parte 4° il crollo del comunismo

 
 

 

 IL NUOVO STATO SOVIETICO

 

 


 L'immagine dell'Unione Sovietica nel corso degli anni della guerra fredda si era rivelata per certi aspetti poco corrispondente alla realtà. L'Unione Sovietica venne considerata un paese più progredito di quanto realmente fosse, (l'unico campo in cui il paese potesse essere veramente considerato una grande potenza era quello militare sul quale si concentravano la massima parte delle risorse dello stato) e si riteneva che il grande paese eurasiatico fosse immune da alcuni mali più tipici delle società occidentali come i fenomeni di degrado sociale, la corruzione, largamente diffusa invece in tutti i livelli dell'apparato statale. Diversamente da quanto si credeva in Occidente, all'interno della società sovietica era presente un diffuso nazionalismo, e forti spinte verso il conservatorismo per nulla in contrasto con l'ideologia ufficiale della nazione.
 Nel 1982, alla morte di Breznev, l'Unione Sovietica attraversava un momento estremamente difficile, dissanguata dalla corsa agli armamenti, dall'impegno internazionale imposto dalla guerra fredda, ma ancor più dalla inefficienza e dalla corruzione di un sistema di potere politico economico al quale non credeva più nessuno, classe dirigente compresa. L'immobilismo e la stagnazione del quasi ventennio di potere brezneviano avevano prodotto apatia e rassegnazione, perdita di valori ad ogni livello della società; di questi problemi era cosciente anche la stessa élite che governava il paese, ma presa nella volontà di mantenere il potere ad ogni costo cercava di evitare tutto ciò che poteva apparire come innovazione.
 E' difficile capire gli avvenimenti sovietici con i suoi numerosi aspetti contraddittori, se non si comprende che al di là dello scontro fra tendenze politiche contrastanti esistevano numerosi interessi personali, una vasta rete di corruzione e di traffici con pochi esempi fra le nazioni più avanzate. Il PCUS, centro del potere in Unione Sovietica, negli anni della stagnazione brezneviana aveva assunto i caratteri di una organizzazione volta alla tutela degli interessi di un ceto privilegiato e parassitario lontano ormai da ogni connotato ideologico. Parlando della situazione politica del paese Andrej Sacharov nel 1980 scriveva:"La popolazione del paese accetta senza muovere un dito la penuria di carne, di burro e di molte altre cose; sopporta una stridente disparità sociale tra élite e il popolo, e tollera l'arbitrio e la crudeltà del potere".
 Il paese aveva grandi problemi nel settore agricolo e nel campo dell'approvvigionamento; secondo quanto affermato dall'accademico Tihonov nel 1977 gli appezzamenti di terra gestiti direttamente dai contadini colchosiani, le cosiddette imprese agricole di supporto, che rappresentavano l'1% delle terre coltivate fornivano il 28% del totale della produzione agricola. A causa della difficile situazione alimentare, agli inizi degli anni '80 si ebbero alcuni casi di protesta operaia in tutte le grandi città della Russia, dell'Ucraina e della regione del Baltico, che vennero repressi con un gran numero di licenziamenti senza produrre conseguenze nel paese.
 Il nuovo segretario del partito succeduto a Breznev nel 1982, Juri Andropov, riteneva che occorressero una serie di riforme economiche amministrative e si impegnò nella lotta alla mafia presente nella burocrazia, ma la sua scomparsa a meno di 24 mesi dalla sua nomina gli impedì di portare a termine le iniziative enunciate. La fama di moderato del nuovo leader sovietico fu comunque messa in discussione; come alto dirigente del KGB nel '56 fu il principale artefice della repressione ungherese, e nel 1983 denunciò, senza rendere note le prove, un progetto degli Stati Uniti di ricercare il conflitto, anche sul piano dello scontro diretto, con il blocco comunista. Nel 1984 la direzione del partito passò quindi a Kostantin Cernenko, esponente della vecchia guardia brezneviana, che bloccò ogni tentativo di innovazione nel paese; l'unico atto politico della sua breve permanenza al Cremlino fu la singolare riabilitazione dell'anziano leader stalinista Molotov; anch'egli non ebbe lunga vita e morì a soli 13 mesi dall'incarico. Per un sistema monolitico come quello sovietico la scomparsa di tre leader in meno di quattro anni non poteva non lasciare conseguenze. Una dittatura come quella sovietica per poter sopravvivere necessitava di stabilità e di grandi personalità al vertice.

 Nel 1985 veniva eletto segretario del partito, su proposta del Politburo, con l'appoggio del ministro degli esteri Gromiko e il voto unanime del Comitato Centrale, Michail Gorbaciov, già membro del Politburo e responsabile del settore agricolo. In Occidente del nuovo statista si conosceva la sua intelligenza e le sue capacità professionali, ma nulla faceva ritenere che le riforme da lui promosse avrebbero messo in moto un movimento quasi incontrollabile, che avrebbe prodotto nel giro di alcuni anni la dissoluzione dell'URSS. Gorbaciov aveva salito i numerosi gradini della gerarchia dello stato dimostrando ovunque grandi capacità, ma con un carriera non dissimile a quella di altri grandi dirigenti, senza aver mai manifestato tendenze in contrasto con quelle ufficiali; nonostante i numerosi tentativi di compromesso Gorbaciov per la sua politica finì per essere odiato sia dai conservatori, sia dai progressisti, e una volta caduta la sua fortuna si trovò completamente isolato.
  Il successo di Gorbaciov nei primi anni di potere era forse dovuto al diverso stile umano del leader profondamente differente da quello dei suoi predecessori; Gorbaciov appariva come un personaggio umano, dall'intelligenza viva, sorridente e disponibile, al contrario del cupo Breznev, statuario e inavvicinabile. Il nuovo capo del Cremlino è stato talvolta accostato a Kruscev in quanto riformatore, ma differiva da questi sicuramente sia per livello intellettuale che per equilibrio, inoltre sotto il suo governo il paese conobbe, almeno nel campo delle relazioni internazionali, dei progressi sconosciuti nell'epoca del predecessore. Ci si è chiesto se il grande leader sovietico, che comunque per doti intellettuali risultava superiore a molti suoi predecessori, rappresentasse un autentico riformatore o piuttosto un monarca assoluto che vista la difficoltà della situazione politica accettasse le richieste di innovazione provenienti dal basso. Difficilmente infatti un personaggio politico è stato tanto stimato dall'opinione pubblica mondiale e poco amato in patria, considerato responsabile del peggioramento della situazione economica da larga parte della popolazione e visto con scarso interesse da parte degli uomini del dissenso. Nel mondo occidentale il leader sovietico venne invece giudicato come l'uomo della svolta; le riforme veramente riuscite in Unione Sovietica riguardavano la politica estera, mentre nel campo della politica interna i cambiamenti risultarono inconsistenti e gli insuccessi superarono i risultati positivi. Nel nuovo stato realizzato da Gorbaciov i cittadini non erano più perseguitati per le idee espresse, ma le istituzioni rimanevano distanti dal cittadino, e gli organi di informazione, sebbene non sottoposti a censura, restavano appannaggio della nomenclatura. Anche sul piano delle libertà religiose si registrarono grandi progressi di cui ne beneficiarono tutte le confessioni religiose prece¬dentemente perseguitate, cattolici lituani, uniati ucraini ed ebrei, che videro finalmente riconosciuto il diritto di espatrio. Fra il giudizio totalmente negativo di molti cittadini russi, e quello estremamente positivo espresso da molti in Occidente, in realtà occorre considerare che Gorbaciov era un uomo d'apparato, dotato di ottime qualità ma che non poteva o non intendeva distruggere quel vasto sistema di potere del quale faceva parte.
 Il rifiuto o l'impossibilità di Gorbaciov di procedere ad una innovazione della classe dirigente e l'eccessiva tendenza alla mediazione gli alienò le simpatie del popolo russo che iniziò a ritenere il nuovo leader un continuatore della vecchia politica. Secondo Solgenitsin: "Un caos ha preso il sopravvento da quando Gorbaciov ha cominciato a parlare di riforme senza peraltro attuarne alcuna"   anche Sacharov espresse riserve sulle riforme di Gorbaciov, più formali che sostanziali, che non hanno operato quel cambiamento reale che la società si aspettava.
 Il primo atto politico verso la democratizzazione della vita politica del paese compiuto dal nuovo leader fu l'eliminazione delle persecuzioni contro i numerosi dissidenti ed una politica fortemente innovativa in materia di diritti umani e libertà d'espressione, della quale beneficiò anche lo stesso Sacharov al quale venne revocato l'obbligo del soggiorno, anche se i mezzi d'informazione rimanevano saldamente nelle mani della nomenclatura.
 Sul piano economico non si ebbero invece significative riforme; l'autonomia delle imprese pubbliche, un rimedio prospettato da Gorbaciov nei primi anni della sua presidenza, e già in precedenza formulato da Kossighin, si rivelò un provvedimento poco efficace, le finalità dei dirigenti d'azienda, non erano le stesse dei fruitori dei servizi, e l'innovazione non garantì migliori approvvigionamenti per il paese. Anche una legge sulle cooperative non ebbe più fortuna in quanto soffocato da una grande quantità di limitazioni e di impedimenti burocratici. Vennero emanate infine leggi contro l'assenteismo e l'ubriachezza sul lavoro, che costituivano dei palliativi e non incidevano comunque sulla struttura economica del paese. Il risanamento dell'economia richiedeva grandi cambiamenti come quelli previsti dal "piano dei 500 giorni" preparato dall'economista Shatalin; Gorbaciov su pressione dell'apparato burocratico lo respinse; da allora l'economia sovietica senza orientamenti adeguati conobbe un sensibile peggioramento.
 Un sistema economico come quello sovietico, rigidamente statalista e centralizzato-re, si poteva reggere soltanto sul terrore; al tempo dello stalinismo i lavoratori come i dirigenti d'azienda si impegnavano nella produzione non per un beneficio personale o collettivo, ma sostanzialmente per il timore delle sanzioni (che potevano andare dal licenziamento all'invio al lavoro coatto), la qualità dei prodotti era estremamente scadente ma a suo modo quel sistema funzionava. Decaduto il sistema autoritario il gigantesco apparato economico divenne un sistema parassitario che viveva di sussidi statali, produceva beni che difficilmente avrebbero raggiunto il mercato e che negli ultimi tempi veniva finanziato stampando rubli.
  L'economia sovietica del periodo di Gorbaciov priva di regole di mercato produceva poco e per di più in maniera scoordinata; a volte gli stock di merce rimanevano invenduti per difficoltà nei trasporti o dei sistemi di magazzinaggio e conservazione, altre volte perché mancanti di alcuni componenti senza i quali il prodotto risultava inservibile. Una parte della produzione infine veniva sottratta dal circuito ufficiale da parte degli stessi responsabili per destinarlo al mercato nero, e fra i numerosi mali del paese questo rappresentava forse il minore, in qualche modo le merci arrivavano, sia pure a prezzi impossibili per la maggior parte della popolazione, sul mercato.
 Questa situazione ha favorito la nascita di una fiorente economia sommersa che di fatto reggeva il paese, mentre le poche merci vendute attraverso i canali di stato interessavano solo gli strati più poveri della popolazione. Le previsioni più pessimistiche sul futuro della Russia fatte da molti osservatori politici, che prevedevano carestie e ondate di scioperi, non si sono verificate grazie infatti alla presenza di un prospero mercato non ufficiale che ha garantito un minimo di sopravvivenza al paese.
 Nel campo della politica estera si ebbero invece grandi risultati, e sotto questo punto di vista i meriti del leader sovietico rimangono enormi. Con la rinuncia all'intervento nei paesi dell'Europa orientale e alla politica aggressiva nel Terzo Mondo venne chiusa la guerra fredda e inserita l'Unione Sovietica nel consesso internazionale. In un suo intervento politico il leader sovietico sostenne:"Nel mondo di oggi sempre più interdipendente e integrato è impossibile progredire in una società che frontiere chiuse e recinti ideologici isolano da processi mondiali... Il vero socialismo, nel quale il sistema serve l'individuo e non viceversa, può svilupparsi liberamente soltanto nel contesto di interrelazioni con il resto del mondo".
 I primi atti del nuovo corso politico si ebbero l'anno successivo all'elezione di Gorbaciov. Il 27° congresso del PCUS tenutosi nel febbraio 1986 in un clima di dibattito molto più libero che in precedenza, rappresentò un importante successo per il capo del Cremlino; la "Perestroika" e la "Glasnost" (riforma e trasparenza, ma potrebbero essere tradotti anche con ristrutturazione e pubblicità) vennero accolte favorevolmente dalle organizzazioni ufficiali dello stato, le quali tuttavia cercavano di neutralizzarne gli effetti ritenuti pericolosi per i propri interessi. Tutta la società sovietica sembrava gradire in un primo tempo i nuovi orientamenti politici del Cremlino, ma nacquero già nell'anno successivo le contestazioni. Secondo Ligaciov, portavoce dei conservatori, "Da una parte stanno coloro che vogliono procedere sulla strada della perestroika intesa come edificazione socialista. Dall'altra c'è chi vuole farci deviare verso la via capitalista e della democrazia borghese, c'è chi vuole introdurre la proprietà privata e il pluripartitismo" ; i radicali destinati ad emergere sempre di più nella scena politica, intendevano invece andare oltre alle riforme per arrivare alla creazione di uno stato non diverso dal modello occidentale. Il massimo rappresentante di tale schieramento, Boris Eltsin, nominato membro del Politburo da Gorbaciov, venne estromesso due anni dopo per le critiche alla lentezza a cui si procedeva nel campo delle riforme; per un certo periodo rimase ai margini della vita politica ma successivamente, grazie al suo successo presso le folle per la lotta alla corruzione, rientrò con forza nella scena politica.
 Nell'ottobre del 1988 Gorbaciov, con il ritiro di Gromiko dalla carica di capo dello stato, poté cumulare tale carica nella sua persona, e nel dicembre una nuova carta costituzionale ampliò i poteri del presidente, ma ciò non impedì il processo di disgregazione dello stato. L'anno successivo si tennero le elezioni legislative, dove per la prima volta nella storia della repubblica sovietica i cittadini ebbero la facoltà di scegliere fra candidati diversi, anche non appartenenti al partito. La consultazione rappresentò una sconfitta per la burocrazia, il 20% degli uomini dell'apparato non venne confermato, mentre Boris Eltsin, l'esponente dell'ala più radicale, ottenne un grande successo (nella regione di Mosca raggiunse punte dell'89% dei voti), il risultato comunque non modificò di molto la situazione, ma nelle repubbliche non russe vennero eletti numerosi esponenti nuovi favorevoli al distacco da Mosca.
 Conseguenza del nuovo clima politico e della maggiore libertà furono alcune scoperte sul passato del paese che erano state sempre coperte dal segreto; il 21 giugno 1990 il capo del KGB rivelò che il numero dei morti del terrore staliniano ammontava complessivamente a 3.800.000 e nel 1988 venne scoperta in Bielorussia il campo della morte di Kuropaty con le fosse contenti i cadaveri di 30.000 di prigionieri politici . Nello stesso periodo vennero alla luce altri sorprendenti particolari del passato, la "città sotterranea" di Mosca, un gigantesco bunker antiatomico destinato a ospitare 120.000 persone, struttura che doveva ritenersi riservata esclusivamente alla numerosa nomenclatura della capitale, e venne riportata dalla stampa l'esistenza di un quartiere residenziale riservato alla classe dirigente comunista, l'Archangel'skoe nei pressi di Mosca, dove era possibile trovare merci introvabili nel resto del paese.
 Negli anni 1989-90 si ebbe un deciso peggioramento della situazione economica e alimentare del paese seguita dal manifestarsi di un progressivo e intenso scollamento dello stato. Nel marzo '90 il Congresso del Popolo, in seguito ad alcune imponenti manifestazioni di piazza dirette da Eltsin, approvò alcuni emendamenti alla costituzione fra i quali l'abolizione del ruolo guida del partito; questo provvedimento (concesso a denti stretti dai dirigenti del Cremlino) ebbe importanza storica, segnando sostanzialmente la fine dell'epoca della dittatura, ma a causa della difficile situazione nel paese la transizione verso la democrazia risultò molto più complessa del previsto. Il PCUS costituiva un grande ostacolo al processo delle riforme; al momento della salita al potere di Gorbaciov contava 20 milioni di iscritti, 250.000 funzionari, un patrimonio valutato in 3.800 miliardi di lire e circa 5.000 palazzi ; nel giro di 18 mesi perse 4 milioni di iscritti. Di questa grande organizzazione, di cui Gromiko aveva scritto le lodi, (parlando della "saggezza e la lungimiranza del nostro partito, saldamente ancorato alle masse popolari" ) per altri rappresentava un movimento in piena fase di decadenza tenuto insieme ormai dalla sola finalità del mantenimento del potere; secondo l'economista Shatalin: "Il partito comunista dell'Unione Sovietica ha esaurito il suo compito storico consistente nel dimostrare al suo popolo e al mondo intero, come non bisogna vivere" . In Unione Sovietica i comunisti rinunciavano ai simboli del potere, a gran parte della dottrina leninista, alla censura politica, tuttavia non intendevano rinunciare alla loro presenza nelle istituzioni e consentire un ricambio della classe dirigente; si arrivò così all'inconsueta situazione di un paese avviato alla democrazia governato dalla stessa classe dirigente della precedente dittatura. Questo fu il maggiore limite della politica di Gorbaciov, secondo Shevarnadze, ministro degli esteri, e sostenitore convinto delle riforme: "Gorbaciov è convinto di riformare il partito. Io non ci credo, il partito non può essere riformato". Un'opera di rinnovamento più radicale dello stato si ebbe solo anni più tardi e con molti sforzi, grazie all'opera di Eltsin, che sebbene fosse stato anch'egli un membro del partito al potere, aveva rotto in maniera drastica con gli uomini del precedente regime.
 In occasione delle celebrazioni del 1° maggio 1990 Gorbaciov e tutto il vertice dello stato venne pesantemente contestato dalla folla nella Piazza Rossa. I cittadini sovietici si aspettavano delle maggiori innovazioni, e protestavano per il peggioramento della situazione economica e alimentare nel paese che aveva prodotto un peggioramento del tenore di vita. Nel luglio '90 si tenne il 28° Congresso PCUS nel corso del quale venne alla luce lo scandalo delle dacie e dei conti all'estero degli alti dirigenti; il segretario del partito Gorbaciov venne duramente contestato dai conservatori soprattutto per il disordine che si era creato nel paese, l'indipendentismo delle repubbliche non russe, la perdita del controllo dell'Europa orientale, considerata inaccettabile da coloro che credevano nella concezione dello stato brezneviana. Gorbaciov poté salvarsi con l'appoggio dei radicali, ma superata la crisi Eltsin abbandonò il partito con un gesto spettacolare che aumentò notevolmente il suo consenso fra i cittadini e gli consentì successivamente di riportare un grande successo alle elezioni presidenziali.
  L'altro grande elemento di novità nel panorama dello stato sovietico fu il riemergere del problema delle nazionalità e del nazionalismo. A volte il fenomeno si traduceva in richieste a favore dell'indipendenza dal potere centrale, in altri casi in scontri fra etnie diverse. L'Unione Sovietica sotto questo punto di vista presentava una difficile situazione; il grande paese eurasiatico si componeva di diverse realtà; le tre repubbliche slave: Russia, Ucraina e Bielorussia, che costituivano il centro del grande stato, (anche se è da ricordare che l'Ucraina nel passato è stata oggetto di repressione e la stessa Repubblica Russa comprendeva numerosi popoli minori); nel grande paese erano presenti poi le repubbliche turche di fede islamica: Kazakistan, Turkmenistan, Uzbekistan, Tagikistan e geograficamente separata l'Azerbaigian, infine le repubbliche periferiche tradizionalmente soggette all'autorità di Mosca, legate a questa da un rapporto di dipendenza: Lituania, Lettonia, Estonia, Moldavia, Georgia, Armenia. Anche sul piano delle confessioni religiose l'Unione Sovietica si presentava molto eterogenea, con i cristiani ortodossi che rappresentavano il 34% della popolazione, gli islamici il 12%, il 5% le altre confessioni cristiane, l'1% ebrei.
  Nel 1988 si ebbero i primi moti a sfondo nazionalistico con lo scontro per il Nagorno Karabach conteso da armeni di fede cristiana e azeri, seguito nell'aprile dell'anno successivo da tumulti in Georgia che vennero repressi dall'esercito con il ricorso ai gas tossici che provocarono la morte di una ventina di persone; l'episodio provocò la reazione della parte dell'opinione pubblica più democratica, la protesta del ministro degli esteri Shevarnadze e del fisico Andrej Sacharov.
 Di fronte a tali avvenimenti Gorbaciov, che non nascondeva la sua contrarietà alla indipendenza delle repubbliche, decise di affrontare la questione non più rimandabile dei rapporti fra potere centrale e repubbliche; nel novembre 1990 venne presentato il nuovo progetto di trattato dell'Unione che prevedeva una associazione fra repubbliche "uguali e sovrane", ma dove le possibilità di distacco dalla federazione erano abbastanza remote. Le offerte di autonomia non vennero accolte con interesse dal momento che le carte costituzio-nali nello stato sovietico non avevano mai avuto lunga vita. Il sistema sovietico rimase quindi vittima di se stesso. Un governo che non aveva rispettato i principi fondamentali dei trattati internazionali sottoscritti, che aveva promosso gli interventi in Ungheria, Cecoslovacchia, e Afghanistan, non poteva essere più credibile. Anche se il governo centrale avesse presentato un progetto di trattato dell'unione non diverso da quello della Svizzera non avrebbe potuto avere fortuna. I popoli non russi non sapevano che farsene di autonomia e impegni sul rispetto delle minoranze, quando il controllo dell'esercito e delle forze dell'ordine rimaneva nelle mani di Mosca.
 L'autunno del 1990 segnò un momento estremamente difficile per il paese che favorì la ripresa delle forze conservatrici. Gorbaciov acquistò pieni poteri in materia economica per portare il paese fuori dalla grave crisi alimentare, ma fu costretto ad affidare alcuni importanti incarichi governativi, fra i quali il ministero degli interni e la vice presidenza, ad esponenti conservatori, mentre numerosi suoi collaboratori di tendenze democratiche dovettero ritirarsi. Il ministro degli esteri Eduard Shevardnaze, esponente dell'ala democratica, denunciò il pericolo di un colpo di stato e dell'instaurazione di una nuova dittatura, diede pertanto le dimissioni, seguite da quelle di un altro dirigente della perestroika, Jakovlev, che aveva contribuito alla realizzazione di molte riforme di quel periodo. Il conferimento del Nobel a Gorbaciov non contribuì alla ripresa del movimento riformista.
 Nel gennaio dell'anno successivo i rapporti fra centro e periferia subirono un grave deterioramento, in seguito all'intervento contro le repubbliche baltiche. Nel marzo 1990, dopo numerose manifestazioni popolari, il parlamento proclamò la piena sovranità ed elesse capo dello stato Vytautas Landsbergis, capo del Sajudis, il Fronte Popolare per la Perestroika, di tendenze nazionaliste; la proclamazione dell'indipendenza venne confermata nel referendum del febbraio dell'anno successivo: il 90,4% della popolazione, percentuale superiore a quella degli stessi cittadini di origine lituana, che costituivano il 79% della popolazione, si espresse a favore del distacco dall'Unione Sovietica. I dirigenti di Mosca reagirono duramente alla iniziativa del governo lituano che fu costretto a sospendere gli effetti della dichiarazione. Il negoziato con Mosca non ebbe risultati positivi e contro la Lituania venne inviato l'esercito. L'intervento dell'Armata Rossa, condannato da tutta la comunità internazionale, si concluse con 13 morti. Gorbaciov fu costretto a prendere le distanze dai militari, ma fatti di analoga gravità si ebbero anche nella vicina Lettonia.
 L'invasione del piccolo stato baltico coincise con una ripresa dei conservatori, dell'autoritarismo e con il susseguirsi di dichiarazioni ostili verso l'Occidente che ricordava il periodo della guerra fredda, tendenza alla quale sembrò non sottrarsi lo stesso Gorbaciov. L'azione del governo di Mosca non poteva comunque essere peggiore; fu alla fine costretto a recedere dall'azione di forza, contestato anche da molti russi fra i quali lo stesso Eltsin, e provocò le critiche dell'Occidente che sospese gli aiuti al governo sovietico e il previsto incontro di Gorbaciov con Bush. Drammatici eventi si ebbero anche in Moldavia; in quella repubblica si verificarono gravi scontri fra la maggioranza rumena e le minoranze turche e russo-ucraine che rappresentavano un terzo circa del paese. Le altre repubbliche si avviarono al distacco da Mosca con minore difficoltà; ovunque si formarono partiti nazionalisti che non esclusero dal potere i comunisti e in larga parte formati dagli stessi uomini della passata classe dirigente. Nelle repubbliche islamiche si formarono movimenti politici a sfondo religioso ma solo nel Tagikistan prevalsero i fondamentalisti (il paese strinse successivamente legami con l'Iran), mentre il Kirghizistan per la sua posizione geografica si trovò a stringere rapporti con la vicina repubblica cinese. Verso la fine del '90 le repubbliche e una dozzina di regioni autonome si dichiararono sovrane e iniziarono una politica di ostruzionismo verso il governo centrale attraverso il non versamento dei tributi federali e il boicottaggio  dell'invio di giovani alla leva.
 Nel giugno del 1991 si tennero le elezioni presidenziali nella repubblica russa che rappresentarono il colpo finale alla struttura dello stato sovietico; Boris Eltsin venne eletto al primo turno con il 57% dei voti (e punte molto più alte nelle grandi città), la contrapposizio¬ne fra il Cremlino e la repubblica, che costituiva il centro dello stato sovietico, fu la causa della definitiva dissoluzione dell'URSS.
 Gorbaciov al fine di recuperare una parte del consenso perduto nel periodo prece-dente con gli atti di forza contro le repubbliche baltiche indisse un referendum sul nuovo trattato dell'Unione, iniziativa che incontrò l'opposizione di Lituania, Lettonia, Estonia, Armenia, Georgia e Moldavia, dove la consulta¬zione non ebbe seguito. Nel marzo del 1991 comunque il referendum ebbe luogo e si concluse con esito positivo per il progetto gorbacioviano che riportò il 76% dei voti.
 Le repubbliche, con l'esclusione di quelle baltiche, accettarono di firmare quindi il nuovo trattato, ma alla vigilia della firma dello stesso, l'ala conservatrice del PCUS con a capo il capo del KGB Kriuscov, il ministro degli interni Pugo, il vice presidente Janaev che in precedenza Gorbaciov aveva presentato come "uomo di solidi principi e sostenitore della perestroika" attuarono un tentativo di colpo di stato. I ribelli annunciarono che a causa delle gravi condizioni di salute Gorbaciov veniva sospeso dalle sue cariche mentre truppe speciali del ministero dell'interno penetrarono nella capitale e occuparono le sedi dei principali centri di potere. I membri del governo di Gorbaciov non opposero alcuna resistenza e mantennero un atteggiamento di ambigua neutralità (che spinsero a far ritenere che il capo del Cremlino fosse d'accordo con i golpisti), tuttavia la ferma resistenza di Eltsin, del parlamento russo e di una larga parte della popolazione moscovita che scese nelle piazze, ed infine quella di una parte delle forze armate contrarie alla sollevazione, costrinse i rivoltosi a desistere.
 Il fallito colpo di stato che aveva comunque provocato tre morti fra la popolazione civile si concluse con un successo per Eltsin; il presidente della repubblica russa di fatto prese il sopravvento su Gorbaciov, sciolse con uno storico provvedimento il PCUS, e mise il KGB in condizioni di non poter nuocere. Gorbaciov quando riprese il potere la sua immagine risultava fortemente compromessa, e di questo ne approfittarono le repubbliche per sgan-ciarsi definitivamente da Mosca.
 Nei giorni successivi il parlamento russo procedette al riconoscimento dell'indipen-denza dei paesi baltici con un atto che scavalcava l'autorità del Cremlino. Le repubbliche che si erano precedentemente impegnate a firmare il trattato sull'unione proposto da Gorbaciov ritirarono il loro assenso, e un successivo nuovo progetto venne analogamente rifiutato dai singoli parlamenti. Nel dicembre infine Eltsin prese l'iniziativa di costituire una associazione fra le tre repubbliche slave in sostituzione dell'URSS; nonostante le proteste di Gorbaciov, anche le altre repubbliche (con l'eccezione di quelle baltiche e della Georgia che diede la sua adesione solo successivamente) si unirono all'iniziativa dando vita alla Comunità di Stati Indipendenti, un'organizzazione di stati sovrani, sostanzialmente analoga a quella della Comunità Europea. Le nuove nazioni ormai definitivamente affrancate, vennero riconosciute ufficialmente dall'ONU nei giorni successivi. Tali paesi non hanno conosciuto grandi progressi, tuttavia diversamente dalle previsioni dei più pessimisti, il sistema di stati uscito dalla dissoluzione dell'Unione Sovietica ha retto, e si sono avuti contrasti solo a livello locale fra le repubbliche più periferiche.
 Gli ultimi avvenimenti in Unione Sovietica hanno messo in luce alcuni fatti sconcer-tanti come la presenza non solo di ben nutriti gruppi di nazionalisti, nostalgici dello zarismo e simpatizzanti del nazi-fascismo, ma anche l'intesa fra questi e i comunisti che ha dato vita negli anni del dopo URSS al Fronte di Salvezza Nazionale. Che non si trattasse di un fatto estempora¬neo, è stato confermato dall'appoggio dei parlamentari comunisti al vice presidente della Russia, il generale Rutzkoi, già esponente del movimento nazionalista del Pamjat. La Russia, di gran lunga la più grande delle repubbliche sorte dalla fine dell'URSS, negli anni successivi ha conosciuto gravi difficoltà sul piano economico e un certo regresso delle forze democratiche che non ha favorito lo sviluppo della regione, tuttavia i grandi cambiamenti non potevano essere fermati.
 

 

 

LA DISGREGAZIONE DEI REGIMI TOTALITARI
NEI PAESI DELL'EST

  


 Gli importanti avvenimenti della fine degli anni '80 nell'Europa orientale, dove i regimi comunisti con l'eccezione di quello rumeno, si sono dissolti senza spargimenti di sangue, mettono in luce diverse questioni. Gli insuccessi dei comunisti alle prime elezioni libere e la mancata resistenza dei governi al potere alle forze emergenti dimostrarono che questi regimi non godevano di alcuna credibilità, e che la loro condizione, sebbene migliorata rispetto al periodo staliniano, rimaneva quella di province di un impero. In Polonia, Ungheria e Cecoslovacchia negli anni della stagnazione brezneviana era subentrata, entro limiti ben precisi come la repressione della primavera di Praga confermò, una certa dose di tolleranza ma ciò non era sufficiente a garantire la stabilità.
 Gli avvenimenti recenti hanno poi confermato una evidente frattura fra i paesi più progrediti e quelli della regione balcanica a economia prevalentemente agricola che non hanno conosciuto nel passato istituzioni democratiche. I primi movimenti di riscatto si ebbero infatti in Cecoslovacchia e Polonia con la costituzione del gruppo culturale di Charta '77 e il movimento sindacale delle industrie del Baltico che diedero successivamente vita a Solidarnosc. La transizione dal comunismo alla democrazia avveniva senza traumi in Ungheria e Cecoslovacchia, mentre nei paesi a economia agricola come Bulgaria, Romania, Serbia, Albania il passaggio avveniva con maggiori difficoltà. Le regioni più povere e quelle più lontane culturalmente dal resto dell'Europa sono state quelle dove il comunismo ha mantenuto una parte dei consensi.
 Sulla caduta dei regimi comunisti in Europa orientale ci si è chiesti quanto siano dovuti al processo di democratizzazione inaugurato da Gorbaciov. Secondo il leader del Cremlino "Le relazioni politiche tra i paesi socialisti devono basarsi sulla più assoluta indipendenza. E' l'opinione condivisa dai leader di tutti i paesi fratelli. L'indipendenza di ogni partito, il suo diritto di decidere le questioni che si pongono per il suo paese e la responsabilità nei confronti della sua nazione costituiscono principi irrinunciabili... Nessun partito ha il monopolio della verità" , tuttavia non aveva soddisfatto molti sostenitori più radicali della democrazia. L'esponente della primavera di Praga Jirj Pelikan in una successiva intervista ha affermato che sarebbe "sbagliato vedere le rivoluzioni democratiche del 1989 come un risultato voluto da Gorbaciov: Egli ha senz'altro il grande merito storico di aver aperto la strada a questi cambiamenti, ma lui stesso è stato prigioniero del mito della Rivoluzione d'Ottobre e del leninismo con tutte le conseguenze che vediamo oggi nell'URSS".
 
 Dai moti del 1970 che portarono alla caduta di Gomulka la Polonia ha conosciuto una serie ininterrotta di grandi agitazioni sociali connesse a richieste di carattere politico. I provvedimenti economici adottati dal successore Gierek, scarsamente realistici (riduzione dei prezzi e aumento dei salari) non migliorarono la difficile situazione economica del paese, e nel 1976 si manifestò una nuova ondata di agitazioni nel corso della quale si ebbero alcuni morti e numerosi feriti. Nel 1980 si ebbe la nascita, a fianco del Comitato di Autodifesa Sociale, promosso dallo storico di tendenze marxiste Jacek Kuron che subì tre anni di carcere nel 1964 e nel 1981, di un grande movimento sindacale degli operai della grande industria, Solidarnosc, che negli anni successivi arrivò a contare una decina di milioni di iscritti. L'associazione sotto la guida di Lech Walesa avanzò molte richieste a carattere politico: abolizione della censura e delle persecuzioni contro i dissidenti, tutela dei diritti della chiesa cattolica e libertà d'espressione. Nel settembre Gierek accettò l'apertura di negoziati con l'opposizione che si concretizzarono negli accordi di Danzica, con i quali venne stabilito il riconoscimento dell'organizzazione sindacale, il diritto di sciopero e alcune limitate garanzie costituzionali, tali concessioni vennero giudicate inaccettabili da Mosca, che iniziò a manifestare il suo disappunto verso la situazione creatasi a Varsavia.
 Al congresso del PZPR del luglio '81 la classe dirigente del partito venne in gran parte sostituita con elementi riformisti o almeno moderati, Gierek abbandonò la direzione del partito e venne sostituito da Kania al quale subentrò nel dicembre dell'anno successivo il generale Jaruzleskj nominato con una procedura alquanto discutibile segretario del partito e capo del consiglio militare. Per fronteggiare la protesta operaia e prevenire un probabile intervento armato sovietico il nuovo governo militare proclamò lo stato d'emergenza. Solidarnosc venne sciolto e numerosi dirigenti fra i quali lo stesso Walesa arrestati. I gravi avvenimenti fecero seguito alle numerose pressioni da parte di Mosca (nel corso dei primi mesi di insediamento del presidente Reagan si erano svolte manovre militari e grandi spostamenti di truppe ai confini della Polonia) per arrivare alla soppressione del sindacato libero, movimento che avrebbe potuto estendersi agli altri paesi dell'Europa orientale. La reazione dei paesi occidentali alla ondata repressiva in Polonia fu cauta e produsse alcuni contrasti fra Stati Uniti ed Europa. Il presidente Reagan proibì infatti la vendita di alcuni prodotti tecnologici all'URSS che impedirono la realizzazione di un gasdotto transiberiano che avrebbe dovuto rifornire i paesi dell'Europa occidentale.
 La Chiesa Cattolica che da sempre godeva di un largo seguito nel paese, rafforzata dalla presenza di un pontefice polacco, prese le difese sia pure con notevole prudenza delle richieste operaie. Nel 1981 il papa Woithila subì un grave attentato portato a termine da terroristi turchi; si è ritenuto che l'azione possa essere stata commissionata da servizi segreti dei paesi dell'Est; prove che accertassero la responsabilità del tentato omicidio non sono state trovate, ma secondo la spia del KGB passata in Occidente Gordievskij il fatto potrebbe essere non impossibile e rientrerebbe nella strategia di eliminazione del maggiore sosteni¬tore materiale e morale dell'opposizione polacca.
 Nonostante la soppressione di ogni opposizione il nuovo governo polacco non fu in grado di risanare la situazione economica e fu costretto invece ad un nuovo aumento dei prezzi dei generi di prima necessità. Nel luglio del 1983 l'intraprendente elettricista dei cantieri di Danzica Walesa ottenne il premio Nobel per la pace, riconoscimento che diede nuovo impulso alla ripresa del movimento di protesta. La ripresa del dialogo fra il governo e l'opposizione subì un raffreddamento in seguito all'uccisione nel 1984 di Popieluzko un sacerdote molto attivo simpatizzante di Solidarnosc; l'assassinio probabilmente non venne commissionato espressamente dal vertice dello stato, e alcuni agenti del servizio segreto furono condannati per tale azione, i funerali del sacerdote furono occasione comunque per una gigantesca manifestazione alla quale parteciparono mezzo milione di cittadini. Nell'anno successivo l'arresto di circa 400 dimostranti in occasione delle manifestazioni non ufficiali per il 1° maggio portò ad un ulteriore peggioramento della situazione politica del paese.
 Nel 1986 con il consenso del Cremlino si ebbe una importante svolta con la liberazione di tutti i detenuti politici e il rinnovamento del Comitato Centrale del partito nel quale fecero ingresso esponenti riformisti. Una nuova ondata di agitazioni portò alla riapertura dei negoziati fra il governo e Solidarnosc che si conclusero nell'aprile del 1989 con un accordo che prevedeva il pluralismo sindacale e politico, elezioni parzialmente libere (in una delle due camere era comunque riservato al partito di governo un numero predetermina¬to di seggi). Nella consultazione elettorale tenutasi nel giugno Solidarnosc riportò un enorme successo; al Senato otteneva 99 seggi su 100, mentre al POUP, il partito di governo andava il 5% dei voti. Presidente del Consiglio venne eletto, l'esponente liberal cattolico di Solidarnosc Tadeus Mazowiezkj, mentre Walesa successivamente divenne capo dello stato.
 Il nuovo governo completava l'opera di democratizzazione iniziata e promuoveva una vasta riforma dell'economia in senso privatista che tuttavia non dava i risultati sperati. Il quadro politico si frazionava in un gran numero di gruppi politici, e sebbene ben radicata la democrazia, negli anni successivi riprendevano il sopravvento i sostenitori del modello economico socialista.

 Fra i diversi paesi dell'Est, l'Ungheria fu quello dove si era avuto una maggiore tolleranza politica e dal 1968 una riforma dell'economia portò il paese ad un relativo benessere economico. Nel 1986, avvenimento inconsueto per un regime comunista, venne decisa la chiusura delle industrie improduttive, pari al 70% dell'intero settore.
 Nel 1987 si ebbero a Budapest le prime manifestazioni per la libertà di stampa e di associazione alle quali presero parte alcune migliaia di cittadini. L'anno successivo il vecchio segretario del partito Kaidar fu costretto a cedere il potere all'esponente riformista Karoly Grosz; la transizione verso un diverso sistema politico venne realizzata senza traumi e difficoltà. Sotto la spinta dell'opposizione il Partito Socialista Operaio Ungherese accettò la democratizzazione della vita politica e il principio di libere elezioni che si tennero nel marzo dell'anno successivo. Da queste uscì vittorioso il Forum Democratico, la maggiore forza di opposizione, con il 24% dei voti, mentre il nuovo partito socialista non ottenne oltre l'11%.
 L'Ungheria fu il primo paese ad essere ammesso nel Consiglio d'Europa e a richiedere l'allontanamento delle truppe sovietiche. Il passaggio dall'economia socialista ad una di mercato è avvenuta con gradualità in un quadro di relativa stabilità politica.

 La Cecoslovacchia è stato il paese dove l'opposizione alla dittatura negli ambienti culturali, come nella parte più vasta della società, ha avuto il maggiore seguito. Nel 1977 trecento uomini di cultura sottoscrissero un manifesto, Charta '77, in cui si chiedeva il rispetto dei diritti umani in base ai principi degli Accordi di Helsinki, la abolizione delle alleanze militari in Europa, e quindi il ritiro dell'Armata Rossa dal territorio cecoslovacco. Le richieste non vennero prese in considerazione dal regime e i promotori dell'iniziativa duramente perseguitati. Vaclav Havel, principale esponente del movimento, venne condan¬nato a 7 mesi di carcere nel '77 e successivamente ad altri 4 anni nel '79. L'attività del coraggioso gruppo politico non venne comunque mai meno negli anni successivi.
 Nel 1987 Gustav Husak, segretario del partito, venne sostituito da Milos Jakes, esponente non riformista, ma meno compromesso del precedente nelle persecuzioni agli oppositori. Nei due anni successivi si tennero, promosse da Forum Civico il nuovo raggruppamento democratico fondato da Havel, diverse manifestazioni con grande partecipazione popolare (fra le quali quella in occasione dell'anniversario dell'invasione sovietica e della morte di Jan Palach, alle quali presero parte oltre il drammaturgo, il leader della primavera di Praga Alexander Dubcek) che vennero represse con energia dalla polizia, ma che impressero una svolta nel paese. Nel novembre dell'89 Jakes fu costretto a lasciare la segreteria del partito a Karel Urbaneck il quale riconobbe la legittimità di Forum Civico e abolì le norme costituzionali che prevedevano il ruolo guida del partito comunista.
 Nel giugno dell'anno successivo si tennero le prime elezioni libere che vennero vinte da Forum Civico con il 47% dei voti contro il 14% del partito comunista riformato. L'opera di rinnovamento dello stato veniva completata con la elezione di Havel a capo dello stato e di Dubcek a presidente del parlamento. La Cecoslovacchia negli anni successivi conobbe una crisi che portò alla separazione della Slovacchia, regione prevalentemente agricola dove i comunisti mantenevano una parte del potere; tuttavia la nuova Repubblica Ceca si avviò insieme alla vicina Ungheria senza eccessive difficoltà verso l'economia di mercato e il graduale inserimento nell'Europa occidentale.

 Il malcontento popolare con alcuni mesi di ritardo si diffuse anche nella Germania dell'Est. La Repubblica Democratica Tedesca sebbene costituisse il paese economicamente più avanzato del blocco sovietico, presentava una situazione non migliore degli altri stati. Il regime comunista per poter sopravvivere aveva imposto, anche in anni recenti, misure durissime attraverso una potentissima polizia segreta. la Stasi disponeva di quasi 100.000 agenti e mezzo milione di informatori, possedeva un patrimonio immobiliare di 2.000 edifici e un bilancio di 1.500 miliardi di lire; al momento del suo scioglimento sei milioni di cittadini, oltre un terzo della popolazione, risultava schedata nei suoi archivi. Il numero incredibile di fughe dal paese attesta l'ostilità della popolazione verso il regime. Solo nei primi tre giorni di apertura dei confini con l'Ungheria nell'ottobre '89 si ebbero 15.000 cittadini che abbandonarono il paese.
 Negli ultimi tempi un nuovo elemento era venuto ad aggiungersi alla già difficile situazione, la avversione del governo presieduto da Honecker alla politica riformista di Gorbaciov che portò ad un certo raffreddamento di rapporti fra i due leader. Sulla spinta dei grandi avvenimenti negli altri paesi socialisti, nell'ottobre del 1989 si tennero a Berlino Est e nelle altre grandi città una serie di grandi manifestazioni dell'opposizione represse dalle forze dell'ordine,che provocarono un certo fermento all'interno dello stesso partito comunista. Il vecchio leader Honecker si dimise da segretario del partito per lasciare l'importante incarico a Egon Krenz, suo uomo di fiducia. Nei mesi successivi il gruppo di opposizione Neues Forum costrinse il governo a due importanti riforme: la concessione del diritto all'emigrazione e il pluripartitismo. Anche il nuovo leader comunista, nonostante avesse tentato di ricercare il consenso all'interno del partito e nella società, venne rapida¬mente travolto e dovette lasciare la segreteria del partito ai riformisti che accettarono di tenere libere elezioni nel paese.
 Il permesso a raggiungere Berlino Ovest e la RFT produsse una grande serie di esodi di massa (fra il 10 e l'11 novembre almeno due milioni di cittadini della repubblica comunista superarono il confine con l'Occidente), mentre gruppi di cittadini spontaneamente sotto l'occhio indifferente della polizia iniziarono ad aprire varchi nel famigerato muro che divideva la città. Negli stessi giorni si ebbe la nomina a capo del governo dell'esponente riformista Modrow, l'abolizione della censura e del ruolo guida del partito, ma i tempi per la ricerca di un consenso erano ormai esauriti.
 Le elezioni tenute nel marzo '90 sancirono la vittoria dei democratici cristiani (presentatisi sotto il simbolo di Alleanza per la Germania) che ottennero il 41% dei voti, mentre al partito comunista riformato andò non più del 5%; il nuovo governo totalmente rinnovato presieduto dal democristiano Lothar De Maziere accelerò i tempi per la liquida¬zione del regime totalitario.
 Il vecchio leader Honecker, accusato di una lunga serie di reati fra i quali alto tradimento e omicidio per i numerosi tedeschi fuggiaschi uccisi, si rifugiò a Mosca. Nei mesi successivi venne alla luce il materiale raccolto dalla polizia politica e accertata la esistenza di strutture riservate alla nomenclatura e club speciali per le famiglie degli alti dirigenti che suscitarono lo sdegno della cittadinanza.
 Per i tedeschi dell'est e dell'ovest gli avvenimenti a cavallo del 1989 e 1990 costitui-rono una grande occasione storica. Prontamente il cancelliere della Germania Occidentale Kohl preparò un'intesa per una rapida riunificazione del paese (ritenuta eccessivamente rapida da alcune forze politiche) che ottenne, dietro alcuni impegni, (riduzione delle forze armate e riconoscimento del confine dell'Oder Neisse) l'assenso del Cremlino. Nel maggio dell'anno successivo si tenne una conferenza internazionale con la partecipazione dei rappresentanti dei due stati tedeschi e delle potenze firmatarie degli Accordi di Potsdam che accettò il piano di riunificazione (alcuni paesi europei espressero qualche riserva sull'ecces-sivo potenziamento della Germania, ma accettarono volentieri la nuova realtà tedesca). Il 3 ottobre avvenne la storica riunificazione del paese.
 Nelle prime elezioni pantedesche dal 1933 i democratici cristiani di Kohl riportarono un successo, venne avviato un programma di aiuti economici alle regioni dell'ex DDR, il cui inserimento nella nuova realtà tedesca risultò più difficile del previsto e costrinse il governo ad una complessa manovra per la ricerca delle risorse finanziarie necessarie.
 
  In Bulgaria e Romania, paesi poveri a economia prevalentemente agricola, la situazione politica si presentava fortemente diversa rispetto a quella degli altri paesi dell'Est. In queste due nazioni le richieste di democrazia risultavano minori ed interessavano essenzialmente il ceto medio intellettuale.
 A Sofia le prime manifestazioni contro il governo e a favore del rispetto dei diritti umani nell'autunno dell'89 vennero represse con numerosi arresti, tuttavia determinarono una svolta nel paese. All'interno del partito comunista l'ala riformista si rafforzò e costrinse alle dimissioni il vecchio leader Todor Zhivkov, al vertice del partito da 35 anni. Le proteste nel paese comunque non cessarono, e il regime dovette accettare il rispetto delle libertà fondamentali, il pluripartitismo e libere elezioni. Queste si tennero nel giugno del 1990 (con un procedimento ritenuto irregolare dall'opposizione) e vennero vinte sia pure di misura dal partito socialista, la nuova formazione politica nata dalla trasformazione del vecchio partito di governo. Nei mesi successivi tuttavia il partito socialista si spaccò fra conservatori e progressisti e ciò consentì all'opposizione di entrare al governo.
 Il nuovo governo ha intrapreso alcuni importanti provvedimenti come la restituzione ai vecchi proprietari delle terre sottratte con la collettivizzazione e la liberalizzazione dell'economia, iniziative che hanno favorito un moderato ingresso degli investimenti stranieri. Il vecchio dittatore Zhivkov, accusato di abuso di potere, storno di denaro pubblico per un valore di un milione di dollari, venne processato e condannato a 7 anni di carcere.

 La Romania è stato il paese nel quale il processo di democratizzazione si è svolto con spargimento di sangue e ha dato risultati molto limitati. La dittatura in Romania presentava dei caratteri che non avevano uguali negli altri paesi dell'Est, e che poteva essere confrontata solo con la repubblica albanese di Hoxha. Il paese era gestito da Nicolae Ceausescu e dalla moglie Elena (una ex domestica che la stampa ufficiale le attribuiva il titolo di scienziato) con metodi brutali e il ricorso ad una polizia segreta, la Securitate che si ritiene abbia commesso dal 1965, anno in cui salì al potere il dittatore, al 1989 oltre 60.000 omicidi.
 Nel corso degli anni '80 il paese conobbe un sensibile peggioramento economico al quale il regime fece fronte con misure drastiche come la distruzione di alcune migliaia di villaggi agricoli per favorire un incerto programma di modernizzazione economica. Fra la popolazione, ridotta ad uno stato di sottoalimentazione, cresceva la protesta, tuttavia fino al dicembre 1989 il potere rimaneva ben saldo nelle mani del regime. Nel corso di quel mese scoppiò nella città di Timisoara nella Transilvania una sollevazione popolare in seguito alla deportazione di un pastore protestante dissidente. Sull'episodio esistono interpretazioni contrastanti, comunque i reparti della Securitate repressero con durezza l'agitazione provocando numerosi morti (un centinaio secondo fonti ufficiali, alcune migliaia secondo altre fonti), e la protesta si diffuse nel resto del paese. Il giorno 21 Ceausescu venne contestato dalla folla sotto il palazzo del governo e non più protetto dai suoi pretoriani fu costretto alla fuga. L'esercito si schierò con la popolazione e per alcuni giorni continuarono gli scontri con la polizia segreta fedele al dittatore, finche progressivamente gli insorti ebbero la meglio, ma la direzione della protesta venne assunta da alcuni uomini del passato regime che attuarono solo una parziale democratizzazione del paese. Nelle successive elezioni il Fronte di Salvezza Nazionale presieduto da Jon Iliescu riportò la maggioranza assoluta e il suo leader venne eletto presidente della repubblica con l'85% dei voti in una consultazione sulla quale furono espresse numerose riserve.

 I moti del 1989 non riguardarono solo i paesi socialisti appartenenti al blocco sovietico, ma anche i due stati comunisti balcanici che da lungo tempo si erano distaccati parteciparono agli eventi.
 L'Albania nel suo totale isolamento politico ed economico da quando nel 1978 aveva rotto i rapporti con la Cina Popolare, costituiva lo stato più povero d'Europa e uno dei più poveri del mondo. Nel 1985 con la morte del vecchio dittatore Hoxha, padre padrone del piccolo stato, il potere passava a Ramiz Alia, personaggio di modesta statura incapace di proseguire l'opera del predecessore; sotto il nuovo regime venne comunque introdotta una relativa attenuazione della dittatura, ma il nuovo governo si dimostrò incapace di avviare il paese ad un cambiamento costruttivo.  

Sotto la spinta di grandi agitazioni popolari (represse con durezza dall'esercito) il governo fu costretto ad indire elezioni, le prime nella storia del paese, che si tennero nel marzo '91. Il voto confermava una tendenza già manifestatasi in altre nazioni povere dell'Est: la popolazione urbana si esprimeva a favore dell'opposizione democratica, mentre quella rurale abituata ad una condizione servile confermava il consenso per il partito comunista rinnovato. Il partito democratico, la principale forza d'opposizione, denunciò l'irregolarità delle elezioni, mentre le forze di governo si dimostrarono incapaci di controllare la situazione e nelle nuove elezioni tenute sotto il controllo del Consiglio d'Europa all'ex partito comunista andò il 25% dei voti e l'opposizione ottenne la maggioranza assoluta. Il nuovo governo diede vita ad un ampio programma di privatizzazioni nel campo agricolo e industriale che ha consentito un limitato miglioramento della situazione economica e il reinserimento del paese nel contesto europeo.
  Caratteristiche del tutto a sé ha avuto il processo di dissoluzione del comunismo in Jugoslavia, dove le questioni nazionali e religiose hanno preso il sopravvento su quelle strettamente politiche ideologiche. Lo stato jugoslavo, comprendente diverse etnie e diversi gruppi religiosi, (cristiano ortodossi, cattolici, mussulmani, che rappresentavano rispettivamente il 41%, il 32% e l'11% della popolazione) non aveva sviluppato solidi legami fra le repubbliche e dopo la morte di Tito la sua stabilità risultava molto precaria.
 A più riprese gli albanesi del Kossovo manifestarono segni di insofferenza verso il potere centrale. A seguito di queste agitazioni nel febbraio del 1989 il governo di Belgrado dichiarò lo stato d'emergenza nella regione e sciolse autoritariamente l'Assemblea legislativa locale che aveva votato per la creazione di una repubblica federata. Nel gennaio dell'anno successivo si ebbero le maggiori manifestazioni di protesta che vennero duramente represse dall'esercito e si conclusero con una trentina di morti.
 Nei mesi successivi la contestazione contro il potere centrale e quindi l'egemonia della Serbia all'interno della struttura federale si estese alle altre repubbliche. Nell'aprile 1990 si tennero le elezioni in Slovenia dove si affermò il gruppo democratico di Demos e quello comunista riformista diretto da Milan Kucan, mentre in Croazia ottenne la maggioranza l'Unione Democratica di Tudjiman. Entrambe attraverso un referendum vinto a larga maggioranza si espressero a favore dell'indipendenza; il distacco da Belgrado tuttavia venne successivamente sospeso su richiesta della Comunità Europea.
 La Serbia, nonostante numerose manifestazioni di protesta contro il regime, è stato il paese che ha mantenuto maggiormente le strutture di potere comunista. Il governo di Belgrado si dichiarò contrario sia allo scioglimento della Jugoslavia, sia al passaggio della presidenza (secondo le regole costituzionali) al rappresentante croato Stipe Mesic. Nel giugno del 1991 l'esercito federale jugoslavo, di fatto controllato dai serbi, tentò di prendere posizione contro la Slovenia, ma fu costretto rapidamente a ritirarsi. Più difficile fu la situazione della Croazia, dove la presenza di una minoranza serba (circa il 12% della popolazione, concentrata soprattutto nella Krajina) ha dato luogo ad una durissima guerra, alla quale ha preso parte l'esercito serbo e le milizie irregolari dei cetnici; i tragici eventi hanno provocato grandi distruzioni nel paese e numerosi morti.
 Nel dicembre '91 la Germania procedeva al riconoscimento delle due repubbliche secessioniste, seguita dagli altri paesi della CEE (che avevano preferito d'accordo con gli Stati Uniti di tenere un atteggiamento più attendista) e dal resto della comunità internaziona¬le. Le numerose proposte di pace presentate dalla CEE e dall'ONU vennero respinte, e solo dopo l'embargo decretato dall'ONU nel settembre il governo serbo ha accettato, senza arrivare ad una definitiva formula di pace, la cessazione dei combattimenti. Nei mesi successivi anche la Macedonia e la Bosnia hanno proclamato l'indipendenza suscitando nuove reazioni. Contro la Bosnia (paese nel quale sono presenti oltre ai mussulmani, serbi e croati che costituiscono rispettivamente il 31 e il 17% della popolazione) sono intervenute l'esercito e le milizie irregolari serbe dando luogo ad una guerra più cruenta di quella combattuta nella stessa Croazia. Si sono avute decine di migliaia di morti, e centinaia di migliaia di profughi (il totale di rifugiati dalla ex Jugoslavia nei primi mesi del '93 raggiungeva i 2 milioni) una parte dei quali mussulmani costretti con la forza ad abbandonare le loro terre. Gli orrori della guerra in Bosnia, con la violenza sulle donne e i campi di concentramento che ricordavano i famigerati lager della seconda guerra mondiale, hanno scosso duramente l'opinione pubblica mondiale.

 

 

LA CINA NAZIONAL - COMUNISTA

 

 

 Ben prima della scomparsa di Mao lo stato cinese aveva dato segni di sostenere un comunismo diverso da quello degli anni precedenti e di evolvere verso un regime autoritario nazionali¬sta. Nel campo della politica internazionale il regime maoista degli ultimi anni condusse una politica di equilibrio fra le potenze (considerando in questa categoria anche l'Europa e il Giappone) al di fuori di qualsiasi "causa" ideale, politica che ha portato la Cina a sostenere posizioni singolari per un governo comunista, e il potente Primo Ministro Ciu En Lai a dichiarare che la Cina "sostiene la lotta dei paesi occidentali contro le minacce e le vessazioni delle superpotenze".
 Nel 1973 dopo la liquidazione di Lin Piao e dei massimi esponenti della Rivoluzione Culturale (Chen Po Ta e Ka Cheng) si tenne il 10° Congresso del PCC che segnò un'impor-tante successo della linea pragmatica di Ciu En Lai; l'anziano Primo Ministro tenne una lunga requisitoria contro gli eccessi degli anni precedenti, e sostenne la necessità di un compromesso con le potenze capitaliste. Venne rafforzato il ruolo guida del partito (limitato in precedenza dall'esercito) e sancito che occorreva avere "fiducia nelle masse... creare una situazione politica in cui esistano sia il centralismo, sia la democrazia, sia la disciplina, sia la libertà, l'apertura, e la vivacità dello spirito" e che "il partito comunista cinese assume come base teorica che guida il suo pensiero, il marxismo leninismo e il pensiero di Mao Tse Tung". Le conclusioni del Congresso vennero confermate dal Parlamento che da dieci anni non veniva più convocato. Come nell'Unione Sovietica, anche in Cina si poneva un problema di ricambio generazionale, data l'età media molto elevata della classe dirigente. Con la vittoria dei moderati vennero riabilitati numerosi alti dirigenti caduti in disgrazia nel periodo della Rivoluzione Culturale, fra i quali Deng Tsiao Ping e Hua Kuo Feng, che furono i protagonisti degli avvenimenti successivi.
 I rapporti con l'Unione Sovietica rimasero tesi; una nuova proposta di pacificazione da parte del Cremlino venne respinta e nel gennaio del 1974 cinque diplomatici sovietici vennero espulsi. Nei mesi successivi venne catturato un elicotterista sovietico in "missione spionistica"; il governo di Mosca replicò a tali iniziative con l'interdizione delle navigazione sulle acque dei fiumi Amur e Ussuri, teatro di scontri negli anni precedenti. Nello stesso anno si ebbero scontri fra cinesi e sud vietnamiti per il possesso delle isole Paracel nel Mar Cinese meridionale che si conclusero con un nulla di fatto. Nonostante questi avvenimenti i progressi nelle relazioni fra USA e Cina, soprattutto per la questione di Taiwan, procedevano lentamente e solo nel 1979 si ebbe l'apertura di un'ambasciata statunitense a Pechino.
 Nel 1976 con la scomparsa a distanza di brevissimo tempo di Ciu En Lai e Mao Tse Tung, la Cina ha conosciuto un'importante svolta. Deng Tsiao Ping, ritenuto il successore di Ciu, fu oggetto di aspre critiche (ma anche di manifestazioni a suo favore) e nel luglio dell'anno successivo riotteneva tutte le cariche delle quali era stato privato in precedenza, situazione che gli consentiva di divenire la vera figura emergente del dopo Mao, e di imprimere un nuovo corso al paese. Nello stesso periodo si ebbe lo scontro, che costituì la maggiore battaglia politica di quel periodo, contro la cosiddetta "banda dei quattro" di cui faceva parte la vedova di Mao e altri leader di tendenze estremiste. Il gruppo venne accusato di una serie di delitti nel periodo delle terribili repressioni della Rivoluzione Culturale della quale furono ritenuti i maggiori responsabili. Il loro arresto e la loro successiva esecuzione rappresentò una rottura col passato rivoluzionario e l'avvio di un processo di liberalizzazione economica (ma non politica) del paese.
 Le riforme promosse da Deng nell'anno successivo consentirono la nascita dell'attività economica privata, minori restrizioni negli scambi commerciali, una maggiore efficienza dell'apparato statale, e il rinnovamento dell'insegnamento, fino allora soffocato dal dottrinarismo, ma non anche una democrazia politica come i fatti successivi confermarono. Fra le riforme promosse dall'anziano statista è da segnalare anche l'approvazione di una nuova costituzione che prevedeva il rispetto dei diritti umani (affermazione priva di qualsiasi seguito come i fatti successivi dimostrarono) e di incentivi alla produzione. Si ebbe la riabilitazione di alcune decine di milioni di vittime di precedenti purghe, ed infine una apertura verso l'organizzazione comunista jugoslava ed eurocomunista.
 La liberalizzazione economica con la creazione di alcune province dotate di ampia autonomia, ha portato ad un grande sviluppo industriale, tuttavia tale fenomeno ha messo in luce alcuni gravi problemi del paese. Corruzione, nepotismo, autoritarismo, fenomeni fortemente tollerati dalle istituzioni, costituivano e costituiscono i grandi mali della società cinese che impedirono una vera evoluzione del paese.
 Negoziati concreti fra l'Unione Sovietica e la Cina si aprirono solo nel 1986 dopo l'avvento di Gorbaciov, ed hanno portato alla normalizzazione dei rapporti fra le due potenze senza portare comunque ad un vero riavvicinamento. La maggiore moderazione della Cina in campo internazionale, l'intensificazione dei rapporti con l'Iran, la pacificazione con l'India, non si tradusse in un miglioramento dei rapporti con le popolazioni non cinesi all'interno del paese. Nel 1988 si ebbe una nuova rivolta dei tibetani, repressa duramente dall'esercito, e due anni dopo una sollevazione delle popolazioni di origine turca del Sinkiang, definita da Pechino una "ribellione armata controri¬voluzionaria" che si concluse con almeno 22 morti.
 Il maggiore sintomo del malcontento contro il regime venne tuttavia dalla protesta studentesca. Le manifestazioni giovanili presero l'avvio dai funerali di Hu Yaobang nell'aprile dell'89, il capo del partito allontanato l'anno precedente da Deng. Gli studenti reclamavano democrazia, rispetto dei diritti umani e lotta alla corruzione dilagante all'interno della burocrazia che aveva creato gravi situazioni di discriminazione all'interno della società. Zhao Ziyang, segretario del partito si dimostrò sensibile alle richieste degli studenti e per un certo periodo si creò una frattura all'interno della classe dirigente fra sostenitori del dialogo e fautori della linea dura. La visita di Gorbaciov riaccese gli animi; il 18 maggio una colossale manifestazione alla quale prese parte un milione di cittadini, la più imponente dai tempi della Rivoluzione Culturale, bloccò la capitale, mentre sempre più numerosi furono gli studenti che iniziavano lo sciopero della fame. Zhao fu costretto, in una riunione segreta decisa dai vertici dello stato alle dimissioni. Il 20 maggio venne proclamata la legge marziale, e dopo aver allontanato i giornalisti, venne deciso di reprimere la protesta giovanile in piazza Tien An Men. Secondo fonti giornalistiche l'azione militare fu un gesto inutile; la massa degli studenti avrebbe forse spontaneamente abbandonato la grande piazza per stanchezza e per le difficoltà relative ad una permanenza prolungata. Nella note del 3 giugno i carri armati attaccarono gli studenti sparando ad altezza d'uomo; secondo le fonti ufficiali i morti furono 300, ma secondo la Croce Rossa furono oltre 2.000. Nei giorni successivi venero eseguite diverse condanne a morte e migliaia furono gli arresti.
 I raccapriccianti avvenimenti di piazza Tien An Men scossero l'opinione pubblica mondiale, e lo stato cinese venne sottoposto ad un isolamento internazionale durato un paio d'anni, interrotto solo dall'assenso del governo di Pechino in sede ONU alle misure interna-ziona¬li contro l'Irak.
 

 

 

LA FINE DELLA GUERRA FREDDA

 

 


 La politica espansionistica dell'Unione Sovietica avevano mostrato i suoi punti deboli. Tale politica richiedeva uno sforzo prolungato nel tempo, un'autentica guerra di logoramento che l'Unione Sovietica, con un reddito nazionale notevolmente inferiore a quello dell'Occidente non poteva reggere a tempo indefinito. Andrei Gromiko parlando della politica degli Stati Uniti nelle sue memorie afferma: "Più armi! Più armi. Dietro tutto questo c'è chiaramente il calcolo che l'URSS esaurirà prima degli USA le proprie risorse materiali, e sarà quindi costretta ad arrendersi" . Gorbaciov e gli uomini del nuovo vertice politico compresero questa realtà e diedero allo stato sovietico una decisa svolta. L'approccio di Gorbaciov al problema della sicurezza nazionale era profondamente diverso da quello dei suoi predecessori "La natura degli armamenti" ha affermato nel febbraio del 1986 " non lascia ad alcuno stato la speranza di difendersi usando soltanto mezzi tecnico-militari... La tutela della sicurezza sta diventando sempre più un compito politico e può essere realizzata soltanto con mezzi pacifici" . Anche la stampa sovietica iniziò a occuparsi del problema "Un maggiore fardello di spese in politica estera e di difesa" ha sostenuto il giornale sovietico Affari Internazionali "danneggerebbe l'economia civile e metterebbe in pericolo il programma di modernizzazione... sarebbe utile abbandonare gradualmente la nostra rivalità con gli USA e sospendere il costoso sostegno a impopolari regimi" .
 La conclusione della guerra fredda fu un fenomeno relativamente rapido; quando l'Unione Sovietica diede segni di voler cambiare la propria politica interna, consentendo un certo grado di libertà d'espressione, e in politica estera rinunciando al principio della legittimità di intervento nei paesi stranieri (secondo la dottrina della sovranità limitata di Breznev) il dialogo fra Est e Ovest ebbe una intensa accelerazione.
 I due incontri al massimo livello fra Unione Sovietica e Stati Uniti nel biennio 1985-1986 tenutisi a Ginevra e a Reykjavik, preceduti dalla presentazione di un piano per il disarmo generale entro il 2000 da parte di Gorbaciov, non ebbero risultati immediati ma posero le basi per nuove iniziative. Nell'incontro in Islanda nell'ottobre dell'86 l'accordo sulla riduzione degli euromissili non ebbe esito felice a causa della richiesta sovietica di bloccare gli esperimenti del SDI, il sistema di difesa antimissile, campo nel quale comunque anche i sovietici svolgevano ricerche. Tuttavia nel dicembre dell'anno successivo venne firmato a Washington il trattato INF sulla abolizione dei missili a media gittata (euromissili) che nella sostanza corrispondeva alla "opzione zero" americana, e nella stessa sede venne concordato il ritiro delle truppe sovietiche dall'Afghanistan. Il trattato conteneva due importanti novità sulle quali i sovietici per molti anni si erano opposti: riduzioni asimmetriche al fine di arrivare ad una situazione di parità negli armamenti, e ispezioni reciproche sul territorio, definite fino a non molto tempo prima, atti di spionaggio legalizzato.
 Quando negli anni successivi l'Unione Sovietica manifestò di non opporsi alla creazione di regimi pluripartitici nei paesi dell'Est e alla riunificazione della Germania, venne a decadere la maggiore ragione di contrasto che aveva turbato la politica mondiale dopo la seconda guerra mondiale. L'Unione Sovietica dimostrava in termini reali di rinunciare ad una politica fondata sulla forza e di accettare quelle regole di convivenza fra i popoli che per lungo tempo aveva contrastato.
 Nell'ottobre del 1989 i paesi membri del Patto di Varsavia condannarono l'intervento militare contro la Cecoslovacchia del '68, e stabilirono il loro diritto di distaccarsi dall'alleanza, fatto che avvenne nel 1991, e decretò la fine dell'organizzazione militare stessa. Il governo di Mosca rinunciò anche a buona parte dei legami con i regimi comunisti del Terzo Mondo divenuti ormai un peso economico insostenibile; cessarono quindi gli aiuti al governo di Castro, l'unico governo a dichiararsi apertamente contrario alla perestroika, a quello sandinista, ai paesi socialisti africani e assunsero un atteggiamento costruttivo per una politica di pacificazione nel Medio Oriente.
 L'incontro con Kohl nel luglio 1990 e il "nulla osta" alla riunificazione tedesca in cambio di aiuti economici, e il contenimento della spesa militare del nuovo stato tedesco segnarono un altro importante traguardo, al quale si aggiunse la conclusione di un trattato per la riduzione dei missili a corto raggio, a differenza degli euromissili, impiegati direttamente sul fronte in battaglia.
 Nel biennio 1989-90 si ebbero altri due importanti risultati con il trattato sulla eliminazione delle armi chimiche (divieto di produzione e distruzione di quelle già esistenti) e negoziati sulla riduzione delle forze convenzionali presenti sul continente europeo (CFE). Con tale accordo il governo di Mosca accettò una sostanziosa riduzione degli effettivi e delle divisioni corazzate presenti in Europa tali da eliminare la minaccia di aggressione che per anni aveva gravato sui paesi europei.
 Nel novembre '90 si tenne un vertice straordinario della CSCE, la Conferenza per la Sicurezza Collettiva in Europa, nel quale venne firmato un patto d'amicizia fra NATO e Patto di Varsavia, e una storica dichiarazione con la quale si considerava definitivamente concluso il periodo di confronto fra le due potenze e inaugurato un nuovo periodo di pace e di collaborazione.
 Nel 1991 poté quindi essere firmato il più importante trattato sul disarmo che prevedeva la riduzione, e non semplicemente la limitazione, delle armi nucleari. Il Strategic Arms Reduction Treaty (START) prevedeva l'abbassamento del numero delle testate nucleari, del 29% per gli Stati Uniti e del 36% per l'Unione Sovietica, e la riduzione dei vettori con base a terra e su sommergibili, del 40% per gli USA e del 48% per l'URSS; con tale decisione si creava una situazione di equilibrio fra le due superpotenze tale da rendere una guerra non remunerativa per nessuna delle due parti. Nel 1993 questi limiti furono ulteriormente abbassati.
 I trattati firmati successivamente al 1987 insieme al venire meno delle contese fra Est e Ovest hanno significato l'eliminazione della minaccia di una catastrofe nucleare che da decenni sembrava incombere sull'umanità. Tuttavia la dissoluzione dell'URSS ed il conse-guente smembramento dell'arsenale sovietico fra Russia, Ucraina e Kazakistan, paesi dove regnava una certa instabilità e sussisteva il pericolo che potesse venire meno il controllo sulle micidiali armi da parte dei governi, non ha fugato tutte le paure che minacciavano l'umanità.

 La caduta dei regimi dell'Est, la riunificazione tedesca, la disgregazione dell'Unione Sovietica hanno sorpreso l'umanità per la rapidità con la quale sono avvenuti. Se vediamo la storia delle dittature del secolo da poco concluso, notiamo che il fenomeno è meno straordinario di quello che sembra. I regimi totalitari nella maggior parte dei casi cercavano di darsi un'immagine di solidità e compattezza che in realtà non avevano. La sconfitta in Afghanistan, la crisi economica, l'azione di rottura dei dissidenti, anche se in maniera non visibile, misero in grave difficoltà il governo sovietico, e quando questi fattori superano certi limiti la dissoluzione del sistema politico avvenne improvvisa in tempi relativamente ridotti.
  Una delle caratteristiche salienti di un regime totalitario è la concentrazione del potere nelle mani di un partito politico e il controllo di questo da parte di un leader al quale sono riconosciute qualità particolari, in grado di dare un'immagine di sé e dello stato fuori dall'ordinario. Successivamente alla morte di Stalin nessuno fra i massimi leader disponeva di capacità tali da proseguire la figura del capo scomparso e, come lo stesso Berija comprese, il vecchio sistema di potere non era più proponibile. Il regime sovietico ha quindi cessato di imporre modelli alla società e si è posto sulla difensiva accettando progressivamente compromessi sempre più ampi con il paese reale. La storia dell'Unione Sovietica dopo Stalin è un'alternarsi di misure repressive e di atti tesi a ridurre la coercizione, che tuttavia non assicurarono la risoluzione dei problemi del paese e la stabilità. Kruscev con le sue affermazioni prive di seguito e le sue minacce cadute nel vuoto non poteva proseguire l'opera del dittatore georgiano, né Breznev un vecchio circondato di altrettanti vecchi.
 Se il comunismo fosse crollato sotto i colpi dell'Occidente e di Ronald Reagan, si potrebbe parlare di un sistema politico caduto in piedi; invece la fine del comunismo è stata una fine ingloriosa avvenuta a causa di quelle stesse forze che riteneva di rappresentare, le forze del progresso, della cultura, così come di quelle categorie che attendevano l'emancipazione politica ed economica. Si concludeva così nel 1991 l'esperienza di uno stato sorto da un fermento rivoluzionario, ma non anche democratico, che irrigidito nelle sue strutture totalitarie è progressivamente degenerato in stato autoritario, conservatore e nazionalista. Ogni reale progresso della storia si fonda sulla libertà e la coscienza dei cittadini, questo è l'insegnamento del fallimento del comunismo in Europa come nei paesi del Terzo Mondo. Dalla dittatura tranquilla di Breznev a quella feroce di Ceausescu e Hoxha, tutto dimostra che non esiste apparato repressivo che possa fermare la storia.
 L'involuzione delle rivoluzioni sovietica e cinese non può sorprenderci in maniera eccessiva; quando una rivoluzione non poggia, o non poggia più, sull'adesione spontanea della società ma diviene una oligarchia chiusa e inaccessibile (pericolo insito nella stessa teoria leninista e non solo nei suoi sviluppi successivi), quando i modelli di società vengono imposti dall'alto e non esiste più un mutuo scambio fra i vertici e la base, la rivoluzione inizia la sua degenerazione, il livello qualitativo del sistema politico decade progressivamente e al fermento rivoluzionario subentra il conformismo e l'apatia.
 La realtà sovietica ha dimostrato che non esiste un socialismo modernista e un liberalismo storicamente superato, come in passato si è ritenuto, ma un socialismo autoritario, contrario all'innovazione, estraneo alla società moderna, ed un socialismo democratico aperto e progressista, in grado di fornire un suo contributo ideale alla storia dell'umanità. Lo stato sovietico, e più tardi la Rivoluzione Culturale e le esperienze del comunismo terzomondista, hanno acceso gli animi di molti giovani e di molti intellettuali che credevano fosse l'inizio di un mondo nuovo. Progressivamente hanno mostrato un diverso volto sempre più tragico e hanno messo in luce che gli eccessi e gli "errori" come venivano chiamati dai vecchi comunisti, non erano incidenti di percorso, ma parte intrinseca di quei sistemi potere.
 Decenni di storia del comunismo hanno rivelato che controllo dell'economia da parte del potere centrale e sviluppo costituiscono obbiettivi inconciliabili. L'individuo infatti reclama un suo ruolo e non può accettare di divenire un soggetto passivo di un progetto economico.
 Il socialismo marxista attraversa probabilmente il maggiore periodo di ristagno dalla sua nascita nell’Ottocento. Anche se può essere discutibile che i regimi affermatisi nell'Europa orientale rappresentassero l'attuazione puntuale delle teorie marxiste, risulta fortemente in crisi nell'Europa occidentale la dottrina di Marx sia a livello intellettuale che di organizzazioni di massa. Oltre che per il fallimento del comunismo nei paesi dell'Est, la dottrina marxista incontra maggiori difficoltà in società avviate verso la formazione di un vasto ceto medio, non facilmente inquadrabile nel concetto di lotta di classe.

 Dall'annuncio della dottrina Truman nel '47 gli Stati Uniti hanno sostenuto un peso superiore (come risorse ma anche come vite umane) a qualsiasi altro paese per contenere l'espansionismo sovietico e garantire la sicurezza e la democrazia nel mondo. Per alcuni l'impegno internazionale di questa grande potenza dissimulava un disegno imperialista, ma i fatti lo smentiscono. La politica degli Stati Uniti ha rappresentato una grande novità nel mondo mettendo fine alle lotte per l'egemonia, e favorendo una organizzazione degli stati fondata sul principio della pari dignità delle nazioni, che si è concretata nella creazione dell'ONU, del Fondo Monetario Internazionale e negli accordi sul futuro dell'Europa. Gli Stati Uniti nel nostro secolo si sono impegnati in due conflitti mondiali e successivamente nella guerra fredda, non a torto considerata la 3° guerra mondiale, senza riportare profitto, ma con l'obbiettivo principale di estendere il proprio sistema di valori sul resto del mondo. L'antiamericanismo ha fornito l'immagine di un paese solo formalmente democratico, dominato dalle lobby, aggressivo nei rapporti con gli altri paesi del continente americano, ma questa concezione presenta delle incongruenze. La guerra delle Falkland, l'aggiramento dell'embargo commerciale contro l'URSS da parte dell'Argentina e molti altri episodi confermano che gli Stati Uniti non disponevano di quel potere di coercizione verso i paesi dell'America Latina che gli veniva attribuito. Gli Stati Uniti, come gli altri paesi anglosassoni hanno risentito di un sistema politico pragmatico e scarsamente ideologizzato, ma che ha garantito una democrazia più stabile che in altri paesi europei e anche nei momenti difficili non ha impedito le garanzie costituzionali fondamentali.
 Con il Piano Marshall e la Dottrina Truman, gli Stati Uniti hanno dato un sostegno politico, militare ed economico alla lotta all'imperialismo, e scritto una delle maggiori pagine di storia del nostro secolo. Nonostante che gli Stati Uniti costituiscano una repubblica giovane con minore patrimonio storico rispetto al vecchio continente, hanno dimostrato in questi anni di essere in grado di assumere il ruolo di grande nazione portatrice di grandi valori etico politici.



Mussolini, il leader del socialismo rivoluzionario di Luciano Atticciati (anno 2001)
Un carattere impetuoso ed un certo disprezzo per l’idea di democrazia caratterizzava già la prima parte della vita politica del futuro statista


Gabriele d'Annunzio, Soldato e Poeta (1863-1938) di Carlo Cesare Montani (luglio 2013)
Commemorazione nel 150° Anniversario della nascita; l'articolo si focalizza sull'Impresa di Fiume


L’Aquila Fiumana di Carlo Cesare Montani (febbraio 2016)
Simbolo di una storia complessa e di forte passione italica


Fiume d’Italia: novantennale della Redenzione di Carlo Cesare Montani (aprile 2014)
Quando Fiume fu ricongiunta all’Italia: l’ultimo atto di un Risorgimento mai compiutamente concluso


Storia del Partito Comunista Italiano di Luciano Atticciati (marzo 2013)
Il grande Partito della Sinistra italiana non brillò per autonomia e originalità, si caratterizzò invece per il suo rigido dogmatismo e per il forte senso di disciplina


Il Biennio Rosso di Luciano Atticciati (maggio 2010)
La violenza fu uno degli elementi determinanti delle scelte politiche del nostro paese nel periodo successivo alla Grande Guerra, ad essa presero parte non solo fascisti e socialisti, ma gruppi diversi, ostili per ragioni diverse all’idea di democrazia


Il Biennio Rosso in Italia e il mito sovietico di Luciano Atticciati (luglio 2010)
Dopo la Rivoluzione d'Ottobre, i movimenti politici della Sinistra italiana progettarono la fondazione di uno Stato sul modello sovietico


Il Biennio Rosso e la nascita del fascismo di Luciano Atticciati (agosto 2006)
Secondo Gaetano Salvemini le violenze scatenate dai socialisti massimalisti nel 1919-20 furono la causa del sorgere del fascismo


La violenza politica in Italia attraverso gli scritti di Benito Mussolini di Luciano Atticciati (anno 2002)
Il difficile periodo del primo dopoguerra, fra scontro sociale ed estremismo politico


La Marcia su Roma di Simone Valtorta (ottobre 2012)
Fu atto di coraggio, colossale sbruffonata o mossa d’azzardo? Calcolo o improvvisazione?


La guerra del fascismo contro la mafia di Simone Valtorta (maggio 2014)
Nel 1925, Benito Mussolini decise di estirpare in modo totale e definitivo la mafia dalla Sicilia. E ne affidò il compito ad un uomo non gradito al Regime, ma di sicure capacità: Cesare Mori, il «Prefetto di Ferro»