la Francia gollista nel 1968, con una serie di grandi agitazioni studentesche e operaie, che passarono alla storia come il "maggio francese"; tali avvenimenti misero in difficoltà il governo De Gaulle, ma successivamente le forze golliste ne uscirono fuori con successo senza eccessive difficoltà. Gli scontri fra studenti universitari parigini e forze dell'ordine nella primavera di quell'anno si intensificarono progressivamente finché nel mese di maggio il Quartiere Latino nella capitale francese si trasformava in un campo di battaglia; in un primo momento i partiti della sinistra mantennero un atteggiamento di indifferenza se non di latente ostilità di fronte alle richieste di un movimento poco controllabile, ma successivamente quando il fenomeno raggiunse grandi proporzioni dovettero modificare il loro atteggiamento. Il 12 maggio si tenne nel centro di Parigi una colossale manifestazione con la partecipazione di oltre 600.000 fra studenti e cittadini che protestavano contro la riforma dell'università presentata dal governo gollista e per una maggiore libertà in generale nelle istituzioni del paese. Nei giorni succes¬sivi la protesta si allargò al mondo del lavoro con scioperi, manifestazioni e occupazioni di fabbriche alle quali parteciparono circa 10 milioni di lavoratori. La Francia si avviava verso una situazione preinsurrezionale, quando il 30 maggio, dopo consultazioni con i militari per motivi di ordine pubblico, De Gaulle annunciava le elezioni anticipate e veniva organizzata ai Champs Elises una grande contromanifestazione di sostenitori del governo gollista per il ritorno all'ordine. Le elezioni rappresentarono una vittoria senza precedenti dei gollisti e della cosiddetta "maggioranza silenziosa", l'Unione gollista con il 47% dei voti ottenne la maggioranza assoluta mentre i partiti di sinistra che avevano sostenuto le agitazioni conseguirono un sensibile ridimensionamento. Un anno dopo tuttavia i gollisti persero un referendum sulla riforma del Senato e l'ordinamento regionale, De Gaulle diede le dimissioni (anche se non dovute) e si tennero nuove elezioni presidenziali, che videro l'affermazione di Pompidou, già primo ministro sotto l'anziano generale.

 Il successore di De Gaulle fu soprattutto un moderato che tentò di ricucire i numerosi strappi prodotti negli anni passati. Venne consentito alla Gran Bretagna l'ingresso nella CEE, e approvata la svalutazione del franco che già da tempo risultava in difficoltà, provvedimento che permise una ripresa delle esportazioni, e il rilancio di tutto il settore industriale. Il nuovo governo promosse infine un maggiore decentramento amministrativo, alcune riforme a favore delle categorie economiche più deboli e per una maggiore partecipazione dei lavoratori alla vita aziendale.

 Nel campo della politica estera, la politica di grandeur della Francia non aveva dato grandi risultati né aveva favorito l'economia. Pompidou si impegnò per una diversa politica, fu il primo capo di stato dell'Europa a incontrare in visita ufficiale i capi di Pechino, con i quali venne concluso un trattato di collaborazione, ad aprire alla Libia di Gheddafi (con la quale venne sottoscritto un accordo per la vendita di armi), e ad adoperarsi per l'intensificazione degli scambi con l'Unione Sovietica. Scomparso improvvisamente il capo dello stato nel '74, gli succedette il centrista liberale Giscard, che intraprese alcune significative riforme in materia di divorzio, aborto, sistema scolastico, ecologia. Sul piano internazionale, gli obbiettivi fondamentali di quegli anni furono il riavvici¬namento alla politica atlantista, la collaborazione con la Germania, un maggiore europeismo; le difficoltà nei rapporti con i gollisti, ed alcuni scandali di governo nell'81, provocarono un cambiamento politico e  consentirono per la prima volta nella storia del dopoguerra la vittoria delle sinistre.

 Nonostante la riduzione degli impegni internazionali la situazione economica della Gran Bretagna rimaneva difficile, e ciò spinse il governo laburista di Wilson a una nuova svalutazione della sterlina, e al rinnovo della richiesta di ingresso nella CEE. La questione dell'adesione alla CEE era molto sentita in patria e all'estero; per i paesi dell'EFTA e del Commonwealth rappresentava la perdita del maggiore partner, ma per l'economia inglese risultava impossibile sostenere l'esclusione dalla rete di scambi commerciali del continente, anche se ciò significò un minore ruolo internazionale.

 Il governo Wilson promosse alcune importanti riforme in materia di diritti civili fra le quali l'abolizione della pena di morte, e la legge contro le discriminazioni razziali; in campo di politica estera venne decisa la soppressione delle basi militari a oriente di Suez ma vennero mantenuti inalterati gli impegni all'interno dell'alleanza atlantica. Dopo un breve ritorno al potere dei conservatori con Edward Heath nel 1970, contrassegnato da un duro braccio di ferro con i minatori in sciopero, si ebbe nel 1974 un nuovo governo laburista presieduto da Wilson. Il periodo successivo fu contrassegnato da ulteriori difficoltà economiche (l'inflazione raggiunse il 27% nel '75), nonché da problemi razziali per l'aumento degli immigrati di colore, dal riaccendersi della questione irlandese  e del terrorismo che da alcuni anni aveva ripreso a sconvolgere il paese.

 Il progressivo distacco dei socialisti dal partito comunista consentì nel 1962 la costituzione del primo dei governi di centrosinistra in Italia. Vennero attuate nel corso degli anni successivi diverse riforme, nazionalizzazione dell'energia elettrica, legge sul divorzio (che costituì il primo grande insuccesso della Democrazia Cristiana), realizzazione del decentramento amministrativo con la istituzione delle regioni, e infine intensificata la presenza dello stato nell'economia attraverso le partecipazioni statali e un maggiore controllo sull'attività economica, che comunque non impedirono un rallentamento nella crescita del reddito nazionale.

 Mentre l'ondata di agitazioni del '68 nel resto del continente europeo si avviava a spegnersi, nel nostro paese gli scioperi e le manifestazioni continuarono per buona parte degli anni Settanta, portando all'Italia alcune innovazioni legislative a favore dei lavoratori, ma anche al primato in Europa per ore lavorative perdute e aumento del costo del lavoro, che furono all'origine della ripresa dell'inflazione e della stagnazione economica.

 La forte e costante avanzata elettorale del partito comunista, e il prevalere delle correnti più democratiche all'interno di esso, favorì negli anni compresi fra il 1976 e il 1980 la partecipazione al potere dei comunisti; l'ingresso di questi in alcuni importanti posti di potere produsse una certa diffidenza da parte della borghesia moderata, ma anche una disaffezione dell'elettorato tradizionale operaio nei confronti del rinnovato PCI. L'Italia degli anni Settanta era sempre più un paese dei ceti medi, e questo venne compreso dalla nuova generazione comunista che cercò di rinnovare il programma di governo e rassicurare l'elettorato conservatore, come anche gli alleati occidentali; l'esperienza di governo si chiuse comunque dopo pochi anni, una gestione poco innovativa negli organi locali, e l'allontanamento del partito socialista su posizioni più moderate, riportò ad un relativo isolamento del PCI.

 La grande novità a metà degli anni '70 fu il rinnovamento del programma politico dei partiti comunisti dell'Europa occidentale, particolarmente di quelli italiano, francese e spagnolo, i quali allentarono i loro rapporti con il mondo sovietico e diedero vita al cosiddetto eurocomunismo. Molti comunisti erano sinceramente convinti della validità di un comunismo pluralista e non contrario ai principi dell'economia di mercato, e in molti casi non mancarono esplicite disapprovazioni del comunismo sovietico come nel caso dell'invasione dell'Afghanistan (anche se non venne condannata dal PCF), tuttavia rimaneva una certa ambiguità. Il nuovo comunismo, non più rigidamente leninista, si accontentava di alcune riforme del modello comunista senza respingere in forma piena il regime totalitario affermatosi in URSS, come invece fecero in quegli anni un gruppo di intellettuali francesi che negli anni precedenti avevano militato nella sinistra, i noveaux philosopes.

 Il periodo compreso fra la fine degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta, costituì un periodo particolarmente importante per la Germania, con grandi ripercussioni per gli altri paesi europei e la politica mondiale. Concluso nel '66 il breve cancellierato di Erhard, per la prima volta i socialdemocratici parteciparono al potere, in accordo coi democratico cristiani, dando vita alla cosiddetta Grande Coalizione.

 La Germania Federale dalle sue origini si considerava come l'unica rappresentante legittima del popolo tedesco, in base a tale principio, sostenuto anche dagli altri paesi occidentali, il governo di Bonn aveva stabilito (la cosiddetta dottrina Hallstein) che non vi fossero relazioni diplomatiche con quelle nazioni che avessero riconosciuto il governo di Pankow. Il nuovo governo presieduto da Kiesinger e con il socialdemocratico Brandt al ministero degli esteri, diede vita ad una diversa politica avviando intese diplomatiche e commerciali con alcuni paesi dell'Est (la Romania in particolare) con i quali in precedenza non aveva alcun genere di rapporto. Un minore impegno atlantista d'altra parte era stato accettato anche dai democratico cristiani, che nel '63 avevano sottoscritto il trattato di cooperazione con il governo francese De Gaulle.

 Il partito socialdemocratico tedesco, profondamente rinnovato dopo l'approvazione del programma di Bad Godesberg (1959), che prevedeva una rinuncia a larga parte dell'impostazione marxista, riportò una vittoria, sia pure di misura, alle elezioni del 1969, risultato che consentì la costituzione di un governo composto da socialdemocratici e liberali presieduto da Willy Brandt. La politica di apertura verso i paesi dell'Est, la cosiddetta Östpolitik, rappre¬sentò la principale caratteristica di questo governo. Attraverso incontri con il governo russo, quello polacco, e colloqui diretti con i capi della DDR, si giunse ad un nuovo status della Germania e di quello di Berlino che consentì significativi progressi sulla via della distensione internazionale. Vi furono quindi numerose obiezioni nel paese, i cristiano democratici e alcuni liberali non condivisero la scelta di Brandt, ma la mozione di sfiducia presentata in parlamento nell'aprile del '72 contro il cancelliere per pochi voti non ottenne la maggioranza. Alle elezioni del novembre dello stesso anno i socialdemocratici migliorarono inoltre il precedente risultato elettorale passando dal 43% al 46% dei voti.

 Sul piano della politica interna il governo Brandt si mosse con molta prudenza, si fece sostenitore della cogestione nelle fabbriche e di numerose riforme che vennero attuate tuttavia con molta moderazione. La politica del governo socialdemocratico tedesco ottenne numeroso riconoscimenti internazionali, e lo stesso Brandt nel 1971 venne insignito del premio Nobel per la pace, tuttavia tre anni dopo fu costretto alle dimissioni per gli atti di spionaggio di un suo stretto collaboratore. Helmut Schmidt Il nuovo cancelliere, esponente dell'ala moderata dell'SPD, dovette affrontare il problema del terrorismo, la nascita a sinistra del gruppo dei Verdi, e una situazione internazionale divenuta difficile. Negli anni successivi alla caduta del governo Brandt il dialogo e la cooperazione economica fra le due Germanie non venne meno. Questa politica risultò proficua per la DDR (che necessitava di tecnologie occidentali) ma non determinò alcun cambiamento nella politica interna del paese tedesco orientale. All'interno della DDR continuava la politica di repressione nei confronti degli oppositori; nel '67 lo scienziato tedesco orientale Robert Havemann venne espulso dall'Accademia di Scienze e privato dell'insegnamento per le critiche espresse al regime; nel '76 venne allontanato dall'associazione degli scrittori Reiner Kunze a causa della pubblicazione di un romanzo ritenuto poco in sintonia con il regime e privato della cittadinanza il poeta Wolf Biermann per le sue posizioni; in seguito a tali episodi numerosi artisti e scrittori che non intendevano conformarsi alle direttive del regime abbandonarono il paese.

 Nel 1982 la coalizione socialdemocratico-liberale entrava in crisi, Schmidt fu costretto alle dimissioni e sostituito dal leader democratico cristiano moderato Kohl, le elezioni successive confermarono tale tendenza politica.

 Il Belgio e l'Olanda presentavano una vita politica non particolarmente intensa rispetto ad altri paesi europei. Nei due paesi si sono alternati al potere partiti conservatori e socialdemocratici, che hanno espresso comunque sempre tendenze moderate. In Belgio anche dopo la conclusione della questione istituzionale non mancava un certo contrasto fra la comunità vallone (francofona) e quella fiamminga relativamente più progredita. In anni recenti è stato accentuato il carattere federale dello stato, tuttavia questo non ha consentito il superamento di tutti i problemi.

 Gli Stati Uniti negli anni Sessanta incontrarono una serie di problemi economici e sociali che favorirono una seria crisi dei valori su cui lo stato si fondava. Lyndon Johnson subentrato a Kennedy, dovette affrontare il grave problema sociale del paese con una serie di provvedimenti economici a favore delle categorie più deboli e delle popolazioni di colore (revisione della legge sui diritti civili, assistenza medica pubblica, contributi federali agli stati più arretrati) che non impedirono tuttavia il verificarsi fra il '64 e il '70 violenti disordini razziali in numerose città. La protesta dei neri assunse caratteri profondamente diversi, da una parte l'azione condotta dal reverendo Martin Luther King, alla quale parteciparono anche cittadini bianchi, non violenta e legalitaria, dall'altra l'azione di varie associazioni come il Black Power, il movimento dei Mussulmani Neri e quello delle Pantere Nere favorevoli alla violenza, contrarie all'integrazione coi bianchi, quando non anche professanti una forma di latente razzismo; alcune di queste organizzazioni cercarono infine di creare un collegamento con i principali movimenti rivoluzionari del Terzo Mondo.

 Nel '67 si ebbero le prime grandi manifestazioni contro la guerra del Vietnam e una serie di agitazioni all'interno delle università, che sfociarono in gravi scontri con le forze dell'ordine; tale protesta culminò nella grande manifestazione a Washington nel novembre del '69 per la pace con la partecipazione di oltre 200.000 cittadini, che costrinse il governo ad una revisione della sua politica in Asia. La contestazione del '68 e degli anni successivi venne considerata grave, in quanto non si limitava a contestare le direttive di politica estera del governo, ma metteva in dubbio i valori fondamentali della società americana, e produsse profondo sconcerto nel paese.

 Nel 1968 si verificarono due assassinii che produssero sgomento nell'opinione pubblica americana e mondiale, l'uccisione di Martin Luther King da parte di un pregiudicato, al quale seguirono violenze e saccheggi nel paese che si conclusero con 46 morti; e l'uccisione di Robert Kennedy durante la campagna elettorale da parte di un estremista arabo antiisraeliano.

 Nel corso degli anni Sessanta l'economia americana aveva perduto terreno nei confronti dell'Europa e del Giappone, e si vide costretta durante gli anni della presidenza Nixon alla svalutazione del dollaro, la prima dopo gli anni della Grande Crisi del '29, alla riduzione degli impegni internazionali e al contenimento della spesa pubblica; contemporaneamente venne deciso il blocco di prezzi e salari e una limitazione alle importazioni dall'estero, in contrasto con la politica liberista precedente. La manovra economica diede effetti positivi, la bilancia commerciale e quella dei pagamenti con l'estero tornarono in attivo e l'economia americana poté superare il difficile momento. La politica internazionale di quegli anni fu particolarmente moderata; la nuova amministrazione repubblicana si oppose all'intervento dell'esercito americano in operazioni all'estero, e cercò di conseguire risultati positivi ricercando soprat¬tutto nuove alleanze. Sotto la direzione del grande diplomatico Henry Kissinger, il governo di Washington arrivò alla conciliazione con la Cina comunista e ad una nuova politica verso i cosiddetti paesi arabi moderati che favorì la pacificazione in Medio Oriente. Nel '72 Richard Nixon venne trionfalmente rieletto con il 61% dei voti, ma la crisi morale del paese era lontana dall'essere risolta e le vicende di cui fu al centro la Casa Bianca e il partito repubblicano nel 1973, lo scandalo Watergate, provocarono un'ulteriore perdita di fiducia nelle istituzioni e nei principi fondamentali della nazione. Gli atti di cui furono accusati i collaboratori del presidente, le intercettazioni telefoniche a danno del Partito Democratico, non costituivano un fatto molto grave in sé, ma scosse comunque la attendibilità delle autorità del paese. Nel 1974 Nixon sotto la minaccia di una procedura di impeachment fu costretto alle dimissioni, sostituito dal vice presidente Gerard Ford, che non venne comunque confermato nelle elezioni del '76.

 La elezione di Jimmy Carter, uomo semplice e di autentici valori democratici, se non contribuì a dare vigore alla nazione, consentì la restaurazione di una credibilità nelle istituzioni minacciata dai numerosi fatti precedenti. Carter si impegnò nel sostenere all'estero solo paesi che dessero garanzie di una certa democraticità e i cui governi godessero di un sufficiente consenso, ma la ripresa dell'espansionismo sovietico, la superiorità militare raggiunta dai paesi del Patto di Varsavia, il terrorismo internazionale di fronte al quale l'Occidente sembrava impotente, non contribuirono al prestigio internazionale dell'America, e gli anni di Carter vennero ricordati come un periodo particolarmente difficile per l'Occidente, che si riteneva avviato ad un processo di lenta ma irreversibile decadenza di fronte alle nuove nazioni emergenti.

 Sebbene propenso a risolvere le controversie internazionali attraverso negoziati, Carter assunse alcune iniziative nel campo militare,  fra le quali il dispiegamento del potente missile strategico MX, il collocamento in Europa dei missili Cruise, la costituzione di una "forza di rapido intervento" in grado di intervenire nel giro di 24 ore in qualsiasi parte della terra dove si avesse una crisi. Sebbene il presidente americano sia passato alla storia come un moderato, per il sostegno prestato ai dissidenti sovietici venne fortemente criticato da Mosca, secondo Gromiko "Con l'avvento della presidenza Jimmy Carter fu riesumato il mito della minaccia sovietica, mentre la politica estera americana riassumeva un carattere inconsistente e contraddittorio. Nella sua permanenza in carica, Carter scivolò sempre più verso la politica del confronto" .

 Nell'elezioni presidenziali dell'80, tenutesi successivamente al sequestro degli ostaggi americani in Iran, Carter venne duramente sconfitto. La vittoria di Ronald Reagan segnò l'inizio di un periodo fortemente innovativo per l'America.

GLI ANNI DELLA DISTENSIONE INTERNAZIONALE

1963-1975

 La grave sconfitta dai sovietici a Cuba nell'ottobre del '62 pose fine alla politica aggressiva verso gli Stati Uniti portata avanti da Kruscev negli anni precedenti, e già nelle settimane successive al duro confronto vennero ripresi i contatti fra Washington e Mosca.

 Il 12 dicembre il rappresentante americano alla conferenza sul disarmo presentò una proposta in materia di scambio di informazioni militari fra i due blocchi, e sistemi di comuni-cazione più rapidi e più diretti fra Washington e Mosca per evitare possibili incidenti anche involontari, e crisi che rischiassero di evolversi in maniera troppo rapida per la normale attività diplomatica. Alcuni giorni dopo i sovietici ripresero la proposta di sospensione degli esperimenti nucleari; le due iniziative portarono all'accordo del 20 giugno del '63 sull'instal-lazione della cosiddetta "linea rossa" fra la Casa Bianca e il Cremlino, e al trattato sulla messa al bando degli esperimenti nucleari con l'eccezione di quelli sotterranei.

 Il duplice successo venne completato in ottobre dalla deliberazione all'unanimità da parte dell'Assemblea Generale dell'ONU del divieto di installazione di armi atomiche nello spazio. Inoltre nuove trattative portarono nell'aprile del '64 ad un accordo russo-americano sulla riduzione di materiali fissili per la produzione di armi nucleari. Anche sul piano commerciale si registrarono dei significativi progressi con l'autorizzazione da parte del governo americano all'aumento delle vendite di cereali all'Unione Sovietica che attraversava un periodo di crisi nell'approvvigionamento alimentare.

 Nello stesso anno si aprirono i negoziati di Ginevra sul disarmo, ai quali non prese parte la Francia, che registrarono invece un insuccesso. Gli Stati Uniti respinsero la proposta sovietica di ritiro delle truppe di stanza nei paesi stranieri e abolizione dei sommergibili dotati di missili balistici, perché questo avrebbe costituito un indubbio vantaggio per i sovietici, per i quali i missili intercontinentali piazzati a terra risultavano meglio occultabili in quanto disponevano di un territorio desertico più vasto, ed esistevano notevoli restrizioni ai movimenti dei cittadini stranieri che rendeva più difficile lo spionaggio. La politica di distensione tuttavia secondo Kennedy non doveva essere allargata alla Cina, secondo il presidente americano "...non dobbiamo riconoscere la Cina rossa od accettare il suo ingresso alle Nazioni Unite, senza un mutamento nella sua posizione aggressiva contro i vicini asiatici e il mondo intero" con un esplicito riferimento all'aggressione contro l'India.

 Gli importanti successi degli anni '63-'64 vennero completati da un miglioramento delle relazioni fra le due Germanie. Nel 1963 Kennedy in visita in Germania e alla città di Berlino ottenne un successo non minore di quello riportato da Eisenhower alcuni anni prima a Bonn. Nell'anno successivo si ebbe un incidente a seguito dello sconfinamento di un aereo dell'aviazione americana sul territorio della Germania Orientale, l'aereo venne abbattuto, tuttavia i tre aviatori vennero prontamente restituiti dalle autorità comuniste, mentre gli Stati Uniti annunciarono che avrebbero evitato l'effettuazione di voli in una zona di 100 km lungo il confine comune fra le due Germanie. Nel mese di settembre infine, in seguito a colloqui informali fra le autorità di Bonn e Pankow, si stabilì un accordo per consentire agli abitanti di Berlino Ovest di recarsi nel settore sovietico per incontrare i propri parenti di Berlino Est (ma non viceversa) in occasione di alcune festività. Nel 1965 tuttavia una seduta del parlamento della RFT a Berlino Ovest suscitò le proteste della Germania Orientale.

 Il successo di Kennedy a Cuba, il miglioramento dei rapporti fra Stati Uniti e Unione Sovietica, e la riduzione della tensione internazionale nel biennio '63-'64, portarono ad un importante miglioramento della relazioni internazionali, ma anche ad un allentamento della coesione nel blocco occidentale. Una delle cause delle divergenze fra Stati Uniti e paesi europei, era la diffusa opinione che nel caso di guerra contro l'Europa sarebbe stato probabile che gli americani non dessero il loro consenso all'uso di armi nucleari che avrebbe prodotto ritorsioni anche sul loro territorio. Il maggiore responsabile delle divergenze nel campo occidentale fu il generale De Gaulle, che ritornato al potere nel '58 tentò di reintrodurre il vecchio sistema dell'equilibrio delle potenze, che ormai non poteva avere futuro. La debo-lezza politica della Germania spinse l'energico presidente francese ad assumere quella leadership in Europa che negli anni dell'immediato dopoguerra la Francia aveva perso a causa del più forte asse Gran Bretagna e Stati Uniti.

 Nel settembre del '58 il generale francese chiese la creazione all'interno della NATO di un direttorio a tre, Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia che avrebbe consentito a quest'ultima di ricuperare le posizioni precedentemente perdute, ma i tempi non potevano più consentire in una medesima associazione di stati la presenza di nazioni privilegiate e nazioni gregarie, e il progetto che aveva incontrato anche l'opposizione degli americani, fallì.

 Le divergenze della Francia con gli Stati Uniti e la Gran Bretagna si accrebbero in seguito agli accordi di Nassau sulla cessione di missili Polaris alle forze armate britanniche, e al progetto americano di creare una difesa nucleare integrata dei paesi membri della NATO; il governo di Parigi non poteva ammettere che la difesa suprema del paese dipen¬desse da organismi sovranazionali, inoltre riteneva che i paesi europei avrebbero dovuto dotarsi di un sistema di difesa nucleare totalmente autonomo, e non confidare in un eccessivo impegno americano. Venne quindi respinta una proposta di Kennedy finalizzata alla partecipazione dell'Europa alla difesa nucleare, con la creazione di una Forza Multilaterale Atomica composta da una flotta dotata di missili a testata nucleare con equipaggi di tutti i paesi partecipanti, e l'incontro fra i due statisti francese ed americano nel maggio del '61 non favorì una maggiore intesa. Alla questione militare si aggiunse presto un nuovo motivo di polemica; De Gaulle contestava gli accordi di Bretton Woods, e accusava gli Stati Uniti di pagare le loro importa¬zioni con una moneta svalutata, sebbene in realtà gli accordi stessi prevedessero la convertibilità della moneta americana in oro. Anche le nuove offerte di Kennedy di collaborazione economica fra Europa e USA vennero interpretate da De Gaulle come una sorta d'invadenza dell'America negli affari del vecchio continente.

 Nel '63 il governo francese concluse, in contrasto con i principi previsti dall'alleanza atlantica, un accordo di cooperazione con Bonn (successivamente ridimensionato dal parlamento tedesco) che avrebbe dovuto consentire la creazione di una forma di simbiosi fra una Germania debole politicamente e forte economicamente, e una Francia più forte sul piano politico-militare che economico. Contemporaneamente De Gaulle respinse la richiesta britannica di ingresso nel MEC, ritenendo così di ridimensionare il ruolo internazionale della Gran Bretagna, e di assumere uno status superiore all'interno dell'Europa. In quegli anni il governo francese assunse diverse iniziative al fine di acquisire un ruolo autonomo nello scenario internazionale; venne realizzato un arsenale atomico indipendente e migliorate le relazioni politiche e commerciali con l'Est europeo. Nel '64 infine, il governo di Parigi annunciò il riconoscimento francese (non concordato con gli alleati) della Cina Popolare, e una autonoma politica di aiuto alle economie dei paesi del Terzo Mondo. Tale politica provocò un significativo arresto delle istituzioni comunitarie, ma il progetto irrealistico di fare della Francia una potenza di primo ordine non ebbe seguito.

 Un nuovo scontro all'interno del vecchio continente si ebbe nel 1965 sulla questione dei poteri, ritenuti eccessivi, della Commissione della Comunità (che dirige la vita dell'organizzazione comunitaria fra una seduta del Consiglio dei ministri ed un'altra), e sulla questione delle deliberazioni del Consiglio con voto maggioritario anziché unanime; De Gaulle geloso della sovranità francese si oppose a tali istituzioni, e si espresse per la creazione di un'associazione di stati che non costituisse un organismo sovranazionale; nel '67 venne posto un nuovo veto all'ingresso di Gran Bretagna, ora sotto un governo laburista, e anche in questo caso riuscì di imporre la propria volontà sul resto dell'Europa.

 Il viaggio di De Gaulle a Mosca nel 1966 venne considerato particolarmente importante alla luce di quel progetto di creazione di un'Europa dall'Atlantico agli Urali che stava a cuore al generale francese. Il governo gollista si aspettava di creare un rapporto privilegiato fra Parigi e Mosca al di fuori e nonostante i due blocchi militari, ma le aspettative andarono deluse, i sovietici non credevano al progetto e ritenevano utile in quel momento non peggiorare i rapporti con gli Stati Uniti. Nello stesso anno l'anziano generale compì una lunga missione in diversi paesi asiatici e africani dove ottenne numerosi riconoscimenti, propose la Francia come amica dei nuovi stati e condannò l'intervento americano in Vietnam, ma i risultati effettivi furono comunque modesti. La creazione di una sfera d'influenza francese in Africa trovò un limite infatti nella Convenzione di Yaoundè nel 1963 con la quale si stabilivano rapporti commerciali privilegiati fra i paesi del continente africano e la CEE nel suo complesso.

 La mancata accettazione degli accordi in materia di difesa atomica comune e il ritiro degli ufficiali francesi dai comandi navali della NATO accrebbero ulteriormente il timore di una insanabile spaccatura nell'alleanza atlantica. Il progressivo disimpegno della Francia dalla organizzazione militare della NATO mise gli alleati in difficoltà; si riteneva infatti che in caso di aggressione su vasta scala del Patto di Varsavia contro l'Europa occidentale i sovietici sarebbero potuti arrivare velocemente al Reno e pertanto il territorio francese avrebbe dovuto costituire la base d'appoggio delle strutture più importanti dell'alleanza atlantica, che dovettero invece essere evacuate. La riduzione degli impegni della Francia nella NATO iniziata con il rifiuto di contri¬buire alla creazione di una flotta sotto comando unificato nel '59, proseguì negli anni successivi fino alla decisione di allontanare la sede del comando generale dell'alleanza dal territorio francese e l'uscita definitiva dall'organizzazione militare nel 1966. Ma la politica francese di grande potenza non poteva avere successo e non sopravvisse alla caduta di De Gaulle.

Verso la fine degli anni Sessanta, dopo la caduta del governo De Gaulle, Francia e Gran Bretagna ridussero notevolmente i propri impegni all'estero, e rinunciarono a buona parte della loro politica internazionale; Wilson nel '67 annunciò che il governo avrebbe eliminato le sue basi militari al di fuori del settore mediterraneo e atlantico, mentre la Francia sotto la presidenza di Pompidou, limitò la sua politica estera ai buoni rapporti con i paesi arabi.

 Negli stessi anni si accentuava il distacco di Pechino da Mosca anche a causa dell'accordo internazionale sul divieto degli esperimenti nucleari, visto come una grave limitazione nel momento in cui la Cina si apprestava a dotarsi di un arsenale atomico autonomo; il trattato in questione accrebbe il duplice dissenso francese e cinese nei confronti dei relativi schieramenti.

 Un nuovo elemento infine contribuiva alla distensione internazionale in quegli anni; la Chiesa Cattolica con Paolo VI promosse delle aperture verso il pensiero moderno e verso le nuove necessità del genere umano; con un intervento all'Assemblea delle Nazioni Unite il Pontefice mise in luce l'importanza di una pace mondiale e aperto nuove relazioni con i governi atei comunisti che ebbero la massima espressione con l'incontro in Vaticano nel 1966 del ministro degli esteri sovietico Gromyko, seguita da quella del presidente del Soviet Supremo Podgorny nell'anno successivo.

 Dopo la stabilizzazione della situazione a Berlino, in Europa non vi erano più grandi questione aperte, e la contesa fra Est e Ovest si svolse interamente nei paesi del Terzo Mondo che non avevano raggiunto un elevato grado di stabilità e i cui problemi acquistarono un grande rilievo a livello internazionale.

 A proposito della situazione nel Terzo Mondo, negli anni Settanta i paesi industrializzati sono stati accusati di un aggressivo "neocolonialismo", realizzato cioè non con gli interventi politici e militari, ma attraverso strumenti economici. I critici del capitalismo occidentale parlavano di scambi commerciali ineguali fra paesi avanzati e paesi in via di sviluppo, ma non sempre i paesi del Terzo Mondo erano costretti a condizioni svantaggiose, l'OPEC e i numerosi altri cartelli dei paesi produttori di materie prime (che nel '73 fecero sentire pesantemente la loro azione) si contrapponevano, anche giustamente, a prezzi giudicati iniqui. L'esperienza degli ultimi decenni insegna d'altra parte che l'accumulo di dollari da parte dei paesi del Terzo Mondo ricchi di risorse naturali (si può pensare ad esempio allo Zaire che detiene un quarto della produzione mondiale di diamanti) non è servito in alcun modo allo sviluppo economico del paese. Le grandi ricchezze accumulate si sono riversate a beneficio dei dittatori e delle ristrette oligarchie che governano il paese e sono servite al finanziamento delle spese militari, talvolta a grandiose opere di scarsa utilità, e difficilmente hanno contribuito alla realizzazione di infrastrutture industriali, in attività di scolarizzazione, ecc.

 Il nazionalismo dei paesi afroasiatici non ha contribuito di molto a migliorare le condizioni di vita di quei paesi, a eliminare l'analfabetismo, la corruzione e ad istituire una maggiore certezza del diritto. L'arbitrio e la violenza ha continuato ad essere sistema di potere interno, e mezzo per dirimere le controversie con gli altri paesi. Il nazionalismo terzomondista, con le sue richieste che andavano ben al di là alle legittime aspirazioni alla piena sovranità, risultava contrario allo spirito di cooperazione fra paesi poveri e paesi industrializzati e portava alla violazione dei diritti degli altri stati. Le stesse riforme agrarie promosse dai paesi socialisti, sono risultate utili più alla burocrazia di quei paesi, che a favorire il benessere della popolazione contadina. Ad un giudizio a posteriori si può ritenere che gli stati del Terzo Mondo che hanno mantenuto delle strutture politiche tradizionali sono stati caratterizzati da una maggiore stabilità e da una relativa prosperità economica.

 Il movimento dei paesi non allineati tenne a partire dal 1961 una serie di conferenze ma non ebbe che una scarsa incisività sugli avvenimenti futuri; una posizione di piena neutralità non era facile da tenere dal momento che i paesi in via di sviluppo necessitavano obbiettivamente dell'intervento dei paesi avanzati per l'approvvigionamento di tecnologie, il collocamento delle proprie eccedenze agricole, e la vendita delle materie prime. Sia i governi che hanno scelto lo schieramento occidentale, che quelli che hanno scelto quello comunista, non hanno dato vita a istituzioni democratiche, comunque difficilmente gli alleati degli Stati Uniti si sono resi responsabili di atti di una gravità tale come quelli commessi personaggi come Kim il Sung, Pol Pot, Assad, Menghistu, Touré, e in ogni caso gli americani imposero ai leader amici una certa moderazione, e alcuni personaggi ritenuti autoritari come il dittatore sud vietnamita Diem, vennero prontamente sostituiti.

 Una delle regioni maggiormente turbate dai contrasti internazionali negli anni Sessanta fu il sud-est asiatico. La guerra del Vietnam mise in luce la difficoltà delle democrazie di poter sostenere un'azione politica e militare sulla quale l'opinione pubblica aveva delle riserve. Nel Vietnam non erano in gioco riserve di materie prime indispensabili, né grandi mercati, né infine il controllo di importanti vie di comunicazione o posizioni strategiche importanti, il conflitto che si combatté in quegli anni, che ebbe tante ripercussioni a livello d'opinione pubblica, fu una guerra decisamente sopravvalutata. Il confronto fra i due governi era impari, la regione del Tonchino controllata da Hanoi costituiva la parte più sviluppata del paese con l'80% del carbone, una larga parte delle industrie e il principale porto del Vietnam. Gli Stati Uniti sostennero il governo che ritenevano se non il più democratico almeno quello meno dispotico e in grado di garantire la stabilità della regione; ritennero quindi di contenere l'avanzata comunista, ma in nessun momento pensarono di voler rovesciare la situazione in quella parte di territorio. Il governo di Saigon era però minato da numerosi contrasti di natura religiosa ed etnica, sorretto da eserciti autonomi e discordi fra loro, per cui al governo americano l'impresa risultò notevolmente più impegnativa del previsto.

 Il Vietnam del Sud fu subito dopo gli accordi di pace del '54 sconvolto da contrasti interni gravissimi, il primo ministro Diem sostenuto dagli americani entrò in conflitto aperto con l'imperatore (poco attivo sulla scena politica e per lo più assente dalla patria) appoggiato dai francesi, e si trovò in contrasto anche con le numerose e potenti sette del paese, i buddisti e gli altri gruppi religiosi non cattolici. Con l'aiuto dell'esercito, Diem riuscì a disfarsi dell'imperatore e ad instaurare un regime autoritario fortemente repressivo. Una situazione difficile si ebbe anche nel Vietnam del Nord dove il governo di Hanoi si trovò nel '56 a fronteggiare una rivolta contadina contro la collettivizzazione della terra condotta in forma particolarmente brutale (l'esproprio colpiva arbitrariamente latifondisti e piccoli proprietari) ma ne venne a capo, e costrinse un milione di cittadini della comunità cattolica ad abbandonare precipitosamente il paese. Negli anni successivi il regime di Ho Chi Minh godette di una stabilità politica decisamente superiore rispetto al governo antagonista e grazie anche alla presenza di molti suoi uomini nel territorio del sud, (che combattevano senza divisa), riuscì a fomen¬tare la rivolta presso i villaggi contadini più poveri.

 Nel 1955 gruppi religiosi armati, alcuni dei quali legati a traffici illeciti e attività mafiose, e truppe fedeli all'imperatore, scatenarono la insurrezione armata contro il governo di Diem che si concluse con un insuccesso. La vittoria del governo legittimo venne confermata da un referendum, ma la situazione rimase difficile; Diem si fece attribuire poteri dittatoriali e attraverso la presenza di esponenti della propria famiglia nelle più alte cariche dello stato impose un regime autoritario nel paese. Negli anni successivi la situazione dello stato asiatico fu caratterizzata da notevole incertezza anche a causa della protesta dei buddisti, (diversi monaci si diedero fuoco nelle strade della capitale e di altra grandi città, per protestare contro le vessazioni e la scarsa libertà religiosa); l'agitazione provocata dall'arrivo dei profughi cattolici, suscitò sdegno nell'opinione pubblica mondiale.

 In base agli accordi di Ginevra si sarebbero dovute tenere elezioni politiche in tutto il paese nel '56, ma il governo di Saigon rifiutò, ritenendo che la consultazione si sarebbe svolta sotto la minaccia del potente governo comunista, e nel paese iniziarono gli scontri fra le forze governative e quelle comuniste.

  Nel 1963 alcuni gruppi militari in accordo con gli americani decisero di abbattere il governo di Diem e di dare vita ad un governo meno autoritario, ma i contrasti fra i grandi generali non consentì il ritorno alla normalità. Kennedy e successivamente Johnson si sforzarono affinché i governi sud vietnamiti attuassero una politica sociale ed economica tale da favorire un maggiore consenso popolare ma con risultati parziali. Nel 1966 in seguito a una nuova ondata di proteste, il governo accettò di tenere le elezioni per l'Assemblea Costituente; nonostante le minacce dei Viet Cong presero parte alla consultazione circa l'80% della popolazione, e attraverso le nuove istituzioni il paese raggiunse una maggiore legalità ed una relativa stabilità interna.

 Alle prime azioni dei guerriglieri di Hanoi (in contrasto con gli impegni di Ginevra che prevedevano la non interferenza nella politica dell'altro territorio) il governo di Saigon rispose con il trasferimento dei villaggi contadini in territori considerati più sicuri, ma nonostante le richieste americane per un buon trattamento per le popolazioni, la cosiddetta operazione Sunrise si concluse con un disastro. Nel gennaio del '62 Kennedy, preoccupato che la caduta del governo anticomunista avesse causato la caduta di buona parte dei governi filo occidentali della regione, decise l'invio di 15.000 soldati a sostegno di Saigon, ma il provvedimento risultò insufficiente.

 Nell'agosto del 1964 l'attacco di motosiluranti nord vietnamite contro le cacciatorpe-diniere americane Maddox e Turner Joy (incidente forse "cercato" dal governo di Washington) provocarono la reazione degli Stati Uniti, e spinsero il Congresso ad autorizzare l'uso della forza contro il governo di Hanoi; nuovi attacchi dei reparti comunisti contro unità americane nello stesso anno diedero l'inizio, nonostante le proteste sovietiche, ai bombardamenti contro Hanoi. In un primo periodo gli Stati Uniti si impegnarono contro i Viet Cong e contro il governo nord vietnamita con l'utilizzo della forza aerea, ma la possibilità dei guerriglieri di ritirarsi oltre confine e di stabilire lì le proprie basi logistiche, rese non particolarmente efficace l'uso dell'aviazione. Un ulteriore passo nell'escalation del conflitto si ebbe con l'impegno diretto di unità regolari dell'esercito del Vietnam del Nord contro il Sud, e l'invio nel '65 a fianco degli americani di contingenti australiani, neozelandesi e sud coreani nella regione. Johnson decise un impegno a sostegno del governo di Saigon sempre maggiore, e nel '69 la presenza americana raggiunse la eccezionale cifra di 542.000 effettivi.

 Da parte cinese e sovietica l'impegno a favore dei comunisti vietnamiti fu notevole, con l'invio di grandi quantità di materiale bellico ma anche di decine di migliaia di cinesi in operazioni di supporto varie come la ricostruzione degli impianti distrutti nei bombardamenti. La rivalità cino-sovietica non influì sulle vicende, e fino alla conclusione del conflitto, il governo nord vietnamita mantenne una rigorosa neutralità sotto questo punto di vista.

 L'azione americana in Vietnam ebbe il sostegno degli alleati della SEATO e del governo laburista inglese, ma non quello della Francia; il generale De Gaulle sostenne nel 1966, durante una visita in Cambogia che gli americani dovevano astenersi dall’esercitare pressioni sul continente asiatico. Presso l'opinione pubblica anche il consenso non era unanime, tuttavia alcuni documenti utilizzati contro gli americani vennero successivamente ritenuti poco attendibili. Gli americani avrebbero potuto agire con maggiore capacità diplomatica approfittando del contrasto cino-sovietico, ovvero di fare leva sul nazionalismo vietnamita per separare il governo di Ho Chi Minh dall'ala protettrice delle due potenze comuniste, ma gli atti di violenza dei nord vietnamiti contro i piloti americani catturati, non favorirono la soluzione politica del conflitto.

 La guerriglia Viet Cong e nord vietnamita venne condotta con grande spreco di vite umane, comunque nelle zone interne dove avevano possibilità di ritirarsi prontamente, riportarono dei successi. E' difficile stabilire il grado di consenso di cui essi godevano presso la popolazione delle campagne; in alcuni casi i contadini vennero forzati a prestare sostegno ai combattenti, secondo una statistica di fonte americana solo il 2% degli aiuti della popolazione indigena era da considerarsi spontaneo. Il governo comunista di Hanoi non ha avuto il sostegno popolare (come le successive vicende hanno confermato), la popolazione vietnamita sostanzialmente era desiderosa di pace, di sicurezza e di un certo rispetto dei diritti umani, e se non costretta non parteggiava per nessuno schieramento.

 Una parte importante della guerra venne condotta dall'aviazione americana che nel corso della guerra sganciò una quantità incredibile di bombe (superiore a quelle utilizzate durante la seconda guerra mondiale), e nel dicembre del '65 condusse un attacco contro il porto di Haiphong che avrebbe potuto avere gravi conseguenze per la presenza di navi sovietiche in rada. Le regole dell'aviazione americana nei bombardamenti in territorio nord vietnamita erano tuttavia particolarmente rigorose; erano interdetti non solo i centri abitati ma anche quegli obbiettivi eccessivamente vicini a questi. i bombardamenti strategici anche a causa dell'elevato livello della difesa contraerea, che disponeva dei migliori armamenti sovietici, si rilevarono quindi dispendiosi e relativamente poco efficaci.

 La principale operazione militare del conflitto fu l'offensiva del Thet (il capodanno buddista) del gennaio-febbraio 1968 condotta da Viet Cong e reparti militari regolari del Vietnam del Nord. In occasione delle festività religiose le forze comuniste sferrarono un grande attacco di sorpresa contro le grandi città, che finora non erano state teatro di combattimenti, fra cui la stessa Saigon e l'antica capitale imperiale Huè. La popolazione urbana non solidarizzò con gli attaccanti, e si ebbero invece una serie di atti di violenza da parte dei comunisti; nella città di Huè al termine dei combattimenti venne scoperta una fossa comune con 3.000 cadaveri di presunti oppositori politici; l'uccisione di civili da parte di guerriglieri, come quello di Dak Son, Quang Tri e An Loc  si ripeterono successivamente nel corso degli anni. L'offensiva comunista si concluse in una grave disfatta; nel giro di alcune settimane le città vennero riprese, e i guerriglieri riportarono 45.000 morti e 7.000 prigionieri contro i 3.000 dei soldati sud vietnamiti caduti e 1.500 americani. Nello stesso periodo l'esercito nord vietnamita tentò una nuova Dien Bien Phu attaccando in uno scontro campale la base militare americana di Khe Sanh presidiata da circa 6.000 uomini. L'artiglieria di Hanoi bombardò violentemente l'aeroporto, che costituiva l'unica via di riforni¬mento della guarnigione, mentre la fanteria forte di 25.000 uomini, scatenò numerosi attacchi, ma alla fine le forze comuniste con gravissime perdite dovettero cedere e ritirarsi oltre il 17° parallelo.

 I comunisti non si ripresero dalla duplice sconfitta del '68 che dopo alcuni anni, ma sul piano politico le due battaglie non costituirono un successo per gli americani; la guerra portava a delle distruzioni ritenute eccessive, l'impegno americano come costi umani e come mezzi finanziari (la guerra arrivò costare alle casse dello stato quasi 150 miliardi di dollari) risultava troppo elevato per una contesa non particolarmente rilevante a livello mondiale. Sotto la pressione dell'opinione pubblica americana ed europea, Johnson decise pertanto di sospendere i bombardamenti contro il Vietnam del Nord e di aprire negoziati, che si rivelarono inutili, (l'unico scopo da parte comunista era di ottenere la sospensione degli attacchi aerei) e consapevole degli errori commessi sulla questione vietnamita il presidente americano decise di non ripresentarsi candidato alle elezioni presidenziali successive.

 I soldati dei nuovi reparti che sostituivano le truppe americane già impegnate risultavano quindi fortemente demotivati e insofferenti ad un duro sforzo di cui non si capivano le ragioni ideali, progressivamente venne pertanto ridotto l'impegno dell'esercito (anche a causa dell'incidente di My Lai dove un giovane ufficiale americano si era reso responsabile della morte di numerosi civili), e i compiti di prima linea vennero affidati a reparti sud vietnamiti, infine sotto la presidenza Nixon il contingente americano venne notevolmente ridimensionato. Nella nuova strategia di Nixon venne data particolare importanza all'attacco delle basi logistiche Viet Cong in Cambogia (nonostante i timori di alcuni di un allargamento del conflitto), che misero in difficoltà il nemico, tuttavia senza raggiungere dei risultati soddisfacenti.

 La guerra in Vietnam non poteva non avere conseguenze nei due stati più deboli che avevano fatto parte dell'Indocina francese, la Cambogia e il Laos.

 Il regno cambogiano sotto la guida del principe Sihanouk si schierò con la Francia contro i tradizionali avversari del Vietnam, e stabilì in un primo momento buone relazioni con gli Stati Uniti dal quale ottenne consistenti aiuti economici. Il timore di un coinvolgimento nella guerra (nel 1954 le truppe comuniste vietnamite erano entrate nel paese) spinse tuttavia il governo della Cambogia ad una politica molto ambigua. Nel 1963 venne stretto un trattato d'amicizia con la Cina Popolare, il cui governo era stato riconosciuto già nel 1958, e venne chiesta la convocazione di una conferenza internazionale sulla neutralizzazione del paese, iniziativa ben vista dall'Unione Sovietica e dalla Francia, ma non dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna; i rapporti con Washington si deteriorano rapidamente, e nel '65 vennero interrotte le relazioni diplomatiche fra i due paesi. Nel 1969 il principe cambogiano consentì l'ingresso delle truppe nord vietnamite (circa 40.000 soldati) nel paese che suscitò vivo malcontento, e nell'ottobre dell'anno successivo il primo ministro e comandante militare Lon Nol, sosteni¬tore della causa d'indipendenza del paese, instaurò un governo in contrasto con il capo di stato che riparò all'estero.

 L'accordo internazionale sul Laos sancito dalla Conferenza di Ginevra del 1962 non ebbe lunga vita, e nell'anno successivo le forze del Pathet Lao e quelle nord vietnamite ripresero il controllo della parte settentrionale del paese e della Piana delle Giare utilizzata dai Viet Cong come via di comunicazione con Hanoi. Il primo ministro, il principe di tendenze neutraliste Suvanna Phuma denunciò l'ingerenza nord vietnamita e cinese (5 battaglioni cinesi penetrarono nel Laos nel dicembre '69), e con l'appoggio delle truppe sud vietnamite e dell'aviazione americana riuscì a contenere l'avanzata comunista. Nel marzo del 1970 Nixon chiese la riapertura della Conferenza del Laos, ma il paese risultava sempre più coinvolto nella guerra del Vietnam e senza possibilità di soluzione.

 Nel corso degli anni più cruenti della crisi vietnamita si aveva un ritorno di tensione in Corea. Il paese asiatico dopo la cessazione delle ostilità aveva conosciuto numerose violazioni della tregua, e una notevole instabilità. Nella Corea del Sud nel 1961 subentrò al governo civile una giunta militare, che nonostante le numerose proteste studentesche e le accuse di corruzione, si è mantenuta per lungo tempo al potere. Nella Corea del Nord con Kim Il Sung si instaurò un governo dispotico con pochi eguali al mondo (in tempi recenti sono stati documentati campi di concentramento per detenuti politici oltre confine all'interno della vicina Siberia). Il dittatore coreano si era orientato dapprima moderatamente a favore della Cina maoista, ma successiva¬mente, dopo la Rivoluzione Culturale si pose in aperta rottura con Pechino. Nel corso degli anni il divario delle due Coree venne ad approfondirsi, la Corea del Sud diventando una delle potenze industriali asiatiche (con un reddito pro capite annuo di 4.400 dollari), e il nord rimanendo in condizioni di sottosviluppo con un reddito attestato sui 1.240 dollari.

 Nel gennaio del 1968, dopo una serie di scontri di confine, fra le due Coree, cannoniere nordcoreane catturarono la nave spia americana Pueblo con 82 uomini d'equipaggio al largo del Mar del Giappone in acque internazionali. Nonostante alcuni atti di ritorsione da parte degli Stati Uniti (nel corso dei quali venne abbattuto a 90 miglia dalle coste e quindi al di fuori dello spazio aereo coreano, un aereo americano) solo nel dicembre i marinai americani, che avevano subito gravissimi maltrattamenti vennero liberati.

 I tragici eventi successivi alla proclamazione dello stato indiano (500.000 morti, 15 milioni di profughi, distruzioni di numerosi villaggi mussulmani e indù) ebbero notevole influenza sulle relazioni fra India e Pakistan e sulla politica internazionale dell'intera regione. Risolta la questione del Punjab con la divisione dello stato in due parti, rimase aperta la questione del Kashmir. Lo stato himalayano, sul quale si concentrarono gli interessi anche dei cinesi, era abitato da una maggioranza mussulmana, ma il maharajah di fede induista decise l'adesione alla repubblica indiana; si ebbe immediatamente un conflitto fra le tribù montanare appoggiate dalle truppe pakistane e l'esercito indiano, che si concluse nel 1949 con l'intervento dell'ONU che impose il cessate il fuoco nella regione.

 India e Pakistan si trovarono anche su schieramenti opposti in campo internazionale; nel 1954 il Pakistan aderì alla SEATO e nell'anno successivo al Patto di Bagdad, mentre l'India mantenne il suo neutralismo terzomondista. Negli anni successivi tuttavia, lo stato pakistano si avvicinò sempre più alla politica cinese, mentre l'India consolidò, dopo la morte di Nehru, i suoi rapporti con l'Unione Sovietica, con la quale venne firmato il trattato di cooperazione del 1971.

 Nel 1965, anno che segnò l'inizio di una grave carestia per l'India, si ebbe un nuovo conflitto indopakistano, nella regione costiera di Kutch e nel Kashmir; il governo di Nuova Delhi denunciò l'infiltrazione di truppe irregolari pakistane oltre la linea del cessate il fuoco, e attaccò il Pakistan. La Cina da alcuni anni alleata del Pakistan, approfittò della situazione per una nuova offensiva nella zona himalayana intorno alla regione del Sikkim (sul quale il governo indiano avanzava delle rivendicazioni). La Gran Bretagna sospese le forniture militari all'India, mentre gli Stati Uniti che avevano relazioni amichevoli con entrambi i contendenti, si dichiararono per il ritorno allo status quo e imposero il blocco delle forniture militari ai due governi. Lo scontro, durato alcune settimane, violento e non risolutivo, si concluse con il ritorno alle posizioni precedentemente occupate, accordo che venne sancito con la mediazione sovietica nella conferenza di Tashkent. La contesa indopakistana ebbe successivamente un nuovo sviluppo con l'appoggio del governo indiano alle rivendicazioni del Bangladesh nel 1971. Il latente contrasto fra la regione orientale del Pakistan, il Bengala, con il governo di Islamabad, esplose nella primavera di quell'anno. Alle richieste di autonomia dei partiti che nelle elezioni dell'anno precedente avevano riportato la maggioranza, il governo centrale sostenuto dalla Cina, rispose con una repressione durissima che provocò quasi un milione di morti e la fuga in India di centinaia di migliaia di persone. Nel dicembre il governo indiano con il favore dell'Unione Sovietica, decise l'intervento a favore delle popolazioni bengalesi e nel giro di breve tempo le truppe pakistane furono costrette a sgomberare il paese. La Cina, con un comportamento politico molto singolare per un paese che si proponeva come guida del sud del mondo, tenne un atteggiamento ostile verso il nuovo stato, e impedì l'accesso all'ONU della neo-nata repubblica del Bangladesh. Lo stato del Bengala, sovrappopolato e con un'economia in condizioni gravissime, ha conosciuto negli anni successivi una notevole instabilità, numerosi disastri naturali, e l'intervento dei militari al potere, che non ha favorito lo sviluppo della regione. In seguito a tali eventi nel 1974 il governo indiano decise la realizzazione della bomba atomica, facendo del proprio paese la sesta potenza nucleare.

 L'Indonesia con la sua realtà composita e le numerose etnie in contrasto con il centro di potere di Giava, non conosceva stabilità interna né buone relazioni internazionali. Il governo di Giakarta con un atto arbitrario nazionalizzò nel '57 le imprese olandesi e negli anni successivi mise in atto azioni di guerra contro la vicina Malaysia e la Nuova Guinea. Nel settem¬bre del 1965 i comunisti filo cinesi, già alleati del governo, tentarono un colpo di stato ma senza successo. L'esercito intervenuto a reprimere il movimento insurrezionale allontanò dal potere l'anziano dittatore, e oltre mezzo milione di comunisti o presunti tali, vennero eliminati nel corso della repressione. Il generale Suharto, nuovo leader del paese portò il paese su posizioni filo occidentali, ma mantenne le strutture dello stato totalitario, e continuò la politica di repressione delle minoranze etniche.

 Nel periodo in cui l'intervento USA in Vietnam entrava nel periodo di massima tensione, si aprivano nuove difficoltà in America Latina. La piccola repubblica Dominicana nel Mar delle Antille, con la sua numerosa comunità nera, aveva conosciuto un lungo periodo di dittatura. Nel 1930 salì al potere il colonnello Trujillo, che favorì lo sviluppo economico della repubblica, ma diede vita ad un regime autoritario. Il governo, in larga parte nelle mani dei componenti della famiglia del dittatore, gestì il paese come una proprietà privata, e negli anni successivi si trovò in contrasto con gli altri paesi americani (l'amministrazione Kennedy secondo alcuni tentò di eliminarlo) che stabilirono sanzioni economiche e diplomatiche per il tentato assassinio del presidente del Venezuela Betancourt. Le misure di ritorsione decise nel '60, non furono in grado di imporre una maggiore democratizzazione delle repubblica come richiesto dall'Organizzazione degli Stati Americani, e la situazione del paese precipitò l'anno successivo con assassinio del dittatore. Nonostante il disordine che seguì nel periodo successivo, vennero organizzate nel 1962 libere elezioni, che si conclusero con la vittoria del leader del Partito Rivoluzionario Democratico, Juan Bosch, di tendenze socialiste democratiche. Il nuovo leader progettò una riforma della vita politica del paese, che ebbe però breve vita e venne rovesciato da un colpo di stato militare alcuni mesi dopo.

 Nell'aprile del 1965 si verificò un tentativo non riuscito di conquista del potere da parte di esponenti vicini al deposto presidente, che provocò l'intervento militare americano, a cui si affiancarono nei giorni successivi truppe di altri paesi dell'OSA. L'intervento era finalizzato a proteggere l'incolumità dei cittadini nordameri¬cani, sventare un colpo di stato da parte di esponenti comunisti facenti parte dello schiera¬mento di Bosch ,e favorire un accordo nel paese. La riconciliazione fra le parti venne presto raggiunta, e nell'anno successivo si tennero nuove elezioni che portarono alla vittoria del partito riformista social cristiano di Balaguer, e al ritiro delle truppe.

 Nella regione non era solo la repubblica Dominicana a destare attenzioni. La situazione di Cuba nonostante gli aiuti sovietici, rimaneva difficile, dopo la statalizzazione dell'agricoltura e il fallimento dell'industrializzazione, si ebbe una grave crisi a cui il governo fece fronte con l'imposizione del razionamento alimentare. Fra il '65 e il '70 centinaia di migliaia di cittadini (mezzo milione secondo alcune fonti), soprattutto delle classi colte, fuggirono dall'isola, mentre le misure repressive non cessavano di farsi sentire. Nel corso degli anni decine di migliaia di dissidenti vennero arrestati e condannati senza processo, (20.000 secondo fonti governa¬tive) alcune migliaia vennero fucilati, e un numero superiore costretto al lavoro obbligatorio nel settore agricolo per ottenere il diritto di espatrio . La repressione non risparmiava nemmeno i dirigenti politici della vecchia guardia rivoluzionaria; nel '68 undici ex capi della rivolta del '59 vennero condannati per tradimento a lunghe pene detentive.

 Di fronte l'embargo commerciale e alla rottura dei rapporti diplomatici da parte dei paesi dell'OSA (con l'esclusione del Messico), il regime castrista adeguò la sua politica a quella sovietica, accettò la presenza di 3.000 soldati sovietici nell'isola e si allineò alla condanna del comunismo cinese. Nel '68 si ebbe una crisi passeggera fra L'Avana e Mosca conclusasi con la minaccia di un blocco delle forniture di petrolio da parte dei sovietici. A seguito di essa il regime castrista dovette rinunciare ad esportare la sua rivoluzione nel resto del continente, e ad evitare ulteriori contrasti con gli Stati Uniti.

 Anche in anni recenti si sono verificate azioni repressive contro l'opposizione e i dissidenti interni del regime. Nel 1989 venne fucilato il vecchio comandante guerrigliero Sanchez Ochoa, insieme ad altri tre alti ufficiali, dopo un processo a porte chiuse da parte di un tribunale speciale. L'accusa era di traffico di droga, ma si riteneva in realtà che uomini del regime abbiano voluto sbarazzarsi di uno scomodo testimone del commercio internazionale di stupefacenti  e del riciclaggio di denaro sporco, nel quale erano coinvolti uomini di primo piano del governo.

 Fra il '62 e il '65 si ebbe la formazione di gruppi guerriglieri in numerose parti dell'America Latina, in paesi poveri come Colombia, Guatemala, Venezuela, Perù, Bolivia ed Ecuador, ed in paesi relativamente più progrediti come, Uruguay e Argentina. Fra i protagonisti di questo fenomeno si ebbe il Che Guevara, che abbandonò Cuba per divergenze con il governo e si impegnò nella guerriglia in varie parti del mondo, e il coraggioso prete Camillo Torres, figlio di una agiata famiglia borghese colombiana, che aveva denunciato i poteri eccessivi di una ristretta oligarchia di famiglie. La guerriglia ovunque prese la forma di un movimento di contadini che lottavano contro la povertà; solo in Uruguay il movimento dei Tupamaros prese le caratteristiche di un movimento a carattere urbano. Ad eccezione dei movimenti rivoluzionari dell'America Centrale, in nessun caso i gruppi guerriglieri, che si finanziavano attraverso i rapimenti di persona, ottennero un consenso tale da rappresentare una vera minaccia per le istituzioni; le popolazioni desideravano una evoluzione graduale verso riforme sociali ed economiche, e in diversi casi la guerriglia non ebbe il sostegno dei partiti comunisti locali.

 Gli anni Sessanta rappresentarono un periodo di notevole incertezza per il mondo arabo oggetto degli appetiti delle grandi potenze. I paesi arabi del Medio Oriente sia essi soggetti a monarchie tradizionali, dittature o regimi militari non sono riusciti a darsi istituzioni rappresentative stabili, né a dare vita ad un assetto democratico dello stato; il panarabismo agitato da alcuni, rappresentava in realtà più il tentativo di imporre la propria leadership sul resto del mondo mediorientale, che non il progetto di unificazione consensuale del popolo arabo. Le grandi ricchezze accumulate negli ultimi decenni con lo sfruttamento del petrolio, hanno portato scarsi benefici alla regione, e sono state utilizzate principalmente per questioni militari che non per fini di sviluppo economico civile.

 Lo Yemen nel sud della penisola arabica costituiva uno degli stati più arretrati della regione con un tasso di analfabetismo elevato ed un reddito nazionale molto basso. Il paese, povero di materie prime, tuttavia per la sua posizione strategica, all'imbocco del Mar Rosso, godeva di un grande rilievo dal punto di vista geopolitico. La parte sud-est del paese venne nello scorso secolo occupata dagli inglesi, mentre il nord si affrancò dal dominio turco al termine della prima guerra mondiale, e divenne uno stato indipendente legato tuttavia al regno saudita.

 L'imam, capo religioso e politico dello Yemen del nord, tradizionalmente in contrasto con l'Arabia e la Gran Bretagna per la questione di Aden, orientò la sua politica estera verso l'URSS, e nel 1958 entrò a far parte della Repubblica Araba Unita. La nuova formazione politica ebbe però vita breve, di fronte all'ingerenza egiziana la Siria e lo Yemen ripresero la loro autonomia nel 1961, ma per lo stato yemenita la rottura rappresentò l'inizio di un periodo travagliato. Il capo di stato maggiore, il nasseriano Sallal, l'anno successivo proclamò la repubblica costringendo l'imam a raggiungere le tribù rimaste fedeli nel nord. L'Egitto inviò 40.000 soldati nel paese a sostegno del regime repubblicano; la guerra civile che seguì, ebbe un'attenuazione solo nel 1967 quando Nasser e re Feisal d'Arabia, che sosteneva la fazione monarchica, sottoscris¬sero un accordo. Con il ritiro delle truppe egiziane (in coincidenza con la guerra dei sei giorni) le forze favorevoli al capo religioso ripresero il controllo di buona parte del paese, ma l'intervento dei siriani e dell'Unione Sovietica nel conflitto a sostegno dei repubblicani impedirono la vittoria dei monarchici. I sostenitori dell'imam non poterono imporre il ritorno della monarchia, prevalsero comunque le forze moderate non ostili all'Occidente, e si giunse ad una precaria sistemazione del conflitto.

 Negli anni successivi si ebbe un certo raffreddamento dei rapporti fra l'Unione Sovietica e Nasser. Il Rais egiziano rinunciò alla leadership sul mondo arabo, inaugurò una politica di conferenze interarabe, e si riavvicinò alla Giordania e all'Arabia Saudita, ma diversi elementi facevano pensare ad una ripresa del contrasto con Israele. La regione continuava ad essere interessata da numerosi fermenti, fra i profughi palesti¬nesi era sorta nel 1956 Al Fatah, che dal 1964 iniziò la sua attività terroristica contro Israele. Gli incidenti di frontiera e i cannoneggiamenti dei villaggi israeliani da parte dell'artiglieria siriana aumentarono, e sorse una contesa sullo sfruttamento delle acque del Giordano. Nel 1966 infine, Nasser iniziò una serie di violenti attacchi verbali contro lo stato ebraico, strinse un accordo con Giordania e Siria, e richiese l'allontanamento della forza di pace nel Sinai. Successivamente inviò 7 divisioni (per circa 100.000 uomini e 1.000 carri armati) nella zona oltre il Canale di Suez, e pose nuovamente il blocco degli Stretti di Tiran per impedire l'accesso alle navi israeliane.

 La particolare conformazione geografica di Israele, dove la maggior parte delle grandi città si trovano in una esile striscia di terra costiera (Tel Aviv è a meno di 40 km dal confine con la Cisgiordania) non consentiva a questo paese di assicurarsi una difesa statica tradizionale. Questo problema è stato molto sentito dal governo, che ha impostato la sua difesa su una struttura militare particolarmente mobile. E' difficile comprendere le complesse vicende mediorientali se non si comprende che il timore degli israeliani non era di subire una semplice sconfitta in un eventuale conflitto, ma di essere annientati, e di subire quindi una sorte non diversa (probabilmente peggiore) di quella riservata dagli irakeni ai kuwaitiani nelle recenti vicende del Golfo Persico. Di fronte alle minacciose iniziative arabe, e ad un certo disinteresse delle grandi potenze verso il suo destino, Israele decise nel maggio del 1967 un attacco preventivo contro la coalizione araba. L'iniziativa israeliana, che passò alla storia come la "guerra dei sei giorni", fu dal punto di vista militare un operazione di eccezionale livello strategico; il 5 giugno l'aviazione distrusse al suolo quasi tutta la flotta aerea dei paesi arabi. L'azione di guerra israeliana ha dimostrato che in una guerra moderna che si svolga in spazi aperti il dominio dei cieli è di estrema importanza. Sottoposte a bombar¬damenti incessanti le truppe arabe furono costretta ad una precipitosa fuga abbandonando una quantità incredibile di materiale in mano al nemico. Nasser il giorno successivo all'attacco aereo accusò con deliberata menzogna Stati Uniti e Gran Bretagna di aver partecipato al raid aereo, e ruppe le relazioni diplomatiche con i rispettivi governi. Le iniziative politiche comunque non alterarono l’andamento delle vicende militari Gli egiziani dovettero cedere completamente il Sinai e riparare oltre il Canale di Suez, i giordani che erano entrati in guerra senza eccessiva convinzione dovettero abbandonare la Cisgiordania, che costituiva la parte più ricca del piccolo regno, e ritirarsi oltre il fiume Giordano , la Siria, che all'ultimo momento evitò di aprire il terzo fronte, attirandosi la condanna di tutto il mondo arabo, fu comunque costretta a ritirarsi dalle alture del Golan, postazione strategica molto rilevante, e solo l'entrata in vigore del cessate il fuoco impedì che le truppe israeliane arrivassero a Damasco. Il governo siriano confidava sull'intervento diretto dell'Unione Sovietica a suo favore (con la quale era legata da un trattato di cooperazione), ma Stati Uniti e Unione Sovietica si neutralizzavano a vicenda sotto questo aspetto, e le grandi potenze non poterono fare altro che mobilitare le flotte a scopo dimostrativo, richiedere la fine dei combattimenti, e stabilire la pace in base al nuovo status quo venutosi a creare.

 Oltre alla superiorità tecnica un altro elemento aveva giocato a favore di Israele la risolutezza di soldati che combattevano per la sopravvivenza del proprio stato, mentre gli eserciti arabi numericamente preponderanti, erano non particolarmente motivati e si mostravano diffidenti l'uno verso l'altro. Prima ancora dell'entrata in vigore della cessate il fuoco richiesto dall'Egitto, il Rais presentò le dimissioni, ma imponenti manifestazioni a suo favore gli consentirono di ritirarle successivamente. Sebbene i paesi alleati dell'Unione Sovietica fossero stati sconfitti, il ruolo della potenza comunista nella regione venne confermato, e anzi si rafforzò in quegli anni la presenza della flotta sovietica nel Mediterraneo orientale e nell'Oceano Indiano.

 Alla fine di agosto dello stesso anno si tenne un importante incontro di capi arabi (assenti i rappresentanti di Siria, Algeria e Tunisia) a Khartoum; i paesi maggiormente impegnati nel conflitto vennero aiutati finanziariamente dai paesi arabi più ricchi, e nella stessa sede venne deciso di tenere una linea intransigente nei confronti di Israele - né riconoscimento né negoziato - e stabilito un appoggio senza riserve alla causa palestinese. Negli anni successivi la Francia, che era stata la maggiore fornitrice di armi a Israele, di fronte alla ostilità araba ritirò il suo appoggio allo stato ebraico, ma gli israeliani non disarmarono. Nel novembre l'ONU prescrisse le condizioni per arrivare ad una pace stabile, ritiro di Israele dai territori occupati, riconoscimento del diritto di esistenza, con frontiere sicure e riconosciute, libertà di navigazione nelle acque mediorientali per gli stretti di Tiran e il Canale di Suez, l'iniziativa tuttavia non ebbe alcun seguito.

 Anche nelle regioni al di là del grande deserto sahariano la situazione politica rimaneva complessa, e l'instabilità politica diveniva un fenomeno costante; in breve tempo gran parte degli stati africani si avviò verso dittature militari e governi dispotici che impedi-rono lo sviluppo economico e politico di quei paesi, e in alcuni casi tali governi si resero responsabili di incredibili fatti di sangue.

 La Nigeria con le sue ricchezze petrolifere, e le sue regioni popolose, costituiva uno dei più importanti paesi dell'Africa subsahariana. Il paese già colonia inglese, raggiunse l'indipendenza nel 1960 insieme a diversi altri paesi del continente africano, ma la sua eterogenea composizione etnica fu alla base di una instabilità politica gravissima. Nel 1966 la tensione fra gli Ibo, gli abitanti della ricca regione a est del Niger, il Biafra, e le popolazioni mussulmane del nord, sfociò in sanguinosi scontri armati, e nell'anno successivo le popola-zioni biafrane proclamarono unilateralmente l'indipendenza. La questione nigeriana venne resa più complessa da problemi internazionali, buona parte degli stati africani e la Gran Bretagna (che attraverso la British Petroleum, controllava una parte delle risorse petrolifere), sosteneva il governo centrale nigeriano, (che tuttavia per gli armamenti era legato all'Unione Sovietica) mentre gli Stati Uniti, e più apertamente la Francia gollista, appoggiavano la causa del Biafra. La guerra civile durò oltre due anni, ed ebbe conseguenze catastrofiche con due milioni di vittime a causa dei combattimenti e della conseguente carestia nella regione controllata dagli insorti; le truppe nigeriane ebbero alla fina la meglio, e nel 1970 gli Ibo furono costretti alla resa.

 Nello stesso periodo si verificava uno stato di tensione che avrebbe potuto degene-rare in conflitto, fra la Guinea, paese legato economicamente all'Unione Sovietica, e il Costa d'Avorio filo francese. Alcuni anni dopo, nel 1970 si verificò un'incursione di mercenari contro alcuni obbiettivi civili guineani; l'azione suscitò le proteste di molti paesi africani e l'invio di aiuti al governo di Conakry da parte dell'Egitto e della Nigeria. Successivamente si poté stabilire che si trattava di un'operazione gestita dal Portogallo contro il comando dei guerriglieri del Fronte di Liberazione della Guinea Portoghese.

 Nel corso degli anni della crisi mediorientale si sono verificati altri motivi di tensione nel bacino del Mediterraneo, che hanno interessato in particolare ex possedimenti britannici. A varie riprese il governo spagnolo ha chiuso la frontiera ed effettuato dimostrazioni navali al largo del possedimento britannico di Gibilterra; della questione se ne erano interessate anche le Nazioni Unite, ma nel '67 con un referendum una maggioranza amplissima dei 31.000 abitanti del piccolo territorio si è espressa per il mantenimento dei legami con la madrepatria inglese. Nel 1964 un altro importante territorio d'oltre mare inglese, l'isola di Malta, raggiungeva la piena indipendenza; dopo un periodo di attriti con la Gran Bretagna, a causa di una grave crisi con la vicina Libia, si aveva un riavvicinamento con la ex potenza dominatrice.

LA RIVOLUZIONE CULTURALE CINESE

E IL RIAVVICINAMENTO CON GLI STATI UNITI

 La Rivoluzione Culturale o più esattamente la "rivoluzione totale per l'instaurazione della cultura della classe lavoratrice" secondo la denominazione ufficiale, ha costituito uno dei fenomeni più controversi della nostra storia recente; è stata considerata come un movimento di democrazia diretta e di autorganizzazione spontanea delle masse, che ha attirato le simpatie di quella parte della sinistra marxista insoddisfatta del modello sovietico, ma sotto altri aspetti rappresentò il perfezionamento del regime totalitario esistente attraverso la eliminazione delle categorie ritenute meno integrate nel regime. La rivoluzione culturale venne portata avanti da quegli stessi esponenti che avevano sostenuto alla conferenza internazionale dei partiti comunisti a Mosca del 1957 la necessità di una direzione accentrata del movimento comunista, che avevano contestato la condanna del culto della personalità, e che successivamente si erano espressi a favore della invasione dell'Ungheria e della soppressione di Imre Nagy. Significativo anche il fatto che, come nella precedente campagna dei Cento Fiori, la libertà di espressione sia stata concessa e ritirata dall'alto; ed inoltre è ben difficile pensare che un paese che si reggeva su metodi repressivi di massa (i gulag cinesi, i cosiddetti Laogai), che non conosceva garanzie di diritto, potesse costituire un modello per altri popoli. Molti fattori fanno invece ritenere che la rivoluzione culturale fosse solo in parte un movimento spontaneo (alcune istituzioni non vennero mai sottoposte a critica), dove si poneva sullo stesso piano il fanatismo con la libertà, la violenza livellatrice con lo spirito d'eguaglianza, l'indottrinamento acritico con l’educazione delle masse.

 In Unione Sovietica la presenza di intellettuali come Sacharov e Solgenitsin ha dato risalto alle persecuzioni del regime contro gli oppositori, mentre in Cina il fenomeno sebbene di portata non inferiore a quello staliniano, è passato relativamente sotto silenzio e ha avuto scarso interesse presso l'opinione pubblica.

 La Rivoluzione Culturale non ha creato uno stato diverso, le facce sorridenti dei contadini dei filmati diffusi in Occidente, non potevano occultare la rigida dittatura, e dietro la teorizzazione dei "medici scalzi" si celava la supremazia delle categorie più facilmente sottomesse su ciò che poteva essere "non integrato", e tali erano le categorie colte in genere. La Rivoluzione Culturale con le sue violenze, con le distruzioni del patrimonio storico artistico e le "rieducazioni" ha assunto caratteri tali da ricordare la realtà raccontata da George Orwell nei suoi romanzi.

 Lo scontro fra i maoisti e i sostenitori del presidente della repubblica e capo dei sindacati operai Liu Shao Chi, favorevole ad un certo grado di autonomia dello stato e dell'economia dal controllo politico, si fece più intenso nel 1965 senza comunque dare seguito ancora a quelle agitazioni di massa che caratterizzarono il periodo successivo. Nei primi mesi dell'anno successivo lo scontro prese un andamento favorevole a Mao Tse Tung che, grazie all'inter¬vento dell'esercito, riuscì a destituire il sindaco di Pechino Peng Zhen e a prevalere nel Comitato Centrale del partito. Oggetto della lotta non furono solo i tecnocrati e i pragmatisti dell'apparato dello stato, ma anche gli intellettuali come lo storico Wu Han e il presidente dell'accademia delle scienze Kuo Mo-jo contrari all'autoritarismo populista maoista. Scuole e università, ritenute luogo di incontro di categorie non controllabili come quelle di studenti e intellettuali vennero chiuse. Chiunque desse segni di scarso conformismo verso il regime, ma anche chi conosceva una lingua straniera o aveva soggiornato in paesi stranieri, fu oggetto di critiche e pesanti attacchi che si concludevano nel migliore dei casi con umilianti esposizioni in pubblico dell'accusato. Nell'estate di quell'anno venne costituito ad opera del ministro della difesa Lin Piao, il movimento delle Guardie Rosse, formato da giovani sostenitori ardenti e dogmatici del presidente Mao, "guida geniale" del paese; il movimento promosse grandi manifestazioni (gestite dall'organizzazione militare), con distruzioni di opere storico artistiche ritenute residuo del passato, e innumerevoli azioni di contestazione verso i dirigenti di partito giudicati controrivo¬luzionari.

 Durante la Rivoluzione Culturale tutta la società venne sottoposta ad una pressione propagandistica che non aveva eguali in altre parti del mondo. Attraverso i mezzi di comuni-cazioni ordinari, stampa e radio, e attraverso ta-zebao, altoparlanti nelle piazze venivano diffusi gli slogan della rivolta; le rare librerie non chiuse dal regime non esponevano che le opere del grande maestro. Particolare attenzione venne data al contatto diretto con le masse. Nei luoghi di lavoro durante le pause i lavoratori si riunivano per discutere di politica; in queste discussioni, che nulla avevano in comune con il dibattito come è inteso in Occidente, ogni contributo personale, e ogni critica era rigorosamente bandita; non solo la vita sociale, ma anche quella privata dell'individuo veniva sottoposta a controllo, e i comportamenti ritenuti non conformi aspramente criticati. La rivoluzione si fondava su parole d'ordine facilmente comprensibili alle masse: "non bisogna pretendere di dare lezioni alla masse", "bombardare il Quartiere Generale" e "occupatevi degli affari dello stato", si trattava di affermazioni di immediato effetto e ispirate da un fideismo senza limiti; il nostro "credo deve essere saldo e irremovibile" ripetevano con monotonia i nuovi rivoluzionari "il pensiero di Mao è l'incarna¬zione del marxismo-leninismo in Cina, e il simbolo della verità" .

 La scuola e l'insegnamento furono al centro della nuova politica, anche le discipline strettamente tecniche non dovevano essere neutre ma tendere all'esaltazione del pensiero di Mao. Professori, studenti e chiunque altro emergesse in qualche modo dalle masse, magari solo perché trovato in possesso di libri occidentali, divenne oggetto di critiche. Anche la religione naturalmente non poteva rimanere immune dalla rivoluzione; i templi buddisti, le moschee, come le chiese cattoliche e protestanti, vennero chiuse e numerosissimi membri del clero sottoposti a "rieducazione".

 Nella fase più calda della rivoluzione ogni autorità venne messa in discussione, e nel paese, portato in una situazione di quasi guerra civile, si verificarono ondate di scioperi dei gruppi operai favorevoli ad una linea più "ortodossa" del partito contro le vessazioni delle Guardie Rosse; la protesta operaia non ebbe lunga vita e venne repressa con particolare brutalità dalle forze che si richiamavano al maoismo più rigoroso.

 Rapidamente come era sorto il movimento degli studenti venne riportato all'ordine; nel gennaio del 1967 all'esercito venne affidata la gestione delle scuole e la restaurazione della disciplina. In tutto il paese vennero costituiti Comitati rivoluzionari formati da rappresentanti delle Guardie Rosse, dell'esercito, ed esponenti del partito favorevoli alla linea di Mao, il quale già dall'ottobre in un messaggio aveva sottolineato la superiorità del ruolo delle forze armate rispetto a quella della classe operaia, e di questa sulle Guardie Rosse. Nel luglio del 1967 si verificarono scontri armati nel grande centro industriale di Wuhan e nelle città di Canton e Shangai domati solo dall'intervento dell'esercito il cui ruolo acquistava una sempre maggiore rilevanza. Una nuova ondata di repressioni si abbatté contro gli intellettuali e gli studenti che in gran parte vennero inviati al lavoro agricolo più o meno coatto in regioni remote dove non potessero costituire una minaccia per la società; le scuole riaperte progressivamente dopo alcuni anni vennero sottoposte alla autorità di Squadre di Controllo operaio; al termine della rivoluzione si contarono oltre mezzo milione di morti e circa una trentina di milioni furono i deportati.  

 Liu Shao Chi e Peng Te Huai, uomini che avevano fatto la rivoluzione del '49, e non uomini d'apparato come sostenuto dai maoisti, vennero emarginati dal potere. Nel '68 dopo numerosi attacchi Liu venne definitivamente deposto, e l'anno successivo troverà la morte in seguito ai maltrattamenti subiti; 22.000 simpatizzanti del presidente vennero arrestati e centinaia di migliaia di esponenti del partito esiliati nelle province interne del paese.

 Nell'aprile del '69 si tenne il 9° congresso del partito che da undici anni non veniva più riunito, l'assemblea del partito, i cui lavori vennero in massima parte tenuti segreti, sancì la vittoria dell'esercito, della direzione verticistica del movimento comunista, e l'affermazione di Lin Piao. Due anni dopo però, il “Trotzsky cinese” sparì in un misterioso incidente aereo dopo essere stato accusato di complotto. Epilogo della rivoluzione culturale fu la condanna dell'invasione sovietica della Cecoslovacchia ma anche dell'esperimento riformista di Dubcek, giudicato come una iniziativa politica revisionista. La crisi economica seguente la rivoluzione culturale costrinse la Cina ad importare sedici milioni di tonnellate di cereali.

 I progressi economici della Cina in venticinque anni di maoismo erano stati notevoli nel campo dell'industria (almeno limitatamente alla trasformazione di base), settore economico che al momento della nascita della Repubblica Popolare risultava quasi inesistente, ma molto deludenti nel campo agricolo, non diversamente da quanto avvenuto in Unione Sovietica. Nel 1953 a fronte di una popolazione di 540 milioni di abitanti la produzione cerealicola ammontava a 157 milioni di quintali, mentre nel 1973 la popolazione era cresciuta a 800 milioni di abitanti e il raccolto garantiva 250 milioni di quintali di cereali. La produzione agricola pro capite pertanto era rimasta quasi invariata nel corso del ventennio.

 Nel 1964 la Cina diede inizio al suo primo esperimento nucleare che non poteva suscitare notevole emozione viste le idee dei dirigenti cinesi riguardo ad una guerra totale; il governo di Pechino evitò comunque di perseguire quella politica estera aggressiva che aveva in precedenza suggerito ai dirigenti di Mosca e che era stata la causa del contrasto cino-sovietico. Dopo l'insuccesso della crisi di Cuba nel '62 anche la Cina preferì moderare, se non il linguaggio che rimase aspro come sempre, la sua azione politica reale, e la crisi dello stretto di Formosa, che aveva avuto qualche sintomo di risveglio nel '59 e nell'estate del '62 venne definitivamente chiusa. La politica estera cinese risultò sempre più dominata dallo scontro con l'URSS; dopo il confronto con Mosca sulla questione della strategia del comunismo mondiale, la contesa negli anni successivi divenne su questioni territoriali. La Cina riteneva che i trattati ineguali imposti nel corso dei secoli precedenti avessero provocato la perdita di numerosi territori di frontiera a favore dello stato russo. Secondo i principi del comunismo, nello stato del proletariato le questioni dei confini nazionali perdono di significato, ed il regime comunista inoltre non riconosceva alcuna continuità con lo stato imperiale precedente, tuttavia il governo di Pechino non intendeva rinunciare alle pretese territoriali verso Mosca.

 La polemica nei confronti del comunismo sovietico non si è attenuata anche con i nuovi dirigenti del Cremlino. Nel 1965 il viaggio di Kossighin risultò totalmente infruttuoso, e nel '67 si verificò l'assalto della ambasciata sovietica a Pechino da parte di sostenitori del movimento delle Guardie Rosse, seguita da analoghi tumulti a Mosca contro la rappresentanza cinese. Negli anni successivi si verificarono diversi incidenti di frontiera, il più grave dei quali avvenne per un minuscolo isolotto fluviale del fiume Ussuri nel '69 che costò la vita a 23 soldati sovietici; a questo seguirono spostamenti di truppe sovietiche verso la Mongolia e di unità navali nel Pacifico, e quindi altri scontri con un numero non conosciuto di morti nel Sinkiang e sul fiume Amur. Nel '71 venne decretato in Cina lo stato d'allarme, diversi fattori facevano ritenere possibile uno scontro su vasta scala fra le due potenze comuniste; il governo cinese ritenendo che da un simile conflitto avrebbe riportato conseguenze disa-strose moderò i toni della polemica, e successivamente si impegnò per un miglioramento delle relazioni con gli Stati Uniti.

 Il riavvicinamento con gli Stati Uniti non era da considerarsi facile, neanche Kennedy che nel passato aveva contribuito al miglioramento dei rapporti Est-Ovest, aveva mai mostrato disponibilità per la Cina comunista (e nel '62 lanciò anzi un severo monito al grande paese asiatico) né era da ritenersi facile un miglioramento rapido negli anni successivi. La riapertura del dialogo fra le due potenze avvenne invece in maniera abbastanza improvvisa; alla fine del '71 venne annunciato che la Cina Popolare poteva occupare il seggio all'ONU che fino allora era stato assegnato alla Cina nazionalista, e che nei mesi successivi si sarebbe tenuto un incontro fra Nixon e i capi di Pechino. Nello storico incontro venne discusso il problema di Taiwan, sul quale il governo cinese si impegnava a non adoperare la forza contro l'isola, e gli americani ad un minore impegno a favore del governo nazionalista, inoltre venne trattato il problema della pace in Vietnam e delle altre questioni asiatiche aperte, sui quali tuttavia si ebbero solo risultati parziali. Il riavvicinamento USA-Cina destò stupore fra gli alleati filo occidentali asiatici, come a Mosca, ma suggellò la politica più prudente della Cina in tutto il continente negli anni successivi. Il governo di Pechino rinunciò ad ogni disegno di imperialismo limitando radicalmente (a parte nel 1979 un attacco contro il Vietnam per alleggerire la pressione di questi sulla Cambogia) i suoi interventi all'esterno. La distensione fra Cina e Stati Uniti favorì in breve tempo anche un miglioramento dei rapporti  con il Giappone e l'Europa

  Taiwan, la roccaforte dei nazionalisti cinesi, è rimasta fino al 1988, anno della morte del figlio di Chiang Kay Shek, un paese di frontiera. La piccola isola (che ospita comunque una popolazione di 20 milioni di abitanti) ha conosciuto un incredibile sviluppo economico, ma una non facile politica interna e internazionale. Con un reddito pro-capite di 8.000 dollari l'anno, oltre 20 volte superiore a quello della Cina continentale, poteva aspirare ad un importante ruolo nell'economia mondiale, ma il governo di Taipei era riconosciuto ufficialmente solo da una ventina di piccoli stati (opportunamente ricompensati per questo servizio) e la sua situazione nel campo del diritto internazionale suscita notevoli preoccupazioni.

 Sul piano interno il Kuomintang, pur rimanendo formalmente il partito dei tre principi di Sun Yat Sen, (unificazione nazionale, democrazia politica, democrazia economica), ha dato vita ad una rigida dittatura, e la legge marziale proclamata all'indomani dell'arrivo degli esuli, è rimasta in vigore per 39 anni impedendo qualsiasi forma di dissenso. Per un lungo periodo di tempo l'isola, che ha continuato a proclamarsi Repubblica di Cina e a chiamare il governo di Pechino "banditi comunisti", è stata governata in maniera dispotica dalla famiglia del dittatore; solo in tempi recenti sono stati allontanati dl potere gli anziani capi militari e il paese ha compiuto importanti passi in avanti nel campo della democratizzazione e del miglioramento delle relazioni con l'altra Cina. Il nuovo governo ha poi lanciato una proposta che potrebbe avere incredibili risvolti; la creazione di una grande aggregazione economica fra Taiwan, Hong Kong, la regione di Canton e di Shangai e le altre regioni speciali cinesi ad economia liberista, che porterebbe alla dissoluzione della Cina Popolare e alla formazione di un importante polo economico mondiale.

LA RIPRESA DELL'ESPANSIONISMO SOVIETICO

 La prima metà degli anni Settanta fu un periodo particolarmente felice per la distensione internazionale ma non risolutivo. I successi ottenuti vennero sopravvalutati, e dal 1974-75 si assistette ad una ripresa dell'espansionismo sovietico, e ad un deterioramento delle relazioni fra Est e Ovest, anche se non si verificarono nuove sfide dirette fra Stati Uniti e Unione Sovietica.

  Il superamento della questione tedesca, che aveva costituito la controversia più grave fra Est e Ovest, gli Accordi di Helsinki (che sancirono una situazione di favore all'URSS), gli accordi commerciali a favore dell'Unione Sovietica, non portarono ad una stabile distensione, né a soddisfare le continue pretese dei sovietici; le minacce nel corso della guerra arabo israeliana del 1973, i mercenari cubani in Africa, lo schieramento dei missili "a media gittata" contro l'Europa, ed infine l'invasione dell'Afghanistan, costituirono la risposta sovietica alle proposte di distensione, e confermarono che da parte di Mosca non vi era una reale volontà di raggiungere un giusto accordo con l'Occidente. L'idea di contenere le spinte imperialistiche di una nazione accogliendo una parte delle sue richieste si confermò ancora una volta una politica improduttiva. Gli Stati Uniti compresero tale situazione prima dei governi europei, e nel 1974 venne approvato l'emendamento Jackson-Vanik, con il quale lo scambio commerciale con l'URSS veniva condizionato a una diversa politica dei diritti umani da parte dei sovietici.

 Se si eccettua la questione del Portogallo, come nel precedente decennio comunque i nuovi contrasti si giocarono tutti all'interno del Terzo Mondo.

 Nei paesi del Terzo Mondo i sistemi politici pluralistici costituiscono una minoranza, e le democrazie autentiche come sono intese in Occidente sono praticamente inesistenti; si hanno quindi regimi che adoperano la violenza come strumento ordinario di potere e dove non esiste alcuna forma non solo di democrazia ma di legalità; è il caso della Birmania, dell'Etiopia di Menghistu, della Cambogia di Pol Pot, della Corea del Nord, dell'Irak. Un'altra categoria di stati è quella dei regimi dittatoriali che non ricorrono a persecuzioni di massa, ma dove il potere è concentrato in una ristretta oligarchia e il rispetto dei diritti umani risulta comunque molto precario, è il caso della maggior parte dei paesi africani, infine si hanno regimi che ammettono una certa tolle¬ranza, dove esistono istituzioni legalitarie e almeno in via ordinaria sono rispettati i diritti umani, come nel caso dell'India e dell'Egitto. La situazione di questi paesi ha fortemente condizionato le scelte degli schieramenti esistenti.

 Nel 1972 l'Unione Sovietica dovette rinunciare ad uno dei più importanti alleati, l'Egitto. Dopo aver sottoscritto nel 1971 l'accordo di amicizia con i sovietici il presidente egiziano successivamente chiese l'allontanamento dei numerosi tecnici e consiglieri sovietici nel paese ritenendo che svolgessero una forma d'ingerenza nella politica della nazione. Il presidente egiziano Sadat diede quindi inizio ad una politica moderata che lo portò successivamente al riavvicinamento con i governi occidentali e al contrasto con i governi arabi più estremisti.

 Nell'ottobre del 1973 in occasione delle festività ebraiche dello Yom Kippur, l'Egitto che disponeva di un esercito numericamente e qualitativamente superiore a quello di Tel Aviv, d'accordo con la Siria, decise l'attacco delle truppe israeliane nel Sinai. L'azione militare secondo le concezioni egiziane aveva come fine non la distruzione di Israele, ma la ripresa di quei territori perduti nel conflitto del '67. L'attacco ebbe un certo successo, ma non dispo-nendo di una potente aviazione gli egiziani dovettero limitarsi a riconquistare quella fascia di territorio che poteva essere protetta dalle batterie missilistiche antiaeree a terra. Nei giorni successivi Israele completava la mobilitazione dei riservisti, riuscì a contenere l'avanzata e a riprendere l'iniziativa. Il 10 ottobre l'Unione Sovietica iniziò a rifornire i paesi arabi di materiale bellico, e sei giorni dopo anche gli americani adottarono le stesse misure nei confronti di Israele, mentre i paesi dell'OPEC decisero alcuni provvedimenti (raddoppio del prezzo del petrolio e riduzione delle forniture a quei paesi europei che sostenevano Israele) al fine di costringere gli occidentali a rinunciare alle proprie posizioni, peraltro molto moderate.

 La guerra dello Yom Kippur costituì un tipo di guerra caratterizzata da numerosi vincoli di natura politica. L'attacco siriano condotto con forze soverchianti improvvisamente cessò quando si avvicinò agli insediamenti ebraici, così come il contrattacco israeliano successivo venne bloccato quando era giunto alle porte di Damasco e sul fronte egiziano in prossimità delle grandi città arabe. Si trattava di una guerra che aveva un preciso corrispon-dente nel campo dei rapporti diplomatici USA-URSS; la partita doveva essere limitata ad un campo ristretto e nessuno dei contendenti poteva portare a termine un colpo mortale per l'avversario.

 Sebbene le grandi potenze avessero mantenuto un atteggiamento molto prudente, il 24 ottobre l'Unione Sovietica annunciò che avrebbe assunto iniziative più decise e che "...qualora non si riesca ad operare congiuntamente su questa faccenda, [è Breznev che parla] mi sentirò autorizzato a prendere iniziative unilaterali"  successivamente si venne a sapere che 7 divisioni aviotrasportate russe erano pronte per un intervento, mentre la 6° Flotta americana e il sistema di difesa nucleare era stato messo in stato d'allarme da Nixon, il quale fece sapere che "qualsiasi azione unilaterale da voi presa sarebbe per noi della massima gravità e foriera di imprevedibili conseguenze" ; l'episodio risultava significativo, anche in pieno periodo di distensione i numerosi appelli alla pace e alla moderazione potevano essere da un momento all'altro essere superati come nei periodi peggiori della guerra fredda.

 Le conseguenze della quarta guerra araboisraeliana vennero abbastanza rapida¬mente superate, l'Egitto si avvicinò sempre più alle posizioni americane e a quelle dei paesi arabi moderati e nel '74 si poté giungere alla riapertura dell'importante via d'acqua del Canale di Suez, e all'avvio di colloqui di pace dai quali venne sostanzialmente estromessa l'Unione Sovietica.

 Negli stessi anni veniva a crearsi un nuovo focolaio di crisi in Libano, le cui vicende si presenteranno in larga parte influenzate dagli avvenimenti più generali del Medio Oriente. Il piccolo e florido stato arabo era la sede di numerose attività commerciali e finanziarie che avevano fatto del paese la Svizzera della regione mediorientale, ma la notevole eterogeneità di gruppi e di confessioni religiose, cristiani maroniti, greco ortodossi, mussulmani sunniti, sciiti e drusi non consentirono la stabilità del paese. La situazione già precaria, venne ad aggravarsi quando i profughi palestinesi cacciati dalla Giordania si rifugiarono in massa nel sud del paese costituendo una sorta di stato autonomo.

 Nel 1975 iniziò il conflitto fra mussulmani e cristiani, conseguente agli scontri fra esercito e palestinesi, che in breve tempo degenerò in una guerra caotica con numerose fazioni indipendenti e altrettanti capovolgimenti di fronte. Oltre ai liberali nazionali di Chamoun, ai falangisti di Pierre Gemayel, ai socialisti drusi di Jumblatt, non mancavano formazioni delle più singolari come i nazionalsocialisti del PPS legati al governo siriano. Nell'anno successivo si ebbe l'intervento in veste di moderatore dell’esercito di Damasco che si insediò stabilmente nella Valle della Bekaa e in altre parti del territorio, con l'eccezione della zona meridionale, nel timore di uno scontro diretto con Israele. I siriani dapprima combatterono i palestinesi e altre formazioni mussulmane, poi quelle cristiano maronite con violenza, provocando una protesta internazionale. Nel 1978 il sud del Libano venne invaso dalle truppe israeliane; l'intervento non poté impedire il ritiro dei guerriglieri dell'OLP a nord con pochis¬sime perdite, ma l'esercito di Tel Aviv riuscì a creare comunque nella regione una milizia cristiana in funzione antipale¬stinese. In base ad una risoluzione dell'ONU venne creata una forza di pace in quella regione; il governo israeliano accettò di ritirare le proprie truppe, ma i caschi blu furono del tutto impotenti a garantire la pace nella regione e gli attacchi dei commandos palestinesi ripresero seguiti dalle rappresaglie israeliane.

 Nel 1982 si ebbe un nuovo intervento israeliano in Libano che si spinse questa volta fino ai sobborghi di Beirut, nel corso del quale le truppe israeliane assestarono durissimi colpi alle forze siriane. Nel medesimo tempo si ebbero due importanti iniziative, la creazione di una forza di pace formata da Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Italia, incaricata dell'evacuazione dei combattenti palestinesi, e un tentativo di pacificazione da parte degli stessi paesi che ebbe però scarso esito. Nel martoriato paese si ebbero gravissimi atti di violenza; un attacco con autobombe di un commando hezbollah suicida che provocò la morte di 240 marines americani, seguito da un analoga azione nella quale perirono 58 soldati francesi, e da un grave eccidio compiuto da milizie cristiane nei campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila. Si ebbe la costituzione di un governo fra le fazioni non estremiste e realmente rappresentative del paese, ma il Libano non poté comunque avviarsi al ritorno della legalità a causa soprattutto dell'affermarsi dei movimenti fondamentalisti sciiti in contrasto con i palestinesi. Nel 1989 vennero sottoscritti gli accordi di Taif che riconoscevano l'egemonia siriana nel paese; tale situazione ottenne l'avvallo internazionale, confermato, una volta eliminate le milizie cristiane filo irakene di Michel Aoun, dalla partecipazione siriana alla guerra del Golfo. Attraverso l'alleato siriano l'Unione Sovietica riportò un successo nella regione senza mai doversi impegnare in prima persona.

 Dopo gli accordi sulla Germania del '70-'73 la situazione dell'Europa settentrionale e centrale risultava stabilizzata e acquistava importanza il fianco sud della NATO, il Mediterraneo, che garantiva l'accesso alle materie prime e al petrolio del Medio Oriente. Il biennio 1974-75 fu molto importante per i paesi dell'Europa meridionale dove si ebbe la caduta di tre governi totalitari, dei quali quello spagnolo e portoghese costituivano i regimi di maggiore durata del secolo.

 Il Portogallo aveva conosciuto un lungo periodo di dittatura che aveva mantenuto il paese in uno stato di arretratezza, con un elevato tasso di analfabetismo fra la popolazione, aggravato dalla particolare situazione economica del paese. Circa il 40% del bilancio dello stato infatti era destinato al mantenimento di un sistema coloniale iniquo e anacronistico, che aveva creato gravi scompensi nel paese.

 In questa situazione si ebbe nel 1974 una insurrezione militare che senza difficoltà riuscì ad estromettere dal potere il dittatore Caetano, successore di Salazar, e ad instaurare una giunta militare al potere, ma non a creare le condizioni per una democrazia e per il ristabilimento della legalità. Il generale Spinola, l'esponente di maggiore rilievo degli insorti e capo provvisorio dello stato, venne allontanato dal potere, mentre a capo del governo venne posto il colonnello Vasco Goncalves di tendenze comuniste; contemporaneamente nel paese si moltiplicavano le interferenze della giunta militare nella vita politica del paese e le minacce contro l'opposizione e la stampa. Il timore di una nuova dittatura era aggravato dall'orientamento politico del partito comunista di Cunhal contrario all'eurocomunismo e vicino alle posizioni di Mosca, con la quale vi erano stati contatti riguardo in particolare la concessione di una base navale a Madera. Nell'elezioni dell'anno successivo, alle quali non vennero ammessi i partiti "borghesi", i socialisti e i socialdemocratici riportarono il 64%, mentre i comunisti non ebbero più del 13%. Seguirono rivolte anticomuniste a carattere locale, e un nuovo tentativo insurrezionale da parte di comandanti militari filo comunisti, fallito per l'opposizione del presidente Eanes. Nelle nuove elezioni indette nel 1976 vennero confermati i risultati precedenti, e il paese si avviò alla normalità con l'aiuto economico da parte degli altri paesi europei.

 I fatti del Portogallo ebbero un vasto rilievo in Europa (non minore dei fatti cileni di alcuni anni prima); anche nei paesi occidentali erano presenti forze comuniste che intendevano gestire il potere ignorando la volontà popolare, e con atti di forza non diversi da quelli cecoslovacchi del '48; il tentativo autoritario mise in difficoltà coloro che parlavano di eurocomunismo e di “terza via” come conciliazione fra sistemi politici occidentali e socialisti.

 Nello stesso anno dell'insurrezione militare che metteva fine alla dittatura portoghese, la giunta militare al governo in Grecia dal 1966 di fronte al fallimento della questione cipriota era costretta a cedere il potere, e nel 1975 alla morte del generalissimo Franco, in Spagna ritornava sul trono il re Juan Carlos, che con intelligenza ed equilibrio portava il paese alla democrazia.

 Intorno alla metà degli anni Settanta i sovietici preso atto della defezione di alcuni alleati come l'Egitto, l'Indonesia, l'Algeria, il Ghana e la stessa Cina, ritennero quindi che la politica di amicizia iniziata da Kruscev con regimi non strettamente comunisti non avrebbe portato a risultati produttivi, e diedero inizio ad una politica estera più aggressiva, che culminò nell'utilizzo dei mercenari cubani nel continente africano e nell'intervento diretto in Afghanistan. L'Africa centro australe e orientale divenne in particolare il territorio dove Mosca puntò le sue attenzioni, e dove per un certo periodo fu in grado di porre dei potenziali ostacoli al traffico marittimo lungo il Mar Rosso.

 L'Etiopia costituiva uno dei paesi africani più arretrati nonostante alcune iniziative costituzionali tese a democratizzare (almeno formalmente) la vita politica del paese. La guida politica dello stato spettava in forma esclusiva all'imperatore, massima figura della chiesa copta e vertice della struttura feudale che di fatto esercitava il potere. Nel 1960 il governo di Adis Abeba decise unilateralmente l'annessione dell'Eritrea, paese mussulmano al quale era legato da un patto di federazione, iniziativa che provocò il sorgere di un attivo movimento di guerriglia sostenuto dai paesi arabi.

 In seguito a diverse agitazioni, anche all'interno della corte imperiale, e al verificarsi di una grave carestia nel paese, si ebbe nel 1974 una sollevazione militare di giovani ufficiali che destituì il governo e successivamente anche lo stesso imperatore. Nei mesi successivi iniziarono una serie di contrasti e violenze all'interno dei vertici militari nel corso dei quali il capo del governo, il generale eritreo Aman Andom, filo occidentale, venne passato per le armi insieme ad una sessantina di alte personalità dello stato.

 Nell'anno successivo morì in circostanze misteriose il deposto imperatore e venne dato l'avvio alla collettivizzazione forzata della terra che provocò rivolte cruente in tutto il paese. Nel 1977 infine, un nuovo colpo di stato militare portava al potere il colonnello Menghistu, e dava luogo ad una vasta e sanguinosa repressione contro gli oppositori e le tribù ritenute ostili, che si concludeva con numerose migliaia di morti e un milione e mezzo di profughi. Uno dei primi atti del nuovo regime fu di assicurarsi l'appoggio dell'Unione Sovietica che si rivelò particolarmente ampio; il governo di Mosca provvide all'invio di materiale bellico per due miliardi di dollari, 20.000 mercenari cubani per la repressione dei movimenti indipendentistici e 3.000 tecnici sovietici e tedesco orientali. Negli stessi anni si intensificava nonostante l'opera di repressione del governo, la guerriglia in Eritrea sottoposta a sfruttamento da parte del governo centrale (con occupazioni di terre da parte dei vicini gruppi etnici) e nell'Ogaden, una vasta regione semi desertica, abitata da popolazioni somale.

 Il sostegno sovietico al regime etiopico modificò notevolmente gli equilibri della intera regione africana. La Somalia, dove dal 1969 era al potere un gruppo di militari che aveva dato vita, sotto la guida di Siad Barre, ad uno stato socialista fortemente autoritario denunciò gli accordi economici e la concessione di basi militari all'URSS. Anche il Fronte di Liberazione Eritreo e il Fronte Popolare di Liberazione Eritreo di tendenze marxiste, che avevano condotto un'efficace azione di guerriglia contro l'esercito etiopico, ruppero i rapporti con Mosca e ripresero i contatti col mondo occidentale.

 Nel 1977-78 il contrasto sull'Ogaden degenerò in conflitto aperto fra Etiopia e Somalia; a causa del sempre maggiore apporto militare straniero al regime etiopico il conflitto si concluse a favore del governo di Adis Abeba, ma negli anni successivi il paese comunista ha conosciuto altre difficoltà. Nel 1984 e nel 1987 due terribili carestie hanno sconvolto il paese e provocato la morte di oltre due milioni di persone. Nello stesso tempo venne a mancare l'appoggio sovietico, e l'estendersi della rivolta al Tigrai, all'Oromo, e ad altri gruppi contrari alla dittatura, provocarono la caduta del regime di Menghistu che la tardiva disponibilità ai negoziati non poté impedire.

 Negli stessi anni la caduta della dittatura in Portogallo ebbe un'altra importante conseguenza con l'avvento di nuove forze politiche nel continente africano. La storia delle due principali e sfortunate ex colonie portoghesi, Angola e Mozambico, è abbastanza simile sebbene la prima disponesse di ricchezze naturali nettamente superiori e fosse presente una più numerosa comunità bianca. Anche nelle vicende dell'Africa australe di quegli anni fu determinante l'intervento sovietico; fra il '76 e l'80 l'URSS inviò in Africa australe armi per 4 miliardi di dollari, 10 volte superiore al quantitativo americano.

 In Angola il movimento di liberazione si presentava diviso in tre fazioni, l'MPLA di Agostino Neto di tendenze marxiste, l'FNLA di Holden Roberto legato al governo dello Zaire, e l'UNITA di Savimbi che nel corso degli anni ha assunto connotazioni politiche diverse. Raggiunta l'indipendenza nel 1975 si costituì un governo di coalizione che ebbe vita brevissima e al quale seguirono immediatamente duri combattimenti nel paese. L'Organizzazione per l'Unità Africana non raggiunse alcuna posizione sulla disputa e sul governo a cui dare riconoscimento, e l'MPLA forte del sostegno di 10.000 mercenari cubani e di tecnici sovietici e tedesco orientali, poté avere la meglio sulle altre componenti. Il Congresso degli Stati Uniti impedì lo stanziamento di fondi a favore dell'UNITA (l'FNLA aveva perso progressivamente di consistenza) e pertanto il blocco sovietico riportava una facile vittoria. Tuttavia la guerriglia antigovernativa continuava endemica, soprattutto nelle più povere regioni interne, e in diverse occasioni truppe sudafricane fecero ingresso nel paese per distruggere le basi della SWAPO, l'organizzazione indipendentistica della Namibia. Nel 1977 un tentativo di colpo di stato da parte dell'ala moderata dell'MPLA venne duramente represso, e nell'anno successivo il governo di Luanda organizzò la penetrazione di guerriglieri nel vicino Shaba (ex Katanga), la principale regione diamantifera dello Zaire.

 Successivamente, con il ritiro dei sovietici il regime si è collocato su posizioni meno radicali, ha avviato contatti con i governi occidentali e dimostrato disponibilità al negoziato con le forze di opposizione.

 Le vicende del Mozambico sono risultate fortemente legate a quelle nella vicina Rhodesia-Zimbabwe. Raggiunta l'indipendenza nel 1975 sotto la guida dell'organizzazione indipendentista del FRELIMO, il paese strinse legami intensi con il blocco sovietico dal quale ricevette aiuti economici e militari oltre all'invio di un contingente di mercenari cubani, che tuttavia non consentì di raggiungere la stabilità politica. Il governo bianco di Salisbury accusò il governo di Maputo di sostenere la guerriglia del movimento di liberazione dello Zimbabwe, il quale a sua volta ha accusato il primo per lo sconfinamento di truppe rhodesiane e per il sostegno ai guerriglieri della RENAMO. Caduto il governo segregazionista rhodesiano, l'opposizione armata al governo marxista del Mozambico ha potuto continuare grazie all'appoggio del Sudafrica. Come per l'altra ex colonia portoghese, il diverso atteggiamento dei sovietici negli anni successivi, e la conclusione della guerra fredda, ha favorito una soluzione pacifica, e nel 1992 il FRELIMO e la RENAMO hanno concluso un accordo di pacificazione.

 Anche nel vicino Sud Africa l'Unione Sovietica fece sentire la sua presenza; Mosca sostenne per un certo periodo di tempo l'African National Congress, ma al tempo stesso mantenne legami segreti con Pretoria, nonostante la condanna del governo razzista, per il mantenimento di prezzi alti dell'oro e di altri minerali di cui i due paesi erano i massimi produttori mondiali.

 In Rhodesia, dove hanno operato nel passato movimenti guerriglieri filo sovietici e filo cinesi, sotto la pressione di Gran Bretagna, Stati Uniti e di tutta la comunità internaziona-le, il governo bianco ha dovuto accettare nel 1979 un accordo per il passaggio dei poteri alla maggioranza nera. Nonostante alcune affermazioni di marxismo-leninismo il nuovo governo di Mugabe, ha evitato qualsiasi eccesso all'interno e contrasti a livello internazionale. Anche paesi come lo Zambia, la Tanzania, e il Madagascar che si sono date istituzioni socialiste, di fatto hanno mantenuto un atteggiamento molto prudente in tutte le vicende del continente africano e hanno evitato di essere coinvolti nei contrasti Est-Ovest. Un'altra crisi si apriva nel 1976 con il ritiro della Spagna dalla regione desertica del Sahara Occidentale; alla contesa prendeva parte il Fronte del Polisario di una non bene identificata popolazione locale (per il governo marocchino inesistente), a cui il governo algerino e l'Unione Sovietica prestava aiuto; negli anni successivi il governo di Rabat otteneva la meglio non senza il ricorso a dispendiose attività militari.

 La Guinea Bissau e le isole di Capo Verde hanno invece conosciuto una evoluzione relativamente più pacifica. Il movimento per l'indipendenza della Guinea e delle isole capoverdiane del leader non estremista Amilcar Cabral (morto un anno prima della liberazione) ottenne nel '75 il ritiro dei portoghesi, ma l'unione dei due territori non risultava gradito ad una parte dei guineani. Nel 1980 la Guinea Bissau attraversava una nuova rivolta che portava il paese a stringere legami economici maggiori con il campo socialista, senza tuttavia entrare a far parte del blocco sovietico.

 Il 1975, con la creazione di un regime marxista in Portogallo, il conflitto greco-turco per Cipro, la penetrazione del comunismo in Africa e il crollo dell'Indocina, fu un anno particolarmente difficile per la coalizione occidentale.

 Gli accordi di Parigi sul Vietnam del 1973 vennero rispettati solo per la parte che prevedeva il ritiro del contingente americano, nelle altre parti gli impegni rimanevano senza seguito, ed il governo di Hanoi in particolare, procedeva ad un forte riarmo del suo esercito. Nel 1975 l'esercito regolare del Vietnam del Nord diede inizio ad un attacco massiccio contro Saigon; l'esercito sud vietnamita oppose una certa resistenza ma a causa di gravi problemi di approvvigionamento di carburante e di fronte all'atteggiamento passivo degli Stati Uniti le unità iniziarono a sbandarsi e ritirarsi disordinatamente fra masse di profughi che cercavano di sfuggire all'invasione. Nell'aprile le truppe comuniste potentemente armate fecero il loro ingresso nella capitale sud vietnamita fra la diffidenza e la paura della popolazione, che in gran numero abbandonarono il paese.

 Contemporaneamente i Khmer Rossi ebbero la meglio sul generale Lon Nol e penetrarono a Pnom Penh dove instaurarono un governo filo cinese dal quale venne però escluso il principe Sihanouk, mentre nel Laos il Pathet Lao assunse il pieno potere, favorito dalla presenza delle truppe nord vietnamite che in anni anche successivi alla fine delle ostilità mantennero la loro presenza nel paese. Il periodo successivo alla conclusione della guerra rappresentò un periodo terribile per l'intera regione, dopo le elezioni farsa del 1976 le regioni dell'ex Vietnam del Sud, conobbero il dominio del nord la, collettivizzazione forzata delle terre e la repressione della minoranza cinese degli Hoa. Il paese negli anni successivi si trovò in condizioni economiche peggiori rispetto agli anni di guerra (nell'86-'87 il paese fu colpito da una grave carestia che ha interessato tre milioni di persone) e almeno due milioni di persone, i cosiddetti Boat Peoples, hanno abbandonato il paese disperatamente su precarie imbarcazioni. Nel Laos pure la miseria e i metodi forzati di "rieducazione" hanno portato ad un esodo massiccio della popolazione (300.000 persone pari al 10% della popolazione hanno lasciato il paese negli anni successivi alla guerra) e ad una non completa pacificazione.

 Ancora più tragica risultò la situazione in Cambogia con deportazioni in massa dalle aree urbane, creazioni di grandi campi di concentramento e l'eliminazione fisica nei campi della morte di alcuni milioni di esseri umani, oppositori reali o presunti (si trattava molte volte di persone che avevano studiato o conoscevano le lingue straniere) utilizzando spesso ragazzini rimasti orfani per spiare coloro che ritenevano sospetti. Una situazione che fece dire al giornalista Tiziano Terzani "La Cambogia di oggi è al di là della frontiera umana dell'orrore" .

  Nel 1978 l'esercito di Hanoi invase la Cambogia per imporre un governo di propria fi-ducia che venne duramente denunciato da Sihanouk davanti all'assemblea dell'ONU. La Cina Popolare per proteggere il suo alleato nel febbraio dell'anno successivo lanciò un attacco ai confini nord del Vietnam, che ebbe un parziale successo ma dovette essere fermato per timore di una reazione sovietica. Il duplice conflitto destò stupore in una parte della sinistra, che riteneva uno scontro fra nazioni socialiste in contrasto con i principi marxisti.

 Negli anni successivi il controllo dello stato sulla società e l'economia, in larga parte destinata alle spese militari, portò ad un peggioramento delle condizioni del Vietnam che dovette ritirarsi dalla Cambogia. Nel 1986 il grande leader Le Duc Tho venne allontanato dal potere e successivamente il paese conobbe un migliore destino. In anni recenti lo stato asiatico infine ha conosciuto una svolta radicale con l'introduzione dell'economia di mercato.

 Nella stessa regione si ebbe nel 1986 la crisi delle Filippine che se di per sé non costituì una vicenda della guerra fredda, trattandosi di un paese stabilmente inserito nell'alleanza occidentale, ebbe un certo peso nelle vicende di quella regione e scosse l'opinione pubblica mondiale. Nel 1965 salì al potere Ferdinando Marcos con un programma progressista di riforma agraria e lotta alla corruzione. Una volta stabilitosi saldamente al potere il presidente e sua moglie Imelda diedero l'avvio ad un governo fortemente dispotico e ad una opera di sistematica spoliazione delle riserve della banca centrale. Nel corso degli anni i due coniugi sottrassero alle casse dello stato dai 10 ai 40 miliardi di dollari in parte trasferiti su conti in banche svizzere e in parte destinati per un lusso sfrenato con pochi precedenti nella storia recente.

 Nel 1986 la forte opposizione nel paese, nonostante gli imbrogli elettorali del governo, diede vita con l'appoggio della Chiesa Cattolica e del governo degli Stati Uniti, ad una rivolta popolare che portò al potere la Corazon Aquino, vedova di un illustre oppositore al regime. La nuova leader riportò il paese verso la democrazia, tuttavia tale politica non ha impedito la prosecuzione della guerriglia islamica e marxista nel paese, condotta da movimenti contrari ad ogni forma di negoziato.

 I fatti dell'Indocina fra il '75 e il '76, portarono alla definitiva caduta dei miti terzo-mondisti nei paesi occidentali, già scossi dai deludenti risultati della rivoluzione culturale cinese e dell'involuzione della rivoluzione castrista a Cuba.

 Nel 1977 l'Unione Sovietica dispiegò nelle sue regioni occidentali e centrali un elevato numero di missili in grado di trasportare da 1 a 3 testate da 150 a 300 chilotoni con gittata compresa fra i 2.000 e i 5.000 chilometri, capaci quindi di colpire tutti i paesi dell'Europa occidentale . Alcuni anni più tardi l'Unione Sovietica era arrivata a disporre di 243 SS-20 puntati contro l'Europa (collocati al di fuori della portata dei missili da teatro americani) e 107 contro la Cina, oltre a 231 fra i più vetusti SS-4 e SS-5. La reazione della NATO fu piuttosto lenta, solo due anni più tardi i governi di Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e Germania Federale su iniziativa del cancelliere tedesco, il socialdemocratico Schmidt, (ma anche dei laburisti inglesi, almeno in un primo momento favorevoli a contromisure militari) stabilirono l'installazione di missili da teatro in Europa e l'apertura di colloqui con i sovietici. Cruise e Pershing 2 risultavano inferiori ai corrispondenti SS-20 per alcune caratteristiche (gittata compresa fra i 1.800 e i 2.500 chilometri con unica testata di 200 chilotoni) ma superiori per livello qualitativo. Il Pershing 2 in particolare venne considerato un'arma estremamente temibile dai sovietici, non per le sue capacità distruttive, ma per il fatto di disporre di un sistema di navigazione ed anti-intercettamento contro il quale non esisteva difesa. I missili in questione erano di gran lunga inferiori ai grandi missili intercontinentali (le cui testate nucleari facilmente raggiungono i 50-100 megaton) e sono destinati a distruggere non gli agglomerati urbani dell'avversario ma le più importanti infrastrutture, aeroporti, centri radar, comandi militari. In pratica consentivano, grazie alla loro precisione, di eliminare la potenza bellica del nemico con distruzioni umane più limitate.  La collocazione dei missili SS-20, formalmente non in contrasto con gli accordi SALT, faceva ritenere che l'URSS volesse ottenere la superiorità negli armamenti e anche senza il ricorso ad una guerra far sentire il peso del suo potenziale bellico.

 Negli incontri a Ginevra i sovietici si dichiararono disposti a sospendere lo schieramento dei propri missili se la NATO avesse deciso di non dare seguito alla proposta di dispiegamento dei propri, in pratica mantenendo lo status quo favorevole al Patto di Varsavia. I rappresentanti della NATO si pronunciarono per la cosiddetta "opzione zero": smantellamento (e non semplice arretramento) dei missili a media gittata sovietici contro il non dispiegamento dei propri, proposta che non incontrò il favore dell'URSS. Sorsero ulteriori problemi, durante i negoziati su altri aspetti, se il conteggio dovesse essere per testate o per vettore e se dovessero essere inclusi gli arsenali "esclusivi" francese e britannico, i negoziati in ogni caso si dimostrarono inconcludenti.

 Il riarmo dell'Occidente ha trovato un'ulteriore ragione nella grande massa di mezzi corazzati e di uomini che l'URSS ha concentrato sui confini occidentali del proprio impero, che ha costituito una pesante spada di damocle sulla testa dell'Europa. Il Patto di Varsavia disponeva di 53.000 carri armati, 51.000 mezzi blindati, 11.500 aerei da combattimento, contro i quali la NATO era in grado di schierare 17.000 carri armati, 42.000 mezzi blindati e 9.000 aerei da combattimento. Anche sul piano della guerra delle spie, l'Unione Sovietica si presentava notevolmente in vantaggio rispetto agli occidentali, il KGB coi suoi 500.000 agenti e 200.000 guardie di frontiera e una rete di oltre mezzo milione di informatori, secondo le rivelazioni della ex spia sovietica Oleg Gordievskij, era notevolmente superiore a qualsiasi altro servizio segreto e in grado di mettere a punto numerosi successi, mentre gli unici risultati positivi degli occidentali furono quelli ottenuti dalla fuga di funzionari sovietici nel campo occidentale; la CIA nel corso degli anni, ha infatti fallito nel sostegno all'azione dei cubani alla Baia dei Porci, non ha previsto l'attacco cinese in Corea nel '53, l'offensiva del Thet, la guerra del Golfo, né il colpo di stato conservatore comunista in Russia del 1991.

 Nel corso degli anni Settanta l'Unione Sovietica spese in armamenti 240 miliardi di dollari in più degli Stati Uniti e secondo il generale Haig Mosca aveva raggiunto una posizione di superiorità non solo quantitativa ma anche qualitativa nel campo degli armamenti nucleari e nel campo dei MIRV in particolare. Per sopperire al divario di forze creatosi, nel 1981 Reagan decise l'aumento del bilancio della difesa del 10% (che negli anni di Carter era stato ridotto), la produzione della bomba N, arma tattica nucleare con limitato rilascio di materiale radioattivo, in grado di distruggere grandi concentrazioni di eserciti e la produzione del missile MX, con 10 testate nucleari trasportabile su speciali automezzi e quindi meno vulnerabile dei missili con base fissa.

 Nel 1983 iniziò quindi l'installazione in Gran Bretagna, Germania, e Italia, (Belgio e Olanda opposero un certo numero di obiezioni) degli euromissili il cui eventuale utilizzo doveva essere concordato fra USA e paese ospitante. In seguito a questa decisione Mosca decise l'interruzione dei negoziati di Ginevra.

 i movimenti pacifisti europei si mobilitarono contro l'iniziativa NATO ma ignorarono il fatto che non si poteva avere una fiducia illimitata nei negoziati. I paesi comunisti nel corso degli anni avevano sottoscritto e non rispettato i più importanti accordi internazionali, dalla Dichiarazione sull'Europa liberata, ai principi espressi alla conferenza di Bandung (nel caso della Cina), al più recente Atto finale di Helsinki, e pertanto gli occidentali non potevano rinunciare ad una qualche forma di deterrente.

 Nel 1978 si aveva una nota positiva nel martoriato Medio Oriente con la conclusione di un importante accordo di pace. L'Egitto, il paese più progredito socialmente e cultural-mente nel mondo arabo fece sua quella politica di pace e di tolleranza che lo pose in contrasto con le altre nazioni arabe. Con la rottura del trattato di amicizia con l'Unione Sovietica e lo storico viaggio a Gerusalemme nel 1977, che mise in luce le qualità politiche del grande ma non amato statista egiziano, Sadat, vennero poste le basi per una diversa situazione nella regione. L'incontro accelerò quel processo di pace che si concluse l'anno successivo in America. Gli accordi di Camp David, "Schema di pace per il Medio Oriente" e "Schema di pace fra Egitto e Israele", realizzati con la mediazione del presidente americano Carter, prevedevano il ritiro di Israele dal Sinai e l'autogoverno palestinese (anche se non espressamente la sovranità), e costituirono un punto a sfavore dell'Unione Sovietica, che si vedeva esclusa dai negoziati.

 Gli accordi di pace vennero confermati nel paese arabo in un referendum, ma ciò non impedì lo scoppio di proteste interne e l'isolamento dello stato egiziano da parte degli altri stati arabi. Nel 1981 il presidente Sadat, Premio Nobel per la pace nel 1978, venne assassinato da esponenti del gruppo religioso integralista Fratelli Mussulmani, tuttavia l'assassinio non impedì la prosecuzione della nuova politica egiziana.

 Il clima della guerra fredda conosceva un nuovo impulso quando apparse un nuovo "incomodo" sulla scena internazionale, il fondamentalismo islamico, che insieme alla politica dei regimi estremistici arabi esistenti (libico e siriano soprattutto) costituiva una miscela esplosiva in una delle zone più calde del globo. Dopo il nazionalismo laico e socialista degli anni Cinquanta e Sessanta, che ebbe in Nasser il massimo esponente, e il radicalismo del regime di Gheddafi, si diffuse fra le masse più incolte arabe e mussulmane un ritorno alla più rigorosa legge islamica. Il fondamentalismo islamico ha dato vita a movimenti politici e gruppi terroristi, a grandi manifestazioni popolari coinvolgenti i ceti più miseri della società, ma non è riuscita a conquistare la borghesia e il ceto intellettuale in genere, e pertanto con misure diverse (anche non democratiche) i regimi "laicisti" hanno dimostrato di reggere all'urto. Nel campo della politica internazionale il fondamentalismo si dichiarava nemico giurato del capitalismo e del comunismo; la massima autorità del fondamentalismo sciita l'ayatollah Khomeini nel 1989 lasciava un testamento spirituale nel quale si affermava che l'Iran doveva "restare saldo e compatto sul sentiero tracciato da Dio senza confondersi né con l'Oriente ateo né con l'Occidente tirannico e blasfemo" , per una serie di circostanze tuttavia, l'Occidente ha costituito il principale obbiettivo delle invettive e degli attacchi degli estremisti.

 L'esordio del fondamentalismo si ebbe in un paese mussulmano sciita ma non arabo, l'Iran, sottoposto ad una singolare opera di modernizzazione condotta in forma autoritaria dal sovrano. Dal 1963 erano state prese alcune importanti iniziative di rinnovamen-to dello stato e della società che ricordavano in parte l'opera precedente di Ataturk in Turchia. Lo Scià promosse una riforma agraria che favorì lo sviluppo dell'economia (con un tasso di sviluppo del 12% annuo secondo le fonti ufficiali) e un incremento senza precedenti della scolariz¬zazione (fra il 1954 e il 1970 la popolazione studentesca aumentò da 4 a 8 volte) ma al tempo stesso diede vita ad un sistema autoritario attraverso una potente polizia segreta. L'autoritarismo, il laicismo di stato e le non celate simpatie per gli Stati Uniti, furono all'origine delle grandi proteste degli anni successivi in cui si coalizzò la protesta studentesca democratica e quella delle gerarchie islamiche.

 Nel 1978 si ebbero una serie di grandi manifestazioni e scioperi (anche nel settore petrolifero) che misero in difficoltà l'economia del paese e culminarono nel settembre in una grande manifestazione a Teheran che si concluse con un migliaio di morti. Nel gennaio dell'anno successivo lo scià Reza Pahlavi abbandonò il paese, e con il rientro del grande capo spirituale Khomeini si formò un governo civile presieduto da esponenti democratici di sinistra, ed un consiglio islamico, che attraverso il terrore prese immediatamente il soprav-vento. Vennero nazionalizzate le banche e le principali attività economiche, dato vita ad una serie di processi sommari con centinaia di esecuzioni e imposti dei rigidi costumi in ogni aspetto della vita sociale del paese fondati sulla legge coranica e lo stato di subordinazione della donna.

 I primi atti del nuovo governo iraniano furono la repressione sanguinosa dei Curdi e il sequestro del personale diplomatico USA, una cinquantina di persone, con un atto senza precedenti che declassificava il paese dal consesso delle nazioni civili. La azione ebbe un notevole risvolto interno con grandi manifestazioni antiamericane che misero in difficoltà il primo ministro Bazargan favorevole alla trattativa. Il presidente americano Carter decise come ritorsione la sospensione delle importazioni petrolifere e il sequestro dei beni iraniani all'estero ma senza esito. Successivamente si ebbe un tentativo di liberazione degli ostaggi con l'uso della forza fallito forse anche per il contributo dei servizi informativi sovietici, ma la controversia si chiuse solo dopo un anno con il rilascio dei sequestrati a seguito di un negoziato. L'opposizione al governo degli ayatollah comunque continuò anche in seguito attraverso varie organizzazioni anche a carattere politico-militare come il movimento dei mujaiddhin.

 Nel settembre del 1980 ebbe inizio la sanguinosa guerra fra Iran e Irak, durata otto anni, che costò la vita a oltre un milione di uomini. Il governo nazionalista di Saddam Hussein, che nel '79 aveva realizzato una massiccia opera di repressione contro i comunisti, riteneva, approfittando della situazione di difficoltà dell'avversario di poter strappare ad esso la ricca regione dello Shatt El Arab che da tempi lontani costituiva motivo di attrito fra la nazione araba e quella iraniana. Il governo iracheno riteneva inoltre di godere dell'appoggio degli stati arabi moderati, timorosi della diffusione dell'integralismo religioso, e della benevole neutralità dei paesi occidentali. In seguito ad attacchi contro mercantili che attraversavano la zona, per un certo periodo le forze navali occidentali presidiarono le rotte marittime del Golfo Persico, e nel corso di tale operazione si verificarono sporadici scontri fra le forze navali USA e quelle iraniane. La guerra invece, non andò secondo le aspettative di Bagdad e si concluse con il ritorno allo status quo sul piano territoriale e il dissanguamento economico dei due stati. Un ritorno dell'Iran su posizioni relativamente più moderate si ebbe solo nel 1989 dopo la scomparsa di Khomeini.

 Nonostante i numerosi segnali di un peggioramento dei rapporti fra Stati Uniti e Unione Sovietica il dialogo sul disarmo continuava, con l'apertura di diversi tavoli di trattativa, il Mutual Force Reduction, (MFR) sulla riduzione delle forze convenzionali in Europa, che però non diede risultati concreti, e il Strategic Arms Limitation Treaty, meglio noto come SALT 2. Il nuovo accordo sulle armi strategiche venne firmato da Carter e Breznev nel giugno del 1979, dopo 7 anni di colloqui e sanciva la parità di forze fra USA e URSS, sia come vettori che come testate nucleari (1.200 MIRV per parte con base a terra e su sottomarini). Il trattato prevedeva inoltre la limitazione dei bombardieri strategici, con particolare attenzione al gigantesco bombardiere sovietico Backfire e dei sistemi di lancio per missili strategici nucleari, nonché il regolare scambio di informazioni sugli armamenti. La valutazione degli arsenali sovietici da parte occidentale tuttavia non corrispondeva alla realtà, secondo recenti dichiarazioni del governo russo  il numero di testate nucleari e la quantità di materiale fissile per uso militare in URSS erano rispettivamente un terzo e il doppio superiori rispetto alle stime occidentali.

 L'accordo non venne comunque ratificato da parte americana a causa dei successivi avvenimenti in Afghanistan, e secondo il presidente Reagan il trattato "congelava gli Stati Uniti in una posizione di permanente inferiorità" , ma di fatto venne rispettato per evitare il peggioramento delle relazioni con l'URSS.

  Negli stessi anni, come previsto dagli Accordi di Helsinki, si tennero le Conferenze di Belgrado e di Madrid che si dimostrarono scarsamente concludenti a causa della questione del rispetto dei diritti umani. Tale tema divenne oggetto di grande attenzione da parte dell'amministrazione Carter, e mise in difficoltà i sovietici come venne confermato dal ministro russo Andrej Gromiko nelle sue memorie.

 Nei giorni successivi al natale del 1979 avvenne l'episodio che pose termine al lungo periodo di distensione, l'invasione dell'Afghanistan, la cui occupazione ha creato gravi difficoltà per l'Unione Sovietica ed ha contribuito alla crisi politica della potente nazione.

 L'Afghanistan, paese con un'economia molto povera e abitato da popolazioni di diversa etnia, era dal tempo degli zar soggetto alle mire della Russia. In tempi recenti il paese aveva stabilito buoni rapporti con Mosca, ma ciò non consentì una reale stabilità politica. Nel 1973 il re Zahar Shah venne deposto da un colpo di stato militare guidato dal generale Daud che tuttavia a causa della difficile situazione economica non riuscì a consolidare il potere, e cinque anni dopo venne rovesciato da un nuovo colpo di stato. Il nuovo governo composto da ufficiali filo comunisti diede vita a vaste repressioni nel paese che provocarono il sorgere di un'accanita resistenza di ispirazione soprattutto religiosa. Il governo centrale dava evidenti segni di dissoluzione, quando nel settembre '79 il capo del governo Taraki venne assassinato dal vice ministro Amin, capo della polizia segreta, e nei mesi successivi le forze armate che inizialmente contavano 100.000 uomini si ridussero a circa 25.000 a causa delle numerose defezioni.

 L'imminente caduta del regime, dilaniato anche da contrasti interni, spinse nel dicembre del 1979 l'Unione Sovietica all'intervento attraverso un corpo di spedizione costituito da truppe aviotrasportate e di due divisioni meccanizzate che in brevissimo tempo presero il controllo di Kabul e delle principali vie d'accesso del paese e fecero fuori il capo comunista dell'etnia patkhana Amin che venne sostituito dal tagiko Karmal.

 L'occupazione dei centri nevralgici del paese procedette con rapidità, ma a causa dell'armamento pesante, inadeguato alle condizioni geografiche e il verificarsi di diversi casi di solidarizzazione fra le truppe originarie dall'Asia centrale e i combattenti afghani, i reparti sovietici vennero in larga parte sostituiti.

 L'Unione Sovietica con l'intervento militare si proponeva due principali obbiettivi, mettere a freno la diffusione del fondamentalismo islamico che minacciava le regioni asiatiche dello stato e crearsi una possibilità d'accesso all'Oceano Indiano. La regione occidentale del Pakistan, il Pathanistan, era da tempo rivendicato dall'Afghanistan, e approfittando di una crisi del governo di Islamabad, non sarebbe risultato difficile mettere le mani su quella parte del territorio.

 L'invasione dell'Afghanistan venne condannata a livello internazionale da 104 paesi dell'ONU e produsse una svolta nelle relazioni diplomatiche fra Unione Sovietica e paesi occidentali. Il presidente americano Carter decise drastiche riduzioni alla vendita di cereali, delle relazioni economiche in genere con lo stato sovietico (l'embargo commerciale tuttavia venne aggirato da diversi paesi anche latino americani, e ridotto successivamente da Reagan) e il boicottaggio delle Olimpiadi che si tenevano a Mosca. Tali misure non vennero molto apprezzate, con l'eccezione della Gran Bretagna, dagli altri paesi europei.

 Nonostante il ricorso ad una guerra indiscriminata (a differenza della guerra del Vietnam la stampa non poteva seguire le operazioni di guerra), con distruzione di numerosi di villaggi, a distanza di anni i sovietici ed il governo comunista non riuscirono a migliorare la propria situazione, mentre i mujaiddhin (combattente nella guerra gradita a Dio) con l'appoggio del governo pakistano e degli Stati Uniti conseguirono dei progressi come armamento e tecniche di guerra.

 Nel giugno del 1982 si aprirono, con la mediazione dell'ONU, negoziati fra i rappresentanti del governo comunista afghano e del Pakistan che tuttavia non diedero alcun risultato; una vera svolta nel conflitto si ebbe solo nel luglio del 1985 quando Gorbaciov annunciò il ritiro del contingente sovietico (arrivato a 100-120.000 uomini) e il filo sovietico Karmal venne sostituito dal meno compromesso Najibullah. Nel febbraio del 1989, il governo di Mosca duramente provato dal conflitto, ritirò gli ultimi reparti sovietici, ma il conflitto non si avviava a soluzione. I 7 principali gruppi che formavano la resistenza arrivarono ad una rottura fra moderati e fondamentalisti, e nel 1992 il gruppo di etnia tagika guidato dal moderato e principale capo militare Shah Massud prese il potere a Kabul.

 La guerra in Afghanistan ebbe conseguenze gravissime con un milione di morti e circa 2-3 milioni di profughi nel vicino Pakistan. Nel campo sovietico 15.000 furono i morti secondo le fonti ufficiali sovietiche, ma secondo fonti occidentali il tributo di vite umane fu più elevato intorno ai 40.000 morti. La guerra in Afghanistan confermava il fatto che la guerra per il controllo di paesi stranieri risultava eccessivamente oneroso sotto tutti i punti di vista per qualsiasi regime, e che le controversie internazionali non potevano essere risolte che attraverso aggiustamenti politici.

 Verso la fine degli anni Settanta si intensificarono i fenomeni di guerriglia in America Centrale, particolarmente in Nicaragua, El Salvador, e Guatemala, paesi a economia prevalentemente agricola che non avevano conosciuto salde istituzioni politiche.

 Il Nicaragua dal lontano 1936 era soggetto ad un governo dispotico presieduto dal generale Anastasio Somoza, che attraverso uomini della sua famiglia controllava tutte le principali istituzioni del paese. Nel 1956 il dittatore venne assassinato, ma subentrò al potere il figlio che continuò immutata la gestione del potere ricorrendo al terrore e all'illegalità. Nel paese si sviluppò un grande movimento d'opposizione comprendente numerose formazioni diverse fra le quali quella più consistente era quella rappresentata dal Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale (che si richiamava al generale Sandino, eroe dell'indipendenza del paese). La dittatura priva dal febbraio 1979 dell'aiuto militare ed economico di Washington subì i colpi della lotta armata che in quello stesso anno fu costretta a capitolare.

 Il nuovo governo rivoluzionario presieduto dal leader sandinista Daniel Ortega promosse numerose nazionalizzazioni nel settore industriale, bancario, commerciale ed agricolo, entrò in urto con i paesi vicini Honduras e Costa Rica, e si avvicinò al blocco sovietico dal quale ottenne importanti aiuti economici, e con l'assistenza dei cubani i sandinisti fecero del proprio esercito il più potente dell'America centrale. Nel 1985 la giunta al potere decretò la soppressione delle libertà politiche, la persecuzione dei gruppi Indios, la chiusura di diversi giornali e iniziò un intensa opera di repressione degli altri gruppi politici con numerose incarcerazioni di oppositori politici.

 Nel paese si sviluppò a partire dal 1982 il movimento dei "contras" che diede vita, con il sostegno economico degli Stati Uniti, a numerose azioni di guerriglia utilizzando basi d'appoggio nel vicino territorio dell'Honduras. L'anno successivo alla nascita del movimento guerrigliero si unì alla formazione il leggendario capo della guerriglia antisomozista Eden Pastora, e grazie all'apporto delle nuove forze, un tentativo nel maggio 1985 dell'esercito sandinista di penetrare in Honduras per distruggere le basi dei ribelli, si rivelò un insuccesso.

 Su iniziativa del presidente del Costarica Oscar Arias, Premio Nobel per la pace, venne proposto un piano di pacificazione che prevedeva un'amnistia per i detenuti politici, di cui beneficiarono 1.900 antisandinisti, il rientro in patria di una parte dei leader dell'opposi-zione, il ripristino della libertà di stampa, e nuove elezioni politiche con presenza di osservatori internazionali, da tenersi nel febbraio 1990. La leader del principale movimento d'opposizione, l'Union Nacional Opositora, Violeta Chamorro, vedova di un esponente politico assassinato dai somozisti nel 1978, riportò alle elezioni presidenziali il 54,3% dei voti contro il 41% di Ortega, ma per un certo periodo di tempo sembrò che le forze di governo non intendessero riconoscere la sconfitta.

IL MONDO OCCIDENTALE NEGLI ANNI

DI REAGAN E DELLA THATCHER

 Nel corso degli anni Settanta il mondo occidentale aveva conosciuto un periodo di grave crisi economica e morale di fronte alla quale i governi europei si erano dimostrati impotenti. La mancata reazione di fronte alla violazione degli Accordi di Helsinki (in Unione Sovietica vennero arrestati gli stessi membri dei gruppi di vigilanza sul rispetto degli accordi medesimi) e la ripresa della politica espansionistica di Mosca, mettevano in luce come il vecchio continente avesse perso il senso di una politica di grande respiro improntata a quei valori che sono alla base della sua stessa esistenza.

  La cultura predominante nel periodo precedente aveva visto nel capitalismo un sistema economico antiquato e incompatibile con le aspirazioni alla solidarietà umana. D'altra parte il "welfare state" prospettato dalla sinistra europea aveva clamorosamente fallito rivelandosi fonte di spreco di risorse, di corruzione, (particolarmente nel caso italiano), e di nuovi privilegi, da parte di coloro che disponevano di "accessi" alla classe politica. La sottrazione di risorse economiche sotto forma di pressione fiscale a favore di un apparato pubblico scarsamente produttivo, aveva prodotto inoltre un rallentamento economico e gravi conseguenze per l'intera società.

 Gli anni '80 si aprirono con un grande interesse per l'economia, una grande fiducia nelle forze spontanee del mercato, che oltre a rinnovare l'assetto socioeconomico del mondo occidentale, creò un nuovo stile di vita, definito con un certo intento polemico, "edonismo reganiano". Contemporaneamente i paesi occidentale riacquistarono una maggiore fermezza che la sfortunata guerra del Vietnam e la contestazione giovanile aveva fortemente scosso.

 Solo in parte l'azione di Reagan, la Thatcher e dei movimenti che ad essi si ispiravano può essere definita "conservatrice", lo scadimento dello stato assistenziale, la diffusione della corruzione, la tendenza alla deresponsabilizzazione dell'individuo che trova nello stato un fornitore gratuito di servizi, si è presentato e si presenta, trattandosi di un processo in corso, un problema molto sentito. Da qui la richiesta di uno stato meno invadente, di una pressione fiscale più equa, di un minore soffocamento delle attività economiche private, e di un minore potere delle grandi organizzazioni economiche di stato. Da parte di alcuni gruppi liberisti si propone una struttura economica che tenga conto delle necessità oggettive delle imprese, senza comunque scadere in quello stato di servitù del capitale che caratterizza l'economia giapponese e delle altre potenze capitaliste asiatiche (i cosiddetti "4 dragoni" Hong Kong, Taiwan, Corea del Sud, Singapore)

 Il primo segnale di reazione si ebbe in Gran Bretagna. Nelle elezioni del 1979 il partito conservatore ottenne la maggioranza, e diede vita ad uno dei più lunghi governi della storia britannica che ha realizzato importanti riforme economiche, ed ha segnato un'epoca nella storia europea. La energica leader Margaret Thatcher, prima donna capo del governo in Europa, diede vita ad un nuovo sistema economico fondato sul primato delle leggi di mercato, sulla restrizione dell'apparato pubblico, e sulla diffusione della partecipazione azionaria, che dava vita ad una sorta di capitalismo democratico.

 La "ricetta" privatista diede i suoi frutti, una parte cospicua dei servizi pubblici venne venduta a gruppi economici con un duplice beneficio: migliore prestazioni per i cittadini, almeno in un certo numero di casi, e sensibile alleggerimento del disavanzo pubblico che passava nel 1987 dal 5% del PIL all'1%. L'economia britannica ebbe un grande giovamento da questi provvedimenti e conobbe un tasso di sviluppo al quale il paese da lungo tempo non era più abituato, mentre l'inflazione e la disoccupazione subirono un forte rallentamento.

 Quella della Thatcher costituiva una vera rivoluzione economica, nel 1989 il Regno Unito contava più azionisti (triplicati rispetto al 1979) che iscritti al sindacato, il quale nel 1984 riportò una grave sconfitta con il fallimento del più lungo sciopero dei minatori nella storia del paese. Negli anni successivi tuttavia, anche l'economia britannica conosceva un rallentamento ed una ripresa dell'inflazione e quindi nel 1990 il governo inglese veniva duramente contestato per l'introduzione della cosiddetta poll tax (tassa a carico di ciascun cittadino indipendentemente dal reddito) che fu all'origine di controversie all'interno dello stesso partito conservatore.

 Nel 1982 la Gran Bretagna conobbe una seria crisi, l'invasione delle isole Falkland da parte dell'esercito argentino, che si risolse comunque in un successo per la "Lady di ferro", come venne soprannominata dalla stampa internazionale la Margaret Thatcher. Le isole distanti 1.000 km. dalle coste argentine e abitate da oltre un secolo da cittadini britannici erano da sempre rivendicate dal governo di Buenos Aires, iI quale per far fronte alle difficoltà interne del paese decise l'intervento armato. Seguirono lunghi negoziati che non portarono ad alcun progresso nonostante la disponibilità inglese ad un accordo sullo sfruttamento economico (ma non sulla sovranità) delle isole contese. Il governo argentino minacciò di distaccarsi dal blocco occidentale (a tal fine prese contatti anche con Cuba), mentre gli Stati Uniti cercarono fino all'ultimo di mediare fra le due posizioni volendo evitare un contrasto con i paesi latinoamericani, ma alla fine diede il benestare all'intervento inglese. La flotta britannica dopo un lungo assedio, durante il quale evitò di colpire le basi d'approv-vigionamento sul continente, ebbe la meglio sulle forze argentine .

 Nonostante i contrasti interni al partito conservatore e un certo malcontento nel paese che portarono alla caduta del governo Thatcher, il nuovo premier John Mayor, attra¬verso una politica più moderata, una maggiore attenzione ai problemi sociali, e una minore rigidità nei confronti della Comunità Europea, riportò nelle elezioni del '92 una conferma del partito conservatore, mentre i laburisti a causa di divergenze interne di linea politica e della costituzione del gruppo dei verdi che sottrassero consensi al partito, rimasero all'opposizione.

 Un movimento di pensiero analogo a quello della Thatcher si ebbe in altri paesi. Negli Stati Uniti un anno dopo la vittoria conservatrice in Gran Bretagna, salì alla presidenza Ronald Reagan con un programma economico molto determinato. Riduzione della pressione fiscale e "deregulation" furono i due obbiettivi della nuova politica americana che stimolarono la crescita economica del paese e consentirono la creazione di 19 milioni di nuovi posti di lavoro, un sensibile incremento del PIL, accompagnato però da un peggioramento del deficit dello stato e della bilancia dei pagamenti con l'estero.

 Un insuccesso degli anni di Reagan fu la lotta al narcotraffico che arrivò a costituire la maggiore attività economica clandestina nel paese, con un fatturato non inferiore a quello di grandi gruppi economici; la politica intrapresa dalla Casa Bianca dimostrò che il commercio illegale disponeva di grandi mezzi e innumerevoli vie di transito che lo stato non poteva tenere sotto controllo. Lo spaccio di droga e la diffusione della criminalità ad essa collegata, alimentata dalla presenza di un numero considerevole di immigrati, divenne il maggiore problema di quegli anni.

 La politica estera inaugurata dal presidente americano diede nuovo vigore all'Occidente, anche se non mancarono dissensi con gli alleati europei. Venne abolito l'embargo alla vendita di cereali all'URSS (dal momento che altri paesi, anche del blocco latino americano, avevano aggirato tale provvedimento) ma mantenne un atteggiamento molto fermo verso l'Unione Sovietica. Una particolare attenzione venne rivolta alla questione del terrorismo internazionale; la politica di ricerca dei mandanti e di repressione con mezzi militari del fenomeno risultò particolarmente proficua, e intorno al 1985-1986 il fenomeno venne quasi completamente eliminato.

 L'immagine del battagliero presidente venne in parte offuscata negli anni successivi con lo scandalo dell'Irangate; nel corso di una conferenza stampa nel novembre 1986, Reagan fu costretto ad ammettere alcune limitate violazioni dell'embargo imposto all'Iran nel 1979; attraverso Israele l'amministrazione americana vendette armi per un valore di 60 milioni di lire al fine di finanziare i gruppi anticomunisti in Nicaragua che costituiva un'ulteriore atto illecito avendo il Congresso americano proibito gli aiuti a tali formazioni. Molti collaboratori e lo stesso presidente furono costretti a giustificarsi dell'episodio di fronte all'opinione pubblica e alla stampa internazionale.

 Anche in altri paesi europei si assisteva ad una ripresa del liberismo sia pure in forma attenuata rispetto alle due grandi nazioni anglosassoni.

 Nel 1981 in Francia venne eletto presidente della repubblica il socialista Francois Mitterand che diede vita, dopo mezzo secolo di opposizione, ad un governo delle sinistre con un vasto programma di nazionalizzazioni e di riforme, che tuttavia non ebbe particolare successo e venne nel 1984 in larga parte abbandonato. I comunisti avviati ad una crisi profonda di pro¬grammi e di consensi, abbandonavano il governo e il primo ministro Mauroy venne sostituito dal più centrista Fabius. Le elezioni amministrative successive registrarono un sensibile spostamento a destra che favorì l'approvazione del Piano Delors per i tagli alla spesa pubblica e il rilancio dell'economia.

 Le elezioni per il rinnovo del parlamento nel 1986 diedero la maggioranza alle destre creando la singolare situazione di potere con un presidente della repubblica di sinistra ed un capo del governo, Jacques Chirac, su posizioni golliste; la singolare "convivenza" non ebbe termine che due anni dopo.

 La politica estera di Mitterand sotto certi aspetti sembrava voler rilanciare le aspirazioni alla grandeur di gollista memoria. La Francia si impegnò nel Ciad minacciato d'invasione dalla Libia, nel Libano soggetto alle mire espansionistiche della Siria e in altri interventi minori nell'Africa francofona. Analogamente il governo si impegnava nel Medio Oriente con l'invio del maggiore contingente militare dopo quello americano nella guerra del Golfo (suscitando le proteste dell'estrema destra francese di Le Pen). Meno felice fu invece l'incontro nel dicembre del 1985 con il generale Jaruzlesky, autore della nuova politica autoritaria polacca che gli altri governi europei avevano cercato di isolare diplomaticamente, e in anni più recenti la conces¬sione di un visto d'ingresso al terrorista palestinese George Habbash ricercato in numerosi paesi come ispiratore delle azioni più sanguinarie.

 Gli ultimi anni sono stati caratterizzati in Francia dalla scoperta di numerosi scandali che hanno coinvolto numerose personalità dell'amministrazione socialista ed hanno profondamente deteriorato l'immagine delle sinistre, avvenimenti che hanno favorito la riaffermazione dei gollisti.

 Un fenomeno negativo che ha interessato la Francia, ma anche altri paesi del nostro continente nell'ultima parte degli anni '80, è stata la rinascita dell'antisemitismo e dell'odio verso gli immigrati extracomunitari di cui ha tratto profitto l'estrema destra di Le Pen che si è affermato in diverse competizioni elettorali.

 In Germania il partito liberale, da sempre l'ago della bilancia della politica tedesca, decideva nel 1982 di rompere l'alleanza con i socialdemocratici, e di costituire una coalizione con i cristiano democratici. Il nuovo governo presieduto da Helmut Kohl, che venne confer-mato alle elezioni dell'anno successivo, si caratterizzò per la sua moderazione e per programmi non particolarmente innovativi. In Germania non si affermava nessuna nuova politica neoliberista, ma si assisteva ad una semplice riduzione della spesa pubblica che passava dal 50% del reddito nazionale del 1982 al 47% del 1986 che favoriva un deciso rallentamento dell'inflazione (per un certo periodo il paese conobbe anche una situazione di deflazione) ed un positivo andamento economico. Helmut Kohl, personaggio politico non particolarmente amato, pragmatico e considerato privo di una grande originalità, ha rappresentato in quegli anni il modello di esponente centrista in Europa.

 Il governo tedesco mantenne verso l'alleanza atlantica un atteggiamento molto prudente, favorevole allo schieramento degli "euromissili", preferì in alcuni casi un certo distacco da una politica giudicata incauta, come quella perseguita dagli Stati Uniti di Reagan nei confronti del terrorismo internazionale.

 Il fatto veramente nuovo per la Germania di quegli anni fu l'affermarsi di forze politiche nuove, la crescita di un partito ecologista fortemente di sinistra che riusciva a scavalcare la soglia del 5% dei voti previsti per la rappresentanza nel Bundestag e la formazione di un partito di estrema destra (anche se non espressamente neo nazista secondo le affermazioni del suo leader Shonuber) dei Repubblikaner, che ha utilizzato la questione della eccessiva presenza degli immigrati di colore per un rilancio politico.

 In Italia gli anni '80 si sono caratterizzati per un ridimensionamento del partito comunista, causato anche dalla sempre minore presa della dottrina di potere affermatesi nei paesi dell'Est, e dall'isolamento politico conseguente allo spostamento a destra del partito socialista che ha acquisito posizioni di sempre maggiore protagonista sulla scena italiana. Il nostro paese non è stato toccato dal vento "liberista" ed anzi i problemi della finanza pubblica, in controtendenza rispetto al resto dell'Europa, si sono fortemente aggravati in quegli anni. L'altro grande fattore è stato lo scadimento della vita politica del paese, dovuto allo scarso ricambio della classe politica, fenomeno provocato in larga parte dal sistema elettorale, che non consentiva il rinnovamento e la formazione di stabili maggioranze ed opposizioni. I governi di "pentapartito" degli ultimi anni si sono caratterizzati per una gestione poco responsabile del bilancio dello stato e per il diffondersi del malcostume politico, che ha portato il paese ad una grave situazione economica e messo in difficoltà l'ingresso dell'Italia nell'Europa di Maastricht.