parte
3° Il decennio della distensione e la ripresa dell'espansionismo
sovietico 1963-1985
L'UNIONE
SOVIETICA VERSO IL DECLINO
La
posizione di Kruscev negli anni successivi alla crisi dei missili
di Cuba si era indebolita nonostante i progressi nelle relazioni
con gli Stati Uniti. La crisi economica aggravata dalla
soppressione dei piccoli appezzamenti in concessione ai privati, le
agitazioni sociali nelle grandi industrie, la nascita del dissenso
intellettuale, la inconcludenza delle riforme economiche
amministrative crearono nella società, come nella burocrazia civile
e militare una notevole insoddisfazione. Le promesse di un
superamento economico degli Stati Uniti, i millantati successi
produttivistici della regione di Rjazan, l'infelice esito della
prova di forza con gli Stati Uniti del '62, dopo le roboanti
affermazioni degli anni precedenti rappresentarono il colpo
definitivo all'immagine del leader ucraino.
Nell'ottobre
del 1964 il Presidium del Comitato Centrale si riunì nel periodo in
cui Kruscev era assente (per vacanze sul Mar Nero) da Mosca; il suo
rientro precipitoso nella capitale non gli consentì di rovesciare
la situazione, Suslov con l'appoggio della totalità dell'assemblea
denunciò una serie di errori del leader del Cremlino, il quale
visto mancare l'appoggio anche dei vertici militari senza reagire
accettò tutte le risoluzioni dell'organismo. Scomparivano così a
distanza di un anno i due leader russo e americano che avevano dato
vita alla diplomazia della distensione degli anni '63-'64. I
maggiori appunti che furono mossi al compagno Nikita non erano
sulla linea politica, (i successori non misero in discussione i
principi della coesistenza pacifica, né tentarono un ritorno ai
metodi staliniani), ma i modi eccessivamente bruschi e le
discutibili impennate che risultavano intollerabili per una
burocrazia desiderosa soprattutto di tranquillità.
Il
Comitato Centrale infine timoroso di un nuovo uomo forte sulla
scena politica decise che la carica di segretario del C.C. e di
presidente del consiglio dei ministri non potessero più essere
cumulate nella stessa persona, e affidarono la prima a Leonid
Breznev e la seconda a Nikolaevic Kossighyn, all'interno di una
direzione collegiale.
I
successori di Kruscev annullarono alcune riforme degli anni
precedenti sulla riorganizzazione del partito e sui limiti alla
rieleggibilità di alcune cariche, ma mantennero invariato l'assetto
politico dello stato e i principi ispiratori della politica
internazionale. La preoccupazione maggiore dei nuovi dirigenti del
Cremlino era di dare al paese stabilità e tranquillità dopo gli
eccessi degli anni precedenti. Probabilmente all'interno della
classe dirigente nessuno credeva più in un grande destino del
socialismo, né aveva fiducia in un grande avvenire del paese.
L'Unione Sovietica di quegli anni appariva sempre più chiusa in se
stessa e timorosa di qualsiasi innovazione.
La
direzione collegiale è stato un principio ricorrente nell'Unione
Sovietica, ma che non ha avuto molto seguito; in occasione della
successione di Lenin, di Stalin, di Kruscev, la collegialità lasciò
sempre il passo ad un nuovo accentramento dei poteri. Le prime
divergen-ze politiche all'interno della nuova direzione politica
avvennero fra l'apparato del partito attraverso il suo massimo
rappresentante, Breznev, e il Primo Ministro Kossyghin, uno degli
ultimi bolscevichi che avevano preso parte alla rivoluzione e ai
fatti immediatamente successivi. Kossyghin era favorevole ad un
decentramento dell'economia, ad una maggiore diffusione del
benessere nel paese attra¬verso una incentivazione delle industrie
di beni di consumo e ad una maggiore autonomia delle aziende di
stato. Tali principi trovavano conferma nelle indicazioni di alcuni
economisti come Liberman, secondo il quale occorreva conferire
maggiore libertà alle imprese e adeguare la produzione (sempre
rigorosamente controllata dallo stato) alle leggi della domanda e
dell'offerta. Tali progetti vennero visti come una minaccia da
parte dell'or¬ganizzazione politica, che temeva che l'economia del
paese potesse sfuggire dal proprio controllo. Nel 1965 il primo
Ministro venne messo in minoranza e da allora, fino a quando uscì
definitivamente di scena anni dopo, si mantenne più defilato. La
vera figura emergente di quegli anni era un personaggio che nel
passato non aveva brillato per iniziative politiche; cresciuto
sotto la protezione di Kruscev, Breznev anche successivamente
rappresentò la figura del funzionario amante del conformismo sotto
il quale la burocrazia e la corruzione, che interessò anche membri
della sua famiglia, (la mafia di Dnepropetronsk), raggiunse alti
livelli.
Il
23° Congresso del partito nell'anno successivo rappresentò un'altra
vittoria per Breznev, e in seguito a tale successo anche l'anziano
e prestigioso Mikoyan si ritirò dalla attività politica, lasciando
il posto a uomini fedeli del nuovo capo del Cremlino. Da quell'anno
in poi non si verificarono più scontri politici nelle alte
gerarchie sovietiche e tutta la vita politica del paese si svolse
monotona in un clima di apatia, non interrotta dall'assunzione
della carica di presidente del Soviet Supremo nel 1977 da parte di
Breznev, cumulata con quella precedente di capo del partito
(divenuta nel frattempo segretario generale anziché primo
segretario).
Non
si ebbe in quegli anni un vero "culto della personalità" come ai
tempi di Stalin, tuttavia si verificò una forma di scadente
adulazione nei confronti del nuovo leader del Cremlino, esaltato
come illustre letterato per la pubblicazione nel 1979 di alcuni
suoi libri a contenuto autobiografico di scarso valore, mentre si
assisteva nel paese alla consueta corsa alle onorificenze di stato,
e Breznev stesso né accumulò più di Zukov, il prestigioso
comandante che sconfisse il Terzo Reich.
A
partire dal 1969 si accrebbe l'influenza dei militari all'interno
del governo e nonostante il processo di distensione internazionale,
si ebbe un consistente aumento del bilancio della difesa, intorno
al 25% all’anno; in tal modo quegli anni veniva raggiunta la parità
nel campo degli armamenti nucleari con l'America e nel giro di non
molto tempo il superamento degli avversari. Intorno al 1970 si ebbe
una temporanea ripresa del neostalinismo, del nazionalismo e della
concezione autoritaria dello stato all'interno della classe
politica e dei mezzi di comunicazione. Tale tendenza non ebbe
comunque molta fortuna e nel 1973 molti dirigenti di questo
movimento vennero allontanati dal potere o ridimensionati
all'interno della nomenclatura.
Nel
1977 venne emanata una nuova costituzione dopo quella staliniana
del 1935; quello che in un altro paese avrebbe costituito una
importante innovazione rappresentò invece nel sistema sovietico un
semplice aggiustamento tecnico all'ordinamento giuridico. La nuova
costituzione prevedeva la restrizione dei diritti del cittadino,
che non potevano essere in contrasto, nemmeno quelli inalienabili
della persona, con gli interessi dello stato. La maggiore novità,
ma era stata già annunciata dal Comitato Centrale del partito nel
1961, era nella definizione dell'URSS come "stato socialista di
tutto il popolo" diverso quindi dalla "dittatura del proletariato"
di leninista memoria. Singolarmente la costituzione precisava anche
la posizione dell'Unione Sovietica nel mondo comunista e quella
degli altri paesi del socialismo reale; si affermava infatti il
diritto di intervento nella politica di un altro stato alleato
qualora il socialismo risultasse minacciato.
Rispetto
agli anni di Kruscev nel periodo di Breznev venne dato maggiore
impulso agli investimenti nell'agricoltura, conferiti miglioramenti
economici ai lavoratori del settore (attraverso anche la
reintroduzione degli appezzamenti agricoli a conduzione familiare),
e provveduto ad un incremento nella produzione di beni di consumo,
che consentì un relativo miglioramento nel tenore di vita della
popolazione. I risultati furono comunque scadenti, negli anni
1971-73 la resa delle coltivazioni cerealicole era di 14,7 quintali
per ettaro, pari a quella della Grecia o della Jugoslavia di 15
anni prima. Nello stesso periodo la produzione per addetto nel
settore agricolo era di 4,5 t. di raccolto l'anno contro i 54,7 di
un analogo lavoratore del Nord America. Rispetto ai paesi
industrializzati l'URSS continuava ad avere un numero di occupati
nel settore agricolo notevolmente elevato, circa il 25% della
popolazione contro il 3% degli USA, e mentre il paese americano
costituiva uno dei principali esportatori del settore cerealicolo,
l'Unione Sovietica era costretta a continue importazioni di
grano.
Le
statistiche ufficiali parlavano di incrementi della produzione
industriale e del PIL notevolmente superiori a quelli dei paesi
occidentali, tali da far ritenere che l'arretratezza di questo
paese nei primi del '900 dovesse essere colmata, ma negli anni
Settanta, e lo stesso si potrebbe dire per gli anni successivi, il
divario sulla produttività, sul tenore di vita rispetto all'Europa
risultava enorme , e ad eccezione del settore militare la Russia
restava un paese scarsamente progredito. Il problema dell'economia
sovietica non era quello della produzione industriale, sulle quali
si basavano le statistiche, ma quello della qualità dei prodotti,
degli stock di merci che per deficienze dell'organizzazione
amministrativa non giungevano sul mercato ovvero rimanevano
invenduti perché non corrispondenti alla domanda del mercato. La
questione fondamentale dell'economia sovietica, e mai risolta, era
di conciliare il servili-smo richiesto dal potere con quella dose
di apertura e di innovazione di cui necessita un'economia ed una
società per potersi sviluppare.
La
autonomia delle imprese rispetto al potere centrale attuato in
Cecoslovacchia in quegli anni aveva portato ad un relativo
ridimensionamento del ruolo dell'apparato politico, fenomeno
ritenuto da Mosca inconciliabile con i principi dello stato
comunista, in seguito a ciò al Congresso del PCUS nel 1971 si
stabilì l'abrogazione della riforma economica, già rimaneggiata in
precedenza, progettata da Liberman. Il maggiore interesse nel
settore economico negli anni successivi fu l'acquisto di derrate
alimentari, di crediti, l'intensificazione dello scambio
commerciale con l'estero, e l'innovazione tecnologica, da
realizzarsi attraverso accordi con i paesi occidentali. Gli scambi
con gli USA passarono da 200 milioni di dollari del 1971 a 1
miliardo nel 1974. Il debito con l'estero dell'URSS al termine
dell'era di Breznev ammontava a 20 miliardi di dollari, la maggior
parte nei confronti di banche europee e americane. I nuovi rapporti
con l'Occidente vennero ritenuti particolarmente vantaggiosi per
l'URSS, tuttavia ebbero termine alcuni anni dopo, nel 1980, con
l'invasione dell'Afghanistan.
Il
tasso di crescita del reddito nazionale secondo fonti ufficiali
risultava intorno al 10% annuo negli anni Cinquanta, del 6-7% negli
anni Sessanta e prima metà degli anni Settanta, e del 2% nella
seconda metà degli anni Settanta. Le difficoltà economiche si
fecero sentire particolarmen¬te verso la fine del lungo periodo di
Breznev; nel 1980 si ebbero scioperi nelle officine di
Togliattigrad e in altre regioni per penuria di derrate alimentari,
e in diverse occasioni lo stato ricorse per far fronte alla
difficile situazione al razionamento della carne e di altri generi
alimentari. Tali problemi non interes¬savano più di tanto il
vertice politico; Breznev in un colloquio con il dirigente
comunista italiano Berlinguer nel 1978 sostenne: "Ciò che occorre
al nostro paese è... molto grano ed un armamento adeguato. Queste
sono le due cose fondamentali... tutto il resto è relativo"
.
La
società sovietica era molto più arretrata di quanto le istituzioni
facessero ritenere in Occidente, la corruzione e l'apatia di cui
aveva parlato anche lo scrittore Maksimov, era ben presente a tutti
i livelli dell'organizzazione sociale; la criminalità, la
prostituzione, o l'alcolismo ritenuti un tempo, un fenomeno
tipicamente occidentale imperversava anche nelle grandi città
sovietiche, nonostante le pesanti sanzioni contro il vagabondaggio,
l'accattonaggio abituale, la promiscuità sessuale, istituiti negli
anni precedenti. Molto sviluppata sebbene illegale, era anche
l'economia sommersa e il cambio al nero della valuta straniera, non
diversamente da quello che in tempi più recenti succedeva nella
Russia di Eltsin. Nonostante i progressi sovietici nel Terzo Mondo
l'Unione Sovietica negli anni Settanta procedeva verso un tragico
declino economico e morale.
La
corruzione del potere non è un fenomeno recente come le vicende
della Russia postcomunista potrebbero far ritenere, ma un fenomeno
ampiamente diffuso e scarsamente contrastato nella società
sovietica degli ultimi decenni. Importanti problemi della vita dei
cittadini erano affidati a burocrati pronti ad elargire favori e
raccomandazioni altrimenti non ottenibili, a chi si prestava alla
illegalità; lo stesso Gromiko, l'uomo del dialogo con l'Occidente e
i familiari di Breznev vennero additati come concussi per la
gestione di numerosi affari di stato.
I
problemi della classe politica erano notevoli al vertice come alla
base. Secondo lo storico russo Mihail Geller "Il programma della
nomenclatura si può riassumere in tre punti: rafforzare il proprio
potere, estendere i propri privilegi, godere in santa pace potere e
privilegi medesimi" . La classe dirigente negli anni Settanta
costituiva una categoria privilegiata che evitava ormai di
nascondere la sua natura, nelle grandi città del paese erano
presenti negozi speciali riservati alla nomenclatura dove i prezzi
dei prodotti variavano con la posizione gerarchica dell'acquirente,
e dove gli stessi potevano accedere a beni inavvicinabili per la
grande parte della popolazione. Nelle sue memorie Richard Nixon
ricorda che il capo del Cremlino non disdegnasse il lusso e fosse
uno dei maggiori collezionisti di automobili di gran lusso;
"...durante le mie visite in Unione Sovietica" sostenne l'ex
presidente americano, "ebbi modo di pensare che l'elite comunista
si avvicinava, per caratteristiche, alla descrizione della classe
dominante fatta da Marx molto più di qualsiasi gruppo o consorteria
di capitalisti" . Nell'Unione Sovietica, paese
dell'uguaglianza per eccellenza, molte categorie rimanevano ai
margini della società, le donne in particolare, non raggiunsero mai
posizioni dirigenziali elevate né in politica né nelle altre
attività della società civile.
Alla
fine degli anni Settanta l'Unione Sovietica attraversava un periodo
di forte stabilità politica ma la direzione dello stato appariva
sempre più consolidata in una forma di geronto¬crazia che poneva
gravi problemi di ricambio politico. Nel 1977 gli uomini della
troika erano tutti molto anziani, Breznev aveva raggiunto i 71
anni, Kossyghin 73, Podgorny 74, l'età media degli altri membri del
Politburo era lo stesso intorno ai settanta anni. l'Unione
Sovietica sembrava sempre più una società chiusa e
immobilizzata.
La
separazione fra potere e società nel corso degli anni Settanta non
poteva essere più totale, e il dissenso, la cosiddetta cultura
clandestina, ebbe un grande sviluppo rispetto agli anni di Kruscev.
Il tentativo di reprimere l'attività cosiddetta antisovietica
risultò talvolta maldestro, si evitò di ricorrere ai metodi
drastici del periodo staliniano, ma si presero una serie di misure,
alcune delle quali, come il rifiuto di ritirare i riconoscimenti
internazionali o l'impedire cure chirurgiche all'estero,
scarsamente sensate.
Nel
1966 gli scrittori Daniel e Siniawsky vennero arrestati e
condannati, rispettiva-mente a 5 e 7 anni di lavori forzati per
"propaganda antisovietica" (art.70 del codice penale) a causa di
diverse pubblicazioni realizzate in parte attraverso editori
europei e altre attraverso la stampa clandestina (fra le quali un
saggio sul realismo socialista e racconti di varia natura di non
interesse politico). La loro condanna non passò sotto silenzio né
in Occidente, né presso gli intellettuali sovietici, che in una
lettera collettiva ai vertici del partito e del Soviet Supremo,
sottolinearono che il processo aveva causato un maggiore danno
all'immagine dello stato che non le opere condannate in
sé.
Nell'anno
successivo venne arrestato per propaganda e agitazione
antisovietica Aleksander Ginzburg insieme ad altri tre letterati
per aver diffuso un opuscolo sul processo Daniel-Sinjavskij; i
quattro vennero condannati (dopo un poco credibile processo) a pene
detentive fra gli 1 ed i 7 anni. L'azione repressiva ebbe vasta
risonanza, e sostenitori dei letterati organizzarono una
manifestazione di protesta in piazza Puskin a Mosca, in seguito a
tale episodio le autorità sovietiche risorsero per combattere il
dissenso prevalentemente all'internamento negli ospedali
psichiatrici piuttosto che affrontare incredibili
processi.
Nel
1970 Sacharov e altri eminenti uomini di cultura fondarono il
Comitato per la difesa dei diritti civili e alcuni anni dopo si
costituì il Gruppo di vigilanza sull'applicazione degli Accordi di
Helsinki, entrambe le associazioni raggiunsero un'ampia diffusione
nella Russia occidentale e nelle altre regioni più progredite del
paese, e nonostante che la loro azione si svolgesse nella più
rigorosa legalità, subirono pesanti repressioni.
Il
dissenso oltre a pubblicare clandestinamente le opere che non
potevano accedere sulla stampa ufficiale, iniziò a denunciare
sistematicamente le violazioni dei diritti umani e le persecuzioni
a cui erano soggetti scrittori, artisti o semplici cittadini, per
aver espresso opinioni difformi a quelle ufficiali. Sostenuti
dall'opinione pubblica occidentale e negli ultimi anni dai partiti
comunisti europei, le autorità sovietiche si trovarono in
difficoltà a perseguitare oltre misura certi personaggi, nel timore
di perdere i crediti e le agevolazioni commerciali con l'Occidente
di cui la nazione aveva bisogno. Nel 1970 e nel 1975 Solgenitsin e
Sacharov vennero conferiti del premio Nobel come riconoscimento
alla attività culturale svolta e al coraggio con cui portarono
avanti le loro idee; l'alta onorificenza fece capire al paese che
non si trattava di fomentatori, come la stampa ufficiale li
riteneva, ma di uomini apprezzati nel resto dell'Europa per le loro
idee, e che contro di essi il regime era ricorso alla menzogna.
Dato il grande rilievo di cui godevano i due eminenti uomini di
cultura, furono oggetto di una limitata repressione. Solgenitsin
venne inviato in esilio dove si riteneva non potesse nuocere e
Sacharov confinato a Gorkj, soggetto al controllo ventiquattro ore
su ventiquattro della polizia segreta.
Tre
furono le principali correnti di pensiero del dissenso: i
socialisti anche marxisti, che pretendevano un maggiore pluralismo
e un maggiore impegno nella lotta alla corruzione, i
liberaldemocratici di cui il massimo esponente fu Sacharov e
chiedevano uno stato realmente democratico sul modello occidentale,
e i cristiani democratici come Solgenitsin che sentivano l'esigenza
di una maggiore spiritualità negata dalle istituzioni. Numerosi
furono i dissidenti "minori" come il letterato Amalrik, che in un
famoso libro parlò della dissolu¬zione dell'Unione Sovietica,
Vladimir Maksimov, che descrisse i mali della società sovietica, il
matematico Pliusch che subì il peggiore trattamento; lo scienziato
venne licenziato nel 1968 dall'Accademia delle Scienze per una
lettera inviata alla Pravda contro la condanna di due dissidenti, e
successivamente internato in un ospedale psichiatrico per
propaganda antisovietica dove fu oggetto di trattamenti forzati a
base di farmaci con gravi conseguenze sul sistema nervoso, e
vittima di mezzi di correzione che costituivano autentiche
torture.
Non
solo gli intellettuali si impegnarono nella contestazione del
regime, sfidando apertamente la repressione, ma anche gruppi di
cittadini insoddisfatti della situazione politica; nel dicembre del
1965 si tenne a Mosca una manifestazione, non grande ma spontanea,
per il rispetto dei diritti costituzionali e le libertà
dell'individuo, e nel 1968 in Piazza Rossa contro la soppressione
del comunismo "dal volto umano" in Cecoslovacchia. Le notizie
riguardanti agitazioni in Unione Sovietica sono ovviamente
frammentarie e molte probabilmente non hanno mai raggiunto
l'Occidente; il noto dissidente Petr Grigorenko in una lettera al
Procuratore Generale dell'URSS denunciò l'aggressione poliziesca
contro una pacifica manifestazione dei Tatari di Circik avvenuta
nell'aprile del 1968.
Anche
se il regime non ricorse ai metodi staliniani, non mancarono alcuni
casi di azione repressiva feroce o di ricorso all'illegalità; nel
1970 un piccolo gruppo di ebrei che aveva tentato di abbandonare il
paese subì 9 severissime condanne detentive e 2 condanne alla pena
capitale. Nel 1979 infine vennero condannati a morte tre presunti
nazionalisti per l'attentato alla metropolitana di Mosca, in un
processo in cui l'esigenza di mostrare il rigore dello stato passò
sopra la fondatezza delle prove. Dissidenti e persone ritenute
scomode dal regime vennero perseguitate anche all'estero; nel 1966
si ebbe un tentativo da parte del KGB di rapire e riportare in
patria la figlia di Stalin Svetlana fuggita in precedenza
dall'Unione Sovietica.
Molto
diffuso risultò poi il dissenso per motivi religiosi, specie fra i
cattolici lituani, (nel 1972 un credente si diede fuoco per
protesta), gli ebrei, capro espiatorio dei nazionalisti russi più
intransigenti, i battisti e altri gruppi religiosi come gli
islamici non allineati, mentre relativamente tollerata fu la chiesa
ortodossa, in larga parte controllata dal regime. Il dissenso
sovietico ha costituito un significativo evento nel mondo comunista
e in Occidente, l'opera di Solgenitsin in particolare, ha
costituito un grande avvenimento culturale del nostro secolo e ha
dato un contribuito alla caduta del comunismo in maniera
notevolmente superiore a quanto generalmente si può
ritenere.
Un'evidente
frattura si è manifestata in seno ai paesi dell'Est fra i paesi
relativamente industrializzati, Polonia, Ungheria e Cecoslovacchia,
che hanno sperimentato, particolarmente quest'ultima, nel periodo
fra le due guerre istituzioni democratiche e i paesi slavi del sud,
nei quali più forti è stata la rassegnazione verso la
dittatura.
La
Bulgaria è stato il paese dove minori sono state le proteste
interne contro il regime; successivamente alla destituzione di
Chervenkov il paese si è affrancato dallo stalinismo, senza
comunque modificare di molto la sua politica e rimanendo l'alleato
più fedele dell'URSS. Il regime ricorse anche qui ai peggiori
sistemi di potere, e nel 1978 il noto dissidente lgaro Markov venne
ucciso all'estero ad opera di agenti al servizio del KGB, con l'uso
di sofisticati mezzi di morte.
La
Romania, il paese più povero dei paesi satelliti dell'URSS, con
oltre un terzo della popolazione impegnata nell'agricoltura, non ha
conosciuto un vasto fenomeno del dissenso, tuttavia il paese è
stato protagonista di una imponente svolta. Nel 1958 il governo di
Gheorghiu Dej richiese e ottenne il ritiro delle forze
d'occupazione sovietiche, la cui permanenza non era giustificata da
questioni internazionali. La nuova linea politica venne confermata
dal successore Ceausescu, che prese posizioni divergenti rispetto
al paese guida e sviluppò relazioni di amicizia con la Jugoslavia.
Il governo di Bucarest si mantenne estraneo alla polemica
cino-sovietica, migliorò i rapporti commerciali con l'Occidente,
stabilì autonome relazioni diplomatiche con la Germania di Bonn, e
rifiutò di partecipare con proprie truppe all'invasione della
Cecoslovacchia. Nel 1964 il Comitato Centrale del PC romeno affermò
con intransigenza il principio di non ingerenza di un paese
socialista nei confronti di un paese alleato. Gli avvenimenti di
quegli anni ebbero però un significato profondamente diverso da
quelli cecoslovacchi; all'interno del paese venne mantenuto un
rigido sistema repressivo, e a causa della disastrata situazione
economica del paese vennero imposte pesanti misure economiche,
abolizione del salario minimo, riduzione del potere d'acquisto dei
redditi reali, razionamento alimentare, che portarono il paese
vicino al collasso.
Delle
diverse vicende dell'Unione Sovietica, e dell'intero blocco
comunista, l'invasione della Cecoslovacchia, condotta da parte di
tutti i paesi del Patto di Varsavia con l’eccezione della Romania,
rappresentò l'avvenimento più grave. Nella Cecoslovacchia del '68
vi era un movimento che non intendeva minacciare l'assetto del
blocco comunista o portare il paese fuori dall'alleanza sovietica,
(diversamente dall'Ungheria del '56), ma realizzare una nuova forma
di socialismo.
Ci
sarebbe da chiedersi perché la "primavera di Praga" sia stata
repressa con brutalità, perché furono Gomulka e Ulbricht i maggiori
sostenitori dell'intervento armato, e perché la Romania, che aveva
compiuto scelte di politica estera e militare che andavano ben
oltre quelle del governo di Praga, non abbia subito la stessa
sorte. Il quesito dovrebbe far ritenere che i dirigenti comunisti
ritenessero la libertà di stampa, la più importante delle riforme
di Dubcek, più temibile dell'uscita di fatto dall'alleanza militare
del governo di Ceausescu; dobbiamo infatti ricordare che nei regimi
contrari al nuovo corso socialista la corruzione e il privilegio
della classe al potere avevano molto da temere da una stampa non
controllata. Secondo il noto dissidente Anatoli Marcenko la causa
dell'invasione era da ricercarsi nel timore della diffusione dei
principi della primavera di Praga a tutto il mondo comunista, "I
nostri dirigenti" sostenne "non sono soltanto preoccupati, sono
spaventati, e questo non perché l'evoluzione della Cecoslovacchia
minacci lo sviluppo del socialismo o la sicurezza delle nazioni del
Patto di Varsavia, ma perché rischia di troncare l'autorità dei
dirigenti di questi paesi e di gettare il discredito sui principi e
sui metodi stessi di governo che regnano oggi nel campo socialista"
.
La
Cecoslovacchia con un reddito nazionale pro capite di oltre 5.000
dollari l'anno, risorse minerarie notevoli e affermate industrie,
costituiva il paese più progredito dell'Europa orientale, e quello
dove maggiormente era sentito il disagio per la dittatura. In
seguito ad una situazione di diffuso malcontento, popolare e
intellettuale, inasprito dalle difficoltà economiche del paese, nel
gennaio del 1968 il segretario del partito, il conservatore ed ex
stalinista Novotny, venne sostituito dal giovane dirigente
slovacco, già alto esponente della resistenza antinazista,
Alexander Dubcek che introdusse nel corso di sei mesi alcune
importanti riforme economiche e politiche.
In
quel periodo che passò alla storia come la "primavera di Praga",
venne abolita la censura e consentita la libertà di stampa,
denunciati i responsabili delle gravi persecuzioni degli anni
precedenti, introdotto il diritto di sciopero e la facoltà del
cittadino di spostarsi anche fuori dal paese senza restrizioni,
liberati infine coloro che avevano subito condanne per reati
politici, innovazioni che consentirono all'opposizione di far
sentire la propria voce. La più importante iniziativa di questa fu
la pubblicazione di un appello, il "Manifesto delle 2000 parole"
sottoscritto da decine di migliaia di cittadini in cui si affermava
che il partito comunista "da partito politico e organizzazione di
idee, era diventato un organo di potere e una forza d'attrazione
per egoisti ambiziosi, pusillanimi, e gente dalla coscienza sporca"
. Nei mesi successivi Dubcek promosse una riforma
dell'organizzazione interna del partito che consentiva un maggiore
dibattito e un rinnovamento del programma favorevole ad un maggiore
pluralismo e alla distensione nel campo
internazionale.
Nel
corso dei mesi di giugno e luglio divenne intensa l'attività
diplomatica all'interno del mondo comunista e le manovre militari
del Patto di Varsavia ai confini della repubblica dissidente.
Dubcek venne convocato dai dirigenti di Mosca ai quali assicurò che
le riforme avevano un carattere puramente interno, che la
Cecoslovacchia manteneva intatti i suoi impegni nel COMECON e nel
Patto di Varsavia, ed escludeva che si arrivasse, come in Ungheria
nel '56, ad una contestazione aperta del comunismo e dei sovietici.
All'interno del mondo comunista Tito e Ceausescu fecero conoscere
il loro punto di vista favorevole alle riforme cecoslovacche che
comunque non poté influenzare gli avvenimenti successivi. Nel
luglio l'intero Politburo dell'URSS si recò a Praga dove venne
intimata una inversione di rotta che non fu accettata da nessuno
dei dirigenti di Praga. Nella notte fra il 20 e il 21 agosto iniziò
l'invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe di Unione
Sovietica, Polonia, Ungheria, Bulgaria avvenuta senza incontrare
resistenza da parte dell'esercito cecoslovacco per espresso ordine
del governo. Cechi e Slovacchi evitarono che la tragedia sfociasse
in un bagno di sangue e si limitarono ad una resistenza passiva non
collaborando con gli invasori. L'occupazione del paese fu un
operazione non difficile, ma reclutare chi fosse disposto a
collaborare alla amministrazione del paese secondo le direttive di
Mosca non fu altrettanto facile. Dubcek e altri dirigenti del
partito già dalle prime ore vennero arrestati e condotti a Mosca ma
il capo dello stato Ludvik Svoboda, e il Comitato Centrale del
partito si rifiutarono di collaborare con gli invasori e di
annullare le riforme dei mesi precedenti. Per i sovietici esisteva
la minaccia che la Cecoslovacchia scivolasse verso il disordine e
il capitalismo; secondo il ministro degli esteri Gromiko "Le forze
legate al vecchio sistema" ritenevano di "attuare un colpo di stato
avvalendosi a questo fine di persone infiltrate nell'apparato dello
stato. Ovviamente i nemici della nuova Cecoslovacchia avevano anche
ricevuto aiuti dall'esterno, così come era successo in Ungheria nel
1956" .
I
sovietici furono quindi costretti a negoziare con Dubcek (che venne
rilasciato il 27 agosto) e si giunse ad un parziale annullamento
delle riforme, ma per diversi mesi la situazione rimase
estremamente confusa. Successivamente il dirigente comunista
cecoslovacco Gustav Husak, che in precedenza aveva contribuito alle
riforme, si dimostrò disponi-bile alle richieste sovietiche e alla
normalizzazione imposto dai sovietici; progressivamente i dirigenti
riformisti vennero esautorati, e la Cecoslovacchia rientrò
nell'alveo politico tracciato da Mosca. Epilogo dei drammatici
eventi fu il suicidio in piazza Venceslao, nel cuore di Praga, di
un giovane universitario, Jan Palach, come protesta per la
repressione sovietica, i funerali diventarono l'occasione per una
protesta di massa con la partecipazione di mezzo milione di
cittadini; nella primavera dell'anno successivo si ebbero nuove
imponenti manifestazioni, scioperi e occupazioni di università; ad
esse il nuovo regime rispose con l'espulsione di oltre 300.000
iscritti dal PC cecoslovacco perché ritenuti sostenitori di Dubcek,
e negli anni successivi venne dato seguito a numerosi processi
contro i principali esponenti della primavera di Praga.
Nel
'58 quando la situazione era ormai tornata alla normalità in
Ungheria si ebbe la fucilazione di Imre Nagy, il generale Malater e
altri esponenti minori degli avvenimenti del '56; le esecuzioni
considerate inopportune, portarono ad un peggioramento dei rapporti
con la Jugoslavia; comunque nel 1962 venne definitivamente
allontanato dal potere il vecchio stalinista Rakosi, e una relativa
tolleranza politica si diffuse progressivamente nel paese,
soprattutto dal 1968, che consentì una discreta prosperità
economica.
Negli
anni Sessanta in Polonia si ebbero alcune importanti riforme
economiche e politiche; la collettivizzazione dell'agricoltura
venne abbandonata, vennero intensificati i rapporti con l'estero e
ricercata una intesa con la chiesa cattolica che nel paese godeva
di un grande ascendente. Nel 1968 parallelamente al movimento
riformistico nella vicina Cecoslovacchia, si ebbero numerose
manifestazioni studentesche dirette contro il regime che vennero
represse duramente, e costarono la vita a diversi manifestanti. Nel
1970 in seguito alla crisi econo¬mica, alla scarsità e all'aumento
dei prezzi dei generi alimentari, si verificarono scioperi e
manifestazioni operaie a Danzica e nelle altre grandi città
industriali; le agitazioni vennero soffocate nel sangue (il numero
delle vittime è sconosciuto), ma la protesta provocò comunque la
caduta di Gomulka. L'anziano esponente venne sostituito alla guida
del partito da Gierek che attuò alcune misure di liberalizzazione e
dei provvedimenti favorevoli agli operai, (blocco dei prezzi dei
principali beni di consumo, riduzione dell'orario di lavoro), che
non contribuirono comunque alla ripresa produttiva e al
miglioramento dell'economia. Da quell'anno in poi la Polonia venne
investita da ricorrenti agitazioni sociali, alle quali il governo
rispose con diversi provvedimenti sul contenimento dei prezzi,
l'intensificazione degli scambi con l'Occidente, e una maggiore
autonomia alle imprese, iniziative che tuttavia si rivelarono
inefficaci e non portarono ad un risanamento
dell'economia.
L'OCCIDENTE IN CRISI
Crisi
di valori e crisi economica furono la caratteristica principale
dell'Europa e dell'America nel periodo che va della fine degli anni
Sessanta all'inizio degli '80. La fine di un ventennio di crescita
economica come mai la storia aveva conosciuto, aggravato
dall'improvviso balzo del prezzo del petrolio e delle materie prime
di cui le economie occidentali necessitavano, fu all'origine della
stagnazione economica, dell'aumento della disoccupazio¬ne e
dell'inflazione, ma anche di una perdita di fiducia in numerosi
ideali in Europa come in Nord America, che diede origine alla
contestazione giovanile.
Il
1968 fu l'anno della agitazione studentesca in tutto il mondo
occidentale, protesta che tuttavia ha avuto nei due continenti
ispirazioni politiche e obbiettivi diversi; mentre in Europa sono
prevalsi movimenti politici che richiedevano una revisione radicale
dell'assetto sociale, in America, ma anche in Inghilterra, la
protesta ha avuto obbiettivi e finalità più concrete che toccavano
i diritti fondamentali dell'uomo, più che gli aspetti economici
dello stato.
In
diversi paesi europei si è avuta la nascita di movimenti marxisti
che iniziarono a contestare non solo le forze tradizionali del
potere, ma anche le organizzazioni ufficiali del movimento
comunista e operaio, per la loro disciplina partitica, il loro
centralismo decisionale, la loro politica troppo legata al mondo
comunista dell'Est, mondo che non rappresentava più un mito per gli
ambienti giovanili. Molti di questi movimenti ripudiavano il
modello democratico occidentale ma contestavano o ignoravano, nel
migliore dei casi il modello sovietico; l'intervento militare
sovietico a Praga avvenuto nello stesso anno era un avveni-mento
troppo grave e troppo sentito perché potesse passare sotto
silenzio. I gruppi extraparlamentari di sinistra nati in quel
periodo, si richiamavano quindi alla Cina della Rivoluzione
Culturale con il suo presunto spontaneismo di massa, ai movimenti
marxisti guerriglieri dell'America Latina, simpatizzavano in altri
casi per il Terzo Mondo e per i movimenti neutralistici dei paesi
non allineati. Riprendendo un asserto maoista si riteneva che il
concetto di lotta di classe tradizionale, che in quegli anni
entrava in crisi per i progressi economici del proletariato,
dovesse essere trasferito nell'antagonismo fra nazioni povere e
nazioni ricche.
La
diffusione del benessere, la redistribuzione del reddito, e i
fenomeni sociali dell'inurbamento e dell'industrializzazione,
furono alla base di quella che venne chiamata la società dei
consumi, che insieme ad alcune innovazioni nella vita quotidiana
portò con sé una serie di miti e di status symbol ritenuti meno
felici. Da qui la nacque la critica nei confronti di una società
opulenta, consumistica dedita prevalentemente al profitto, (anche
se la vita relativamente sobria degli uomini di finanza europei e
nordamericani rispetto a certi magnati arabi o latino americani
farebbe pensare diversamente), ma la critica trovava largo consenso
anche fra diversi intellettuali come Marcuse, che aveva messo in
luce i limiti della società industrializzata sulla creatività
umana, e Sartre, il filosofo della libertà e della coscienza umana.
Erich Fromm un altro stimato autore di quegli anni, sosteneva:
"Nello sviluppo, sia del capitalismo sia del comunismo come
possiamo prevederlo nei prossimi 50 o 100 anni il processo di
automizzazione e di alienazione continuerà. Entrambi i sistemi
stanno sviluppandosi in società manageriali i cui abitanti, ben
nutriti, ben vestiti vedono soddisfatti i loro desideri e non hanno
desideri che non possano essere soddisfatti, automi che seguono
senza essere forzati, che sono guidati senza capi, che fabbricano
macchine che si comportano come uomini, e producono uomini che si
comportano come macchine; uomini la cui ragione decade mentre
aumenta l'intelligenza creando così la situazione di dotare l'uomo
dei più grandi poteri materiali senza la sapienza per usarli...
L'uomo di oggi è posto di fronte alla scelta più decisiva: non
quella fra capitalismo e comunismo, ma quella tra robotismo (sia
del tipo capitalistico sia di quello comunista) o socialismo
umanistico comunitario".
Altri
temi dibattuti in quegli anni erano la questione ecologica, il
degrado delle metropoli, l'alienazione del lavoro moderno, il
problema dei paesi in via di sviluppo e dei rapporti con i paesi
cosiddetti avanzati. Non mancarono movimenti di contestazione a
sfondo religioso che si richiamavano a numerosi gruppi
confessionali ispirati a ideali di uguaglianza, pacifismo,
fratellanza; comunità piccole e grandi che si ponevano al di fuori
della società e delle sue regole, interessati a creare una nuova
forma di convivenza sociale.
Una
componente dei movimenti giovanili nati dalla contestazione fu il
fideismo, e tale tendenza portò in un periodo successivo ad atti di
violenza, all'idea che si potesse e si dovesse fare giustizia da
soli degli avversari politici. Questo fenomeno, che interessò
comunque solo una parte del movimento, costituì la causa
dell'esaurirsi della protesta, del riflusso, e del successivo
ritorno nel "privato" degli anni '80.
I
gruppi di contestazione hanno notevolmente influenzato la politica
estera dei paesi europei e del Nord America. Il pacifismo e il
problema dei rapporti nord-sud ebbero grande importanza, ma il tema
maggiormente dibattuto fu quello del Vietnam che suscitò notevoli
manifestazioni al di qua e al di là dell'Oceano. Contro
l'intervento americano in Indocina si ebbero grandi dimostrazioni
in Francia, Gran Bretagna, Italia, Germania e particolarmente
numerose negli Stati Uniti. Alcuni contestavano l'intervento in
nome del pacifismo e contro la guerra in sé, altri in Europa
specialmente, perché ritenevano che quello americano costituisse un
atto di imperialismo e una minaccia per il mondo.
Negli anni Cinquanta e '60 gli stati europei, grazie anche alla creazione del Mercato Comune, avevano presentato un tasso di sviluppo economico elevato, superiore a quello degli Stati Uniti. Nel 1955 l'economia USA rappresentava il 33% della ricchezza mondiale mentre l'Europa e il Giappone il 28%, nel 1970 la prima rappresentava il 26% ed i secondi il 36% La crescita economica dei paesi europei non aveva precedenti nella storia, il tasso di crescita del PIL annuo fra il 1953 e il 1973 per i 14 paesi europei era stato del 4,8% contro una media del 2% degli anni precedenti la guerra. Sebbene alla fine degli anni Sessanta la crescita economica fosse stata leggermente inferiore a quella del decennio precedente, l'economia europea godeva di un ottima salute, mentre gli Stati Uniti avevano avuto alcuni problemi. Il paese nordamericano presentava un deficit commerciale notevole, e nell'estate del 1971 il governo decise a causa di tale situazione, di sospendere la convertibilità del dollaro in oro, di svalutare la propria moneta, e di porre alcuni misure per frenare le importazioni, provocando la fine degli accordi di Bretton Woods e la fine del regime di cambi fissi fra le valute, già messo in crisi da precedenti misure adottate dalle autorità di Bonn relative al marco. Con tali misure gli Stati Uniti rinunciavano al ruolo di centro dell'economia mondiale, fortemente contestato negli anni precedenti dal governo De Gaulle, ma ottenevano una significativa riduzione del disavanzo commerciale con l'estero. La situazione conosceva una improvvisa svolta in tutto il mondo occidentale nel '73 a seguito della guerra arabo-israeliana che provocava una ritorsione di estrema gravità contro i paesi europei, gli Stati Unti e il Giappone.
Nel
1973 si verificò il più importante tentativo da parte di paesi
extraeuropei di costringere i paesi industrializzati ad un radicale
mutamento negli scambi commerciali. In quell'autunno i paesi
dell'OPEC, la cui maggioranza era formata da paesi arabi
mediorientali, stabilivano il loro diktat sui paesi
industrializzati e sui paesi poveri di risorse petrolifere portando
il prezzo del petrolio da 3 a oltre 11 dollari il barile, e
adottando altre misure di ritorsione contro i paesi che ritenevano
filo israeliani. I paesi produttori di petrolio decretarono
l'embargo nei confronti di Stati Uniti, Olanda, Portogallo,
Sudafrica, Rhodesia, e la riduzione progressiva delle vendite
contro gli altri paesi europei, Francia esclusa; in realtà i paesi
europei avevano tenuto una posizione sostanzialmente moderata nel
conflitto arabo-israeliano, e avevano contribuito a ridurre
l'umiliante disfatta militare dell'Egitto.
Il
petrolio ha costituito il tallone d'Achille dei paesi
industrializzati, e a differenza di altri prodotti come il carbone,
la sua distribuzione si presenta concentrata in poche zone
geografiche (quella mediorientale rappresenta circa un terzo della
produzione mondiale di greggio) e i paesi riuniti nel cartello
dell'OPEC si sono serviti di tale situazione con grande abilità per
strappare prezzi sempre più elevati; il prezzo del greggio è così
passato dai 16,67 dollari al barile nel '74, agli oltre 40 nel
1980, per poi stabilizzarsi a 34-38 dollari nel periodo
successivo.
Alla
conferenza di Algeri del movimento dei paesi non allineati
dell'aprile 1974, su istanza del presidente algerino Boumedienne,
venne stabilito un altro principio in contrasto con lo spirito di
collaborazione internazionale, il diritto alla nazionalizzazione
delle società straniere, anche senza accordo con i paesi
industrializzati, e il diritto di stabilire autonomamente
l'ammontare dell'indennizzo. Politica che non ha portato
significativi vantaggi per quei paesi, ma ha provocato invece una
riduzione degli investimenti stranieri nei paesi
afroasiatici.
La
crisi economica provocata dal rialzo dei prezzi delle materie prime
si fece sentire soprattutto in Europa e in Giappone (ma anche nei
paesi poveri del Terzo Mondo) nei quali il tasso di crescita del
PIL subì una sensibile battuta d'arresto. Nei paesi della CEE il
petrolio che rappresentava nel 1950 il 10% delle fonti di energia,
nel 1973 arrivava a costituire il 64% del fabbisogno interno. Di
fronte alla iniziativa dei paesi produttori di petrolio la reazione
europea fu debole e inefficace. Gli Stati Uniti proposero, su
iniziativa del Segretario di Stato Henry Kissinger, di costituire
un fronte unico dei paesi consumatori di petrolio da contrapporre
all'OPEC, ma l'iniziativa non trovò l'appoggio di Francia e
Giappone. Nonostante alcune misure di risparmio energetico e di
diversificazione delle fonti energetiche (che introdussero un nuovo
elemento nel dibattito politico culturale di quegli anni) la crisi
fece sentire i suoi effetti attraverso l'inflazione, l'aumento
della disoccupazione e il calo produttivo delle industrie del
settore automobilistico e chimico, crisi dalla quale l'Europa ne
uscì con difficoltà anche dopo la cessazione delle
cause.
Il
rialzo dei prezzi delle materie prime non favorì l'economia dei
paesi produttori. I paesi dell'OPEC non furono in grado di
utilizzare la grande massa di ricchezza accumulata (i cosiddetti
petrodollari) né per favorire lo sviluppo interno né per acquistare
un ruolo superiore nel sistema economico mondiale. Gli acquisti di
partecipazioni azionarie nelle grandi compagnie industriali e
finanziarie mondiali non furono organizzate con oculatezza e le
redini del capitalismo internazionale rimasero nelle mani di
europei e americani. Un'altra parte rilevante dei petrodollari
vennero destinati per l'acquisto di armi e di beni destinati
all'esclu-sivo beneficio di poche categorie privilegiate, gli
sceicchi e i dittatori mediorientali, mentre le popolazioni e
l'economia di quei paesi non risentirono del grande afflusso di
capitali. Si è così avuto il paradosso di paesi del Terzo Mondo con
arretrate strutture economiche ed elevato tasso analfabetismo, che
presentano un PIL non diverso da quello dei paesi afroasiatici
“ricchi”.
Nel
corso degli anni Settanta un nuovo elemento veniva a contribuire
alla crisi economica esistente, l'aumento del costo del lavoro; in
seguito alle agitazioni sociali di quegli anni e la legislazione
sociale eccessivamente rigida rispetto alle fluttuazioni del
mercato, si aveva un incremento della disoccupazione e della
crescita incontrollata della spesa pubblica. Questi fattori
mettevano in crisi la stabilità monetaria internazionale e davano
vita ad un periodo estremamente agitato con significativi risvolti
sul piano politico.
La
crisi economica e la crisi di valori innescata dal movimento
sessantottesco, contribuivano non poco allo sviluppo delle vicende
successive, ad una politica più attenta alle esigenze sociali, al
maggiore ruolo dello stato nell'economia, e nel campo della
politica estera, a iniziative di distensione
internazionale.
Una
grande prova attendeva la Francia gollista nel 1968, con una serie
di grandi agitazioni studentesche e operaie, che passarono alla
storia come il "maggio francese"; tali avvenimenti misero in
difficoltà il governo De Gaulle, ma successivamente le forze
golliste ne uscirono fuori con successo senza eccessive difficoltà.
Gli scontri fra studenti universitari parigini e forze dell'ordine
nella primavera di quell'anno si intensificarono progressivamente
finché nel mese di maggio il Quartiere Latino nella capitale
francese si trasformava in un campo di battaglia; in un primo
momento i partiti della sinistra mantennero un atteggiamento di
indifferenza se non di latente ostilità di fronte alle richieste di
un movimento poco controllabile, ma successivamente quando il
fenomeno raggiunse grandi proporzioni dovettero modificare il loro
atteggiamento. Il 12 maggio si tenne nel centro di Parigi una
colossale manifestazione con la partecipazione di oltre 600.000 fra
studenti e cittadini che protestavano contro la riforma
dell'università presentata dal governo gollista e per una maggiore
libertà in generale nelle istituzioni del paese. Nei giorni
succes¬sivi la protesta si allargò al mondo del lavoro con
scioperi, manifestazioni e occupazioni di fabbriche alle quali
parteciparono circa 10 milioni di lavoratori. La Francia si avviava
verso una situazione preinsurrezionale, quando il 30 maggio, dopo
consultazioni con i militari per motivi di ordine pubblico, De
Gaulle annunciava le elezioni anticipate e veniva organizzata ai
Champs Elises una grande contromanifestazione di sostenitori del
governo gollista per il ritorno all'ordine. Le elezioni
rappresentarono una vittoria senza precedenti dei gollisti e della
cosiddetta "maggioranza silenziosa", l'Unione gollista con il 47%
dei voti ottenne la maggioranza assoluta mentre i partiti di
sinistra che avevano sostenuto le agitazioni conseguirono un
sensibile ridimensionamento. Un anno dopo tuttavia i gollisti
persero un referendum sulla riforma del Senato e l'ordinamento
regionale, De Gaulle diede le dimissioni (anche se non dovute) e si
tennero nuove elezioni presidenziali, che videro l'affermazione di
Pompidou, già primo ministro sotto l'anziano generale.
Il
successore di De Gaulle fu soprattutto un moderato che tentò di
ricucire i numerosi strappi prodotti negli anni passati. Venne
consentito alla Gran Bretagna l'ingresso nella CEE, e approvata la
svalutazione del franco che già da tempo risultava in difficoltà,
provvedimento che permise una ripresa delle esportazioni, e il
rilancio di tutto il settore industriale. Il nuovo governo promosse
infine un maggiore decentramento amministrativo, alcune riforme a
favore delle categorie economiche più deboli e per una maggiore
partecipazione dei lavoratori alla vita aziendale.
Nel
campo della politica estera, la politica di grandeur della Francia
non aveva dato grandi risultati né aveva favorito l'economia.
Pompidou si impegnò per una diversa politica, fu il primo capo di
stato dell'Europa a incontrare in visita ufficiale i capi di
Pechino, con i quali venne concluso un trattato di collaborazione,
ad aprire alla Libia di Gheddafi (con la quale venne sottoscritto
un accordo per la vendita di armi), e ad adoperarsi per
l'intensificazione degli scambi con l'Unione Sovietica. Scomparso
improvvisamente il capo dello stato nel '74, gli succedette il
centrista liberale Giscard, che intraprese alcune significative
riforme in materia di divorzio, aborto, sistema scolastico,
ecologia. Sul piano internazionale, gli obbiettivi fondamentali di
quegli anni furono il riavvici¬namento alla politica atlantista, la
collaborazione con la Germania, un maggiore europeismo; le
difficoltà nei rapporti con i gollisti, ed alcuni scandali di
governo nell'81, provocarono un cambiamento politico e
consentirono per la prima volta nella storia del dopoguerra la
vittoria delle sinistre.
Nonostante la riduzione degli impegni internazionali la situazione economica della Gran Bretagna rimaneva difficile, e ciò spinse il governo laburista di Wilson a una nuova svalutazione della sterlina, e al rinnovo della richiesta di ingresso nella CEE. La questione dell'adesione alla CEE era molto sentita in patria e all'estero; per i paesi dell'EFTA e del Commonwealth rappresentava la perdita del maggiore partner, ma per l'economia inglese risultava impossibile sostenere l'esclusione dalla rete di scambi commerciali del continente, anche se ciò significò un minore ruolo internazionale.
Il governo Wilson promosse alcune importanti riforme in materia di diritti civili fra le quali l'abolizione della pena di morte, e la legge contro le discriminazioni razziali; in campo di politica estera venne decisa la soppressione delle basi militari a oriente di Suez ma vennero mantenuti inalterati gli impegni all'interno dell'alleanza atlantica. Dopo un breve ritorno al potere dei conservatori con Edward Heath nel 1970, contrassegnato da un duro braccio di ferro con i minatori in sciopero, si ebbe nel 1974 un nuovo governo laburista presieduto da Wilson. Il periodo successivo fu contrassegnato da ulteriori difficoltà economiche (l'inflazione raggiunse il 27% nel '75), nonché da problemi razziali per l'aumento degli immigrati di colore, dal riaccendersi della questione irlandese e del terrorismo che da alcuni anni aveva ripreso a sconvolgere il paese.
Il
progressivo distacco dei socialisti dal partito comunista consentì
nel 1962 la costituzione del primo dei governi di centrosinistra in
Italia. Vennero attuate nel corso degli anni successivi diverse
riforme, nazionalizzazione dell'energia elettrica, legge sul
divorzio (che costituì il primo grande insuccesso della Democrazia
Cristiana), realizzazione del decentramento amministrativo con la
istituzione delle regioni, e infine intensificata la presenza dello
stato nell'economia attraverso le partecipazioni statali e un
maggiore controllo sull'attività economica, che comunque non
impedirono un rallentamento nella crescita del reddito
nazionale.
Mentre
l'ondata di agitazioni del '68 nel resto del continente europeo si
avviava a spegnersi, nel nostro paese gli scioperi e le
manifestazioni continuarono per buona parte degli anni Settanta,
portando all'Italia alcune innovazioni legislative a favore dei
lavoratori, ma anche al primato in Europa per ore lavorative
perdute e aumento del costo del lavoro, che furono all'origine
della ripresa dell'inflazione e della stagnazione
economica.
La
forte e costante avanzata elettorale del partito comunista, e il
prevalere delle correnti più democratiche all'interno di esso,
favorì negli anni compresi fra il 1976 e il 1980 la partecipazione
al potere dei comunisti; l'ingresso di questi in alcuni importanti
posti di potere produsse una certa diffidenza da parte della
borghesia moderata, ma anche una disaffezione dell'elettorato
tradizionale operaio nei confronti del rinnovato PCI. L'Italia
degli anni Settanta era sempre più un paese dei ceti medi, e questo
venne compreso dalla nuova generazione comunista che cercò di
rinnovare il programma di governo e rassicurare l'elettorato
conservatore, come anche gli alleati occidentali; l'esperienza di
governo si chiuse comunque dopo pochi anni, una gestione poco
innovativa negli organi locali, e l'allontanamento del partito
socialista su posizioni più moderate, riportò ad un relativo
isolamento del PCI.
La
grande novità a metà degli anni '70 fu il rinnovamento del
programma politico dei partiti comunisti dell'Europa occidentale,
particolarmente di quelli italiano, francese e spagnolo, i quali
allentarono i loro rapporti con il mondo sovietico e diedero vita
al cosiddetto eurocomunismo. Molti comunisti erano sinceramente
convinti della validità di un comunismo pluralista e non contrario
ai principi dell'economia di mercato, e in molti casi non mancarono
esplicite disapprovazioni del comunismo sovietico come nel caso
dell'invasione dell'Afghanistan (anche se non venne condannata dal
PCF), tuttavia rimaneva una certa ambiguità. Il nuovo comunismo,
non più rigidamente leninista, si accontentava di alcune riforme
del modello comunista senza respingere in forma piena il regime
totalitario affermatosi in URSS, come invece fecero in quegli anni
un gruppo di intellettuali francesi che negli anni precedenti
avevano militato nella sinistra, i noveaux philosopes.
Il
periodo compreso fra la fine degli anni Sessanta e la metà degli
anni Settanta, costituì un periodo particolarmente importante per
la Germania, con grandi ripercussioni per gli altri paesi europei e
la politica mondiale. Concluso nel '66 il breve cancellierato di
Erhard, per la prima volta i socialdemocratici parteciparono al
potere, in accordo coi democratico cristiani, dando vita alla
cosiddetta Grande Coalizione.
La
Germania Federale dalle sue origini si considerava come l'unica
rappresentante legittima del popolo tedesco, in base a tale
principio, sostenuto anche dagli altri paesi occidentali, il
governo di Bonn aveva stabilito (la cosiddetta dottrina Hallstein)
che non vi fossero relazioni diplomatiche con quelle nazioni che
avessero riconosciuto il governo di Pankow. Il nuovo governo
presieduto da Kiesinger e con il socialdemocratico Brandt al
ministero degli esteri, diede vita ad una diversa politica avviando
intese diplomatiche e commerciali con alcuni paesi dell'Est (la
Romania in particolare) con i quali in precedenza non aveva alcun
genere di rapporto. Un minore impegno atlantista d'altra parte era
stato accettato anche dai democratico cristiani, che nel '63
avevano sottoscritto il trattato di cooperazione con il governo
francese De Gaulle.
Il
partito socialdemocratico tedesco, profondamente rinnovato dopo
l'approvazione del programma di Bad Godesberg (1959), che prevedeva
una rinuncia a larga parte dell'impostazione marxista, riportò una
vittoria, sia pure di misura, alle elezioni del 1969, risultato che
consentì la costituzione di un governo composto da
socialdemocratici e liberali presieduto da Willy Brandt. La
politica di apertura verso i paesi dell'Est, la cosiddetta
Östpolitik, rappre¬sentò la principale caratteristica di questo
governo. Attraverso incontri con il governo russo, quello polacco,
e colloqui diretti con i capi della DDR, si giunse ad un nuovo
status della Germania e di quello di Berlino che consentì
significativi progressi sulla via della distensione internazionale.
Vi furono quindi numerose obiezioni nel paese, i cristiano
democratici e alcuni liberali non condivisero la scelta di Brandt,
ma la mozione di sfiducia presentata in parlamento nell'aprile del
'72 contro il cancelliere per pochi voti non ottenne la
maggioranza. Alle elezioni del novembre dello stesso anno i
socialdemocratici migliorarono inoltre il precedente risultato
elettorale passando dal 43% al 46% dei voti.
Sul
piano della politica interna il governo Brandt si mosse con molta
prudenza, si fece sostenitore della cogestione nelle fabbriche e di
numerose riforme che vennero attuate tuttavia con molta
moderazione. La politica del governo socialdemocratico tedesco
ottenne numeroso riconoscimenti internazionali, e lo stesso Brandt
nel 1971 venne insignito del premio Nobel per la pace, tuttavia tre
anni dopo fu costretto alle dimissioni per gli atti di spionaggio
di un suo stretto collaboratore. Helmut Schmidt Il nuovo
cancelliere, esponente dell'ala moderata dell'SPD, dovette
affrontare il problema del terrorismo, la nascita a sinistra del
gruppo dei Verdi, e una situazione internazionale divenuta
difficile. Negli anni successivi alla caduta del governo Brandt il
dialogo e la cooperazione economica fra le due Germanie non venne
meno. Questa politica risultò proficua per la DDR (che necessitava
di tecnologie occidentali) ma non determinò alcun cambiamento nella
politica interna del paese tedesco orientale. All'interno della DDR
continuava la politica di repressione nei confronti degli
oppositori; nel '67 lo scienziato tedesco orientale Robert Havemann
venne espulso dall'Accademia di Scienze e privato dell'insegnamento
per le critiche espresse al regime; nel '76 venne allontanato
dall'associazione degli scrittori Reiner Kunze a causa della
pubblicazione di un romanzo ritenuto poco in sintonia con il regime
e privato della cittadinanza il poeta Wolf Biermann per le sue
posizioni; in seguito a tali episodi numerosi artisti e scrittori
che non intendevano conformarsi alle direttive del regime
abbandonarono il paese.
Nel
1982 la coalizione socialdemocratico-liberale entrava in crisi,
Schmidt fu costretto alle dimissioni e sostituito dal leader
democratico cristiano moderato Kohl, le elezioni successive
confermarono tale tendenza politica.
Il Belgio e l'Olanda presentavano una vita politica non particolarmente intensa rispetto ad altri paesi europei. Nei due paesi si sono alternati al potere partiti conservatori e socialdemocratici, che hanno espresso comunque sempre tendenze moderate. In Belgio anche dopo la conclusione della questione istituzionale non mancava un certo contrasto fra la comunità vallone (francofona) e quella fiamminga relativamente più progredita. In anni recenti è stato accentuato il carattere federale dello stato, tuttavia questo non ha consentito il superamento di tutti i problemi.
Gli
Stati Uniti negli anni Sessanta incontrarono una serie di problemi
economici e sociali che favorirono una seria crisi dei valori su
cui lo stato si fondava. Lyndon Johnson subentrato a Kennedy,
dovette affrontare il grave problema sociale del paese con una
serie di provvedimenti economici a favore delle categorie più
deboli e delle popolazioni di colore (revisione della legge sui
diritti civili, assistenza medica pubblica, contributi federali
agli stati più arretrati) che non impedirono tuttavia il
verificarsi fra il '64 e il '70 violenti disordini razziali in
numerose città. La protesta dei neri assunse caratteri
profondamente diversi, da una parte l'azione condotta dal reverendo
Martin Luther King, alla quale parteciparono anche cittadini
bianchi, non violenta e legalitaria, dall'altra l'azione di varie
associazioni come il Black Power, il movimento dei Mussulmani Neri
e quello delle Pantere Nere favorevoli alla violenza, contrarie
all'integrazione coi bianchi, quando non anche professanti una
forma di latente razzismo; alcune di queste organizzazioni
cercarono infine di creare un collegamento con i principali
movimenti rivoluzionari del Terzo Mondo.
Nel
'67 si ebbero le prime grandi manifestazioni contro la guerra del
Vietnam e una serie di agitazioni all'interno delle università, che
sfociarono in gravi scontri con le forze dell'ordine; tale protesta
culminò nella grande manifestazione a Washington nel novembre del
'69 per la pace con la partecipazione di oltre 200.000 cittadini,
che costrinse il governo ad una revisione della sua politica in
Asia. La contestazione del '68 e degli anni successivi venne
considerata grave, in quanto non si limitava a contestare le
direttive di politica estera del governo, ma metteva in dubbio i
valori fondamentali della società americana, e produsse profondo
sconcerto nel paese.
Nel
1968 si verificarono due assassinii che produssero sgomento
nell'opinione pubblica americana e mondiale, l'uccisione di Martin
Luther King da parte di un pregiudicato, al quale seguirono
violenze e saccheggi nel paese che si conclusero con 46 morti; e
l'uccisione di Robert Kennedy durante la campagna elettorale da
parte di un estremista arabo antiisraeliano.
Nel
corso degli anni Sessanta l'economia americana aveva perduto
terreno nei confronti dell'Europa e del Giappone, e si vide
costretta durante gli anni della presidenza Nixon alla svalutazione
del dollaro, la prima dopo gli anni della Grande Crisi del '29,
alla riduzione degli impegni internazionali e al contenimento della
spesa pubblica; contemporaneamente venne deciso il blocco di prezzi
e salari e una limitazione alle importazioni dall'estero, in
contrasto con la politica liberista precedente. La manovra
economica diede effetti positivi, la bilancia commerciale e quella
dei pagamenti con l'estero tornarono in attivo e l'economia
americana poté superare il difficile momento. La politica
internazionale di quegli anni fu particolarmente moderata; la nuova
amministrazione repubblicana si oppose all'intervento dell'esercito
americano in operazioni all'estero, e cercò di conseguire risultati
positivi ricercando soprat¬tutto nuove alleanze. Sotto la direzione
del grande diplomatico Henry Kissinger, il governo di Washington
arrivò alla conciliazione con la Cina comunista e ad una nuova
politica verso i cosiddetti paesi arabi moderati che favorì la
pacificazione in Medio Oriente. Nel '72 Richard Nixon venne
trionfalmente rieletto con il 61% dei voti, ma la crisi morale del
paese era lontana dall'essere risolta e le vicende di cui fu al
centro la Casa Bianca e il partito repubblicano nel 1973, lo
scandalo Watergate, provocarono un'ulteriore perdita di fiducia
nelle istituzioni e nei principi fondamentali della nazione. Gli
atti di cui furono accusati i collaboratori del presidente, le
intercettazioni telefoniche a danno del Partito Democratico, non
costituivano un fatto molto grave in sé, ma scosse comunque la
attendibilità delle autorità del paese. Nel 1974 Nixon sotto la
minaccia di una procedura di impeachment fu costretto alle
dimissioni, sostituito dal vice presidente Gerard Ford, che non
venne comunque confermato nelle elezioni del '76.
La
elezione di Jimmy Carter, uomo semplice e di autentici valori
democratici, se non contribuì a dare vigore alla nazione, consentì
la restaurazione di una credibilità nelle istituzioni minacciata
dai numerosi fatti precedenti. Carter si impegnò nel sostenere
all'estero solo paesi che dessero garanzie di una certa
democraticità e i cui governi godessero di un sufficiente consenso,
ma la ripresa dell'espansionismo sovietico, la superiorità militare
raggiunta dai paesi del Patto di Varsavia, il terrorismo
internazionale di fronte al quale l'Occidente sembrava impotente,
non contribuirono al prestigio internazionale dell'America, e gli
anni di Carter vennero ricordati come un periodo particolarmente
difficile per l'Occidente, che si riteneva avviato ad un processo
di lenta ma irreversibile decadenza di fronte alle nuove nazioni
emergenti.
Sebbene
propenso a risolvere le controversie internazionali attraverso
negoziati, Carter assunse alcune iniziative nel campo
militare, fra le quali il dispiegamento del potente missile
strategico MX, il collocamento in Europa dei missili Cruise, la
costituzione di una "forza di rapido intervento" in grado di
intervenire nel giro di 24 ore in qualsiasi parte della terra dove
si avesse una crisi. Sebbene il presidente americano sia passato
alla storia come un moderato, per il sostegno prestato ai
dissidenti sovietici venne fortemente criticato da Mosca, secondo
Gromiko "Con l'avvento della presidenza Jimmy Carter fu riesumato
il mito della minaccia sovietica, mentre la politica estera
americana riassumeva un carattere inconsistente e contraddittorio.
Nella sua permanenza in carica, Carter scivolò sempre più verso la
politica del confronto" .
Nell'elezioni
presidenziali dell'80, tenutesi successivamente al sequestro degli
ostaggi americani in Iran, Carter venne duramente sconfitto. La
vittoria di Ronald Reagan segnò l'inizio di un periodo fortemente
innovativo per l'America.
GLI
ANNI DELLA DISTENSIONE INTERNAZIONALE
1963-1975
La
grave sconfitta dai sovietici a Cuba nell'ottobre del '62 pose fine
alla politica aggressiva verso gli Stati Uniti portata avanti da
Kruscev negli anni precedenti, e già nelle settimane successive al
duro confronto vennero ripresi i contatti fra Washington e
Mosca.
Il
12 dicembre il rappresentante americano alla conferenza sul disarmo
presentò una proposta in materia di scambio di informazioni
militari fra i due blocchi, e sistemi di comuni-cazione più rapidi
e più diretti fra Washington e Mosca per evitare possibili
incidenti anche involontari, e crisi che rischiassero di evolversi
in maniera troppo rapida per la normale attività diplomatica.
Alcuni giorni dopo i sovietici ripresero la proposta di sospensione
degli esperimenti nucleari; le due iniziative portarono all'accordo
del 20 giugno del '63 sull'instal-lazione della cosiddetta "linea
rossa" fra la Casa Bianca e il Cremlino, e al trattato sulla messa
al bando degli esperimenti nucleari con l'eccezione di quelli
sotterranei.
Il
duplice successo venne completato in ottobre dalla deliberazione
all'unanimità da parte dell'Assemblea Generale dell'ONU del divieto
di installazione di armi atomiche nello spazio. Inoltre nuove
trattative portarono nell'aprile del '64 ad un accordo
russo-americano sulla riduzione di materiali fissili per la
produzione di armi nucleari. Anche sul piano commerciale si
registrarono dei significativi progressi con l'autorizzazione da
parte del governo americano all'aumento delle vendite di cereali
all'Unione Sovietica che attraversava un periodo di crisi
nell'approvvigionamento alimentare.
Nello
stesso anno si aprirono i negoziati di Ginevra sul disarmo, ai
quali non prese parte la Francia, che registrarono invece un
insuccesso. Gli Stati Uniti respinsero la proposta sovietica di
ritiro delle truppe di stanza nei paesi stranieri e abolizione dei
sommergibili dotati di missili balistici, perché questo avrebbe
costituito un indubbio vantaggio per i sovietici, per i quali i
missili intercontinentali piazzati a terra risultavano meglio
occultabili in quanto disponevano di un territorio desertico più
vasto, ed esistevano notevoli restrizioni ai movimenti dei
cittadini stranieri che rendeva più difficile lo spionaggio. La
politica di distensione tuttavia secondo Kennedy non doveva essere
allargata alla Cina, secondo il presidente americano "...non
dobbiamo riconoscere la Cina rossa od accettare il suo ingresso
alle Nazioni Unite, senza un mutamento nella sua posizione
aggressiva contro i vicini asiatici e il mondo intero" con un
esplicito riferimento all'aggressione contro l'India.
Gli
importanti successi degli anni '63-'64 vennero completati da un
miglioramento delle relazioni fra le due Germanie. Nel 1963 Kennedy
in visita in Germania e alla città di Berlino ottenne un successo
non minore di quello riportato da Eisenhower alcuni anni prima a
Bonn. Nell'anno successivo si ebbe un incidente a seguito dello
sconfinamento di un aereo dell'aviazione americana sul territorio
della Germania Orientale, l'aereo venne abbattuto, tuttavia i tre
aviatori vennero prontamente restituiti dalle autorità comuniste,
mentre gli Stati Uniti annunciarono che avrebbero evitato
l'effettuazione di voli in una zona di 100 km lungo il confine
comune fra le due Germanie. Nel mese di settembre infine, in
seguito a colloqui informali fra le autorità di Bonn e Pankow, si
stabilì un accordo per consentire agli abitanti di Berlino Ovest di
recarsi nel settore sovietico per incontrare i propri parenti di
Berlino Est (ma non viceversa) in occasione di alcune festività.
Nel 1965 tuttavia una seduta del parlamento della RFT a Berlino
Ovest suscitò le proteste della Germania Orientale.
Il
successo di Kennedy a Cuba, il miglioramento dei rapporti fra Stati
Uniti e Unione Sovietica, e la riduzione della tensione
internazionale nel biennio '63-'64, portarono ad un importante
miglioramento della relazioni internazionali, ma anche ad un
allentamento della coesione nel blocco occidentale. Una delle cause
delle divergenze fra Stati Uniti e paesi europei, era la diffusa
opinione che nel caso di guerra contro l'Europa sarebbe stato
probabile che gli americani non dessero il loro consenso all'uso di
armi nucleari che avrebbe prodotto ritorsioni anche sul loro
territorio. Il maggiore responsabile delle divergenze nel campo
occidentale fu il generale De Gaulle, che ritornato al potere nel
'58 tentò di reintrodurre il vecchio sistema dell'equilibrio delle
potenze, che ormai non poteva avere futuro. La debo-lezza politica
della Germania spinse l'energico presidente francese ad assumere
quella leadership in Europa che negli anni dell'immediato
dopoguerra la Francia aveva perso a causa del più forte asse Gran
Bretagna e Stati Uniti.
Nel
settembre del '58 il generale francese chiese la creazione
all'interno della NATO di un direttorio a tre, Stati Uniti, Gran
Bretagna e Francia che avrebbe consentito a quest'ultima di
ricuperare le posizioni precedentemente perdute, ma i tempi non
potevano più consentire in una medesima associazione di stati la
presenza di nazioni privilegiate e nazioni gregarie, e il progetto
che aveva incontrato anche l'opposizione degli americani,
fallì.
Le
divergenze della Francia con gli Stati Uniti e la Gran Bretagna si
accrebbero in seguito agli accordi di Nassau sulla cessione di
missili Polaris alle forze armate britanniche, e al progetto
americano di creare una difesa nucleare integrata dei paesi membri
della NATO; il governo di Parigi non poteva ammettere che la difesa
suprema del paese dipen¬desse da organismi sovranazionali, inoltre
riteneva che i paesi europei avrebbero dovuto dotarsi di un sistema
di difesa nucleare totalmente autonomo, e non confidare in un
eccessivo impegno americano. Venne quindi respinta una proposta di
Kennedy finalizzata alla partecipazione dell'Europa alla difesa
nucleare, con la creazione di una Forza Multilaterale Atomica
composta da una flotta dotata di missili a testata nucleare con
equipaggi di tutti i paesi partecipanti, e l'incontro fra i due
statisti francese ed americano nel maggio del '61 non favorì una
maggiore intesa. Alla questione militare si aggiunse presto un
nuovo motivo di polemica; De Gaulle contestava gli accordi di
Bretton Woods, e accusava gli Stati Uniti di pagare le loro
importa¬zioni con una moneta svalutata, sebbene in realtà gli
accordi stessi prevedessero la convertibilità della moneta
americana in oro. Anche le nuove offerte di Kennedy di
collaborazione economica fra Europa e USA vennero interpretate da
De Gaulle come una sorta d'invadenza dell'America negli affari del
vecchio continente.
Nel
'63 il governo francese concluse, in contrasto con i principi
previsti dall'alleanza atlantica, un accordo di cooperazione con
Bonn (successivamente ridimensionato dal parlamento tedesco) che
avrebbe dovuto consentire la creazione di una forma di simbiosi fra
una Germania debole politicamente e forte economicamente, e una
Francia più forte sul piano politico-militare che economico.
Contemporaneamente De Gaulle respinse la richiesta britannica di
ingresso nel MEC, ritenendo così di ridimensionare il ruolo
internazionale della Gran Bretagna, e di assumere uno status
superiore all'interno dell'Europa. In quegli anni il governo
francese assunse diverse iniziative al fine di acquisire un ruolo
autonomo nello scenario internazionale; venne realizzato un
arsenale atomico indipendente e migliorate le relazioni politiche e
commerciali con l'Est europeo. Nel '64 infine, il governo di Parigi
annunciò il riconoscimento francese (non concordato con gli
alleati) della Cina Popolare, e una autonoma politica di aiuto alle
economie dei paesi del Terzo Mondo. Tale politica provocò un
significativo arresto delle istituzioni comunitarie, ma il progetto
irrealistico di fare della Francia una potenza di primo ordine non
ebbe seguito.
Un
nuovo scontro all'interno del vecchio continente si ebbe nel 1965
sulla questione dei poteri, ritenuti eccessivi, della Commissione
della Comunità (che dirige la vita dell'organizzazione comunitaria
fra una seduta del Consiglio dei ministri ed un'altra), e sulla
questione delle deliberazioni del Consiglio con voto maggioritario
anziché unanime; De Gaulle geloso della sovranità francese si
oppose a tali istituzioni, e si espresse per la creazione di
un'associazione di stati che non costituisse un organismo
sovranazionale; nel '67 venne posto un nuovo veto all'ingresso di
Gran Bretagna, ora sotto un governo laburista, e anche in questo
caso riuscì di imporre la propria volontà sul resto
dell'Europa.
Il
viaggio di De Gaulle a Mosca nel 1966 venne considerato
particolarmente importante alla luce di quel progetto di creazione
di un'Europa dall'Atlantico agli Urali che stava a cuore al
generale francese. Il governo gollista si aspettava di creare un
rapporto privilegiato fra Parigi e Mosca al di fuori e nonostante i
due blocchi militari, ma le aspettative andarono deluse, i
sovietici non credevano al progetto e ritenevano utile in quel
momento non peggiorare i rapporti con gli Stati Uniti. Nello stesso
anno l'anziano generale compì una lunga missione in diversi paesi
asiatici e africani dove ottenne numerosi riconoscimenti, propose
la Francia come amica dei nuovi stati e condannò l'intervento
americano in Vietnam, ma i risultati effettivi furono comunque
modesti. La creazione di una sfera d'influenza francese in Africa
trovò un limite infatti nella Convenzione di Yaoundè nel 1963 con
la quale si stabilivano rapporti commerciali privilegiati fra i
paesi del continente africano e la CEE nel suo
complesso.
La
mancata accettazione degli accordi in materia di difesa atomica
comune e il ritiro degli ufficiali francesi dai comandi navali
della NATO accrebbero ulteriormente il timore di una insanabile
spaccatura nell'alleanza atlantica. Il progressivo disimpegno della
Francia dalla organizzazione militare della NATO mise gli alleati
in difficoltà; si riteneva infatti che in caso di aggressione su
vasta scala del Patto di Varsavia contro l'Europa occidentale i
sovietici sarebbero potuti arrivare velocemente al Reno e pertanto
il territorio francese avrebbe dovuto costituire la base d'appoggio
delle strutture più importanti dell'alleanza atlantica, che
dovettero invece essere evacuate. La riduzione degli impegni della
Francia nella NATO iniziata con il rifiuto di contri¬buire alla
creazione di una flotta sotto comando unificato nel '59, proseguì
negli anni successivi fino alla decisione di allontanare la sede
del comando generale dell'alleanza dal territorio francese e
l'uscita definitiva dall'organizzazione militare nel 1966. Ma la
politica francese di grande potenza non poteva avere successo e non
sopravvisse alla caduta di De Gaulle.
Verso
la fine degli anni Sessanta, dopo la caduta del governo De Gaulle,
Francia e Gran Bretagna ridussero notevolmente i propri impegni
all'estero, e rinunciarono a buona parte della loro politica
internazionale; Wilson nel '67 annunciò che il governo avrebbe
eliminato le sue basi militari al di fuori del settore mediterraneo
e atlantico, mentre la Francia sotto la presidenza di Pompidou,
limitò la sua politica estera ai buoni rapporti con i paesi
arabi.
Negli
stessi anni si accentuava il distacco di Pechino da Mosca anche a
causa dell'accordo internazionale sul divieto degli esperimenti
nucleari, visto come una grave limitazione nel momento in cui la
Cina si apprestava a dotarsi di un arsenale atomico autonomo; il
trattato in questione accrebbe il duplice dissenso francese e
cinese nei confronti dei relativi schieramenti.
Un
nuovo elemento infine contribuiva alla distensione internazionale
in quegli anni; la Chiesa Cattolica con Paolo VI promosse delle
aperture verso il pensiero moderno e verso le nuove necessità del
genere umano; con un intervento all'Assemblea delle Nazioni Unite
il Pontefice mise in luce l'importanza di una pace mondiale e
aperto nuove relazioni con i governi atei comunisti che ebbero la
massima espressione con l'incontro in Vaticano nel 1966 del
ministro degli esteri sovietico Gromyko, seguita da quella del
presidente del Soviet Supremo Podgorny nell'anno
successivo.
Dopo la stabilizzazione della situazione a Berlino, in Europa non vi erano più grandi questione aperte, e la contesa fra Est e Ovest si svolse interamente nei paesi del Terzo Mondo che non avevano raggiunto un elevato grado di stabilità e i cui problemi acquistarono un grande rilievo a livello internazionale.
A
proposito della situazione nel Terzo Mondo, negli anni Settanta i
paesi industrializzati sono stati accusati di un aggressivo
"neocolonialismo", realizzato cioè non con gli interventi politici
e militari, ma attraverso strumenti economici. I critici del
capitalismo occidentale parlavano di scambi commerciali ineguali
fra paesi avanzati e paesi in via di sviluppo, ma non sempre i
paesi del Terzo Mondo erano costretti a condizioni svantaggiose,
l'OPEC e i numerosi altri cartelli dei paesi produttori di materie
prime (che nel '73 fecero sentire pesantemente la loro azione) si
contrapponevano, anche giustamente, a prezzi giudicati iniqui.
L'esperienza degli ultimi decenni insegna d'altra parte che
l'accumulo di dollari da parte dei paesi del Terzo Mondo ricchi di
risorse naturali (si può pensare ad esempio allo Zaire che detiene
un quarto della produzione mondiale di diamanti) non è servito in
alcun modo allo sviluppo economico del paese. Le grandi ricchezze
accumulate si sono riversate a beneficio dei dittatori e delle
ristrette oligarchie che governano il paese e sono servite al
finanziamento delle spese militari, talvolta a grandiose opere di
scarsa utilità, e difficilmente hanno contribuito alla
realizzazione di infrastrutture industriali, in attività di
scolarizzazione, ecc.
Il
nazionalismo dei paesi afroasiatici non ha contribuito di molto a
migliorare le condizioni di vita di quei paesi, a eliminare
l'analfabetismo, la corruzione e ad istituire una maggiore certezza
del diritto. L'arbitrio e la violenza ha continuato ad essere
sistema di potere interno, e mezzo per dirimere le controversie con
gli altri paesi. Il nazionalismo terzomondista, con le sue
richieste che andavano ben al di là alle legittime aspirazioni alla
piena sovranità, risultava contrario allo spirito di cooperazione
fra paesi poveri e paesi industrializzati e portava alla violazione
dei diritti degli altri stati. Le stesse riforme agrarie promosse
dai paesi socialisti, sono risultate utili più alla burocrazia di
quei paesi, che a favorire il benessere della popolazione
contadina. Ad un giudizio a posteriori si può ritenere che gli
stati del Terzo Mondo che hanno mantenuto delle strutture politiche
tradizionali sono stati caratterizzati da una maggiore stabilità e
da una relativa prosperità economica.
Il
movimento dei paesi non allineati tenne a partire dal 1961 una
serie di conferenze ma non ebbe che una scarsa incisività sugli
avvenimenti futuri; una posizione di piena neutralità non era
facile da tenere dal momento che i paesi in via di sviluppo
necessitavano obbiettivamente dell'intervento dei paesi avanzati
per l'approvvigionamento di tecnologie, il collocamento delle
proprie eccedenze agricole, e la vendita delle materie prime. Sia i
governi che hanno scelto lo schieramento occidentale, che quelli
che hanno scelto quello comunista, non hanno dato vita a
istituzioni democratiche, comunque difficilmente gli alleati degli
Stati Uniti si sono resi responsabili di atti di una gravità tale
come quelli commessi personaggi come Kim il Sung, Pol Pot, Assad,
Menghistu, Touré, e in ogni caso gli americani imposero ai leader
amici una certa moderazione, e alcuni personaggi ritenuti
autoritari come il dittatore sud vietnamita Diem, vennero
prontamente sostituiti.
Una
delle regioni maggiormente turbate dai contrasti internazionali
negli anni Sessanta fu il sud-est asiatico. La guerra del Vietnam
mise in luce la difficoltà delle democrazie di poter sostenere
un'azione politica e militare sulla quale l'opinione pubblica aveva
delle riserve. Nel Vietnam non erano in gioco riserve di materie
prime indispensabili, né grandi mercati, né infine il controllo di
importanti vie di comunicazione o posizioni strategiche importanti,
il conflitto che si combatté in quegli anni, che ebbe tante
ripercussioni a livello d'opinione pubblica, fu una guerra
decisamente sopravvalutata. Il confronto fra i due governi era
impari, la regione del Tonchino controllata da Hanoi costituiva la
parte più sviluppata del paese con l'80% del carbone, una larga
parte delle industrie e il principale porto del Vietnam. Gli Stati
Uniti sostennero il governo che ritenevano se non il più
democratico almeno quello meno dispotico e in grado di garantire la
stabilità della regione; ritennero quindi di contenere l'avanzata
comunista, ma in nessun momento pensarono di voler rovesciare la
situazione in quella parte di territorio. Il governo di Saigon era
però minato da numerosi contrasti di natura religiosa ed etnica,
sorretto da eserciti autonomi e discordi fra loro, per cui al
governo americano l'impresa risultò notevolmente più impegnativa
del previsto.
Il
Vietnam del Sud fu subito dopo gli accordi di pace del '54
sconvolto da contrasti interni gravissimi, il primo ministro Diem
sostenuto dagli americani entrò in conflitto aperto con
l'imperatore (poco attivo sulla scena politica e per lo più assente
dalla patria) appoggiato dai francesi, e si trovò in contrasto
anche con le numerose e potenti sette del paese, i buddisti e gli
altri gruppi religiosi non cattolici. Con l'aiuto dell'esercito,
Diem riuscì a disfarsi dell'imperatore e ad instaurare un regime
autoritario fortemente repressivo. Una situazione difficile si ebbe
anche nel Vietnam del Nord dove il governo di Hanoi si trovò nel
'56 a fronteggiare una rivolta contadina contro la
collettivizzazione della terra condotta in forma particolarmente
brutale (l'esproprio colpiva arbitrariamente latifondisti e piccoli
proprietari) ma ne venne a capo, e costrinse un milione di
cittadini della comunità cattolica ad abbandonare precipitosamente
il paese. Negli anni successivi il regime di Ho Chi Minh godette di
una stabilità politica decisamente superiore rispetto al governo
antagonista e grazie anche alla presenza di molti suoi uomini nel
territorio del sud, (che combattevano senza divisa), riuscì a
fomen¬tare la rivolta presso i villaggi contadini più
poveri.
Nel
1955 gruppi religiosi armati, alcuni dei quali legati a traffici
illeciti e attività mafiose, e truppe fedeli all'imperatore,
scatenarono la insurrezione armata contro il governo di Diem che si
concluse con un insuccesso. La vittoria del governo legittimo venne
confermata da un referendum, ma la situazione rimase difficile;
Diem si fece attribuire poteri dittatoriali e attraverso la
presenza di esponenti della propria famiglia nelle più alte cariche
dello stato impose un regime autoritario nel paese. Negli anni
successivi la situazione dello stato asiatico fu caratterizzata da
notevole incertezza anche a causa della protesta dei buddisti,
(diversi monaci si diedero fuoco nelle strade della capitale e di
altra grandi città, per protestare contro le vessazioni e la scarsa
libertà religiosa); l'agitazione provocata dall'arrivo dei profughi
cattolici, suscitò sdegno nell'opinione pubblica
mondiale.
In
base agli accordi di Ginevra si sarebbero dovute tenere elezioni
politiche in tutto il paese nel '56, ma il governo di Saigon
rifiutò, ritenendo che la consultazione si sarebbe svolta sotto la
minaccia del potente governo comunista, e nel paese iniziarono gli
scontri fra le forze governative e quelle comuniste.
Nel
1963 alcuni gruppi militari in accordo con gli americani decisero
di abbattere il governo di Diem e di dare vita ad un governo meno
autoritario, ma i contrasti fra i grandi generali non consentì il
ritorno alla normalità. Kennedy e successivamente Johnson si
sforzarono affinché i governi sud vietnamiti attuassero una
politica sociale ed economica tale da favorire un maggiore consenso
popolare ma con risultati parziali. Nel 1966 in seguito a una nuova
ondata di proteste, il governo accettò di tenere le elezioni per
l'Assemblea Costituente; nonostante le minacce dei Viet Cong
presero parte alla consultazione circa l'80% della popolazione, e
attraverso le nuove istituzioni il paese raggiunse una maggiore
legalità ed una relativa stabilità interna.
Alle
prime azioni dei guerriglieri di Hanoi (in contrasto con gli
impegni di Ginevra che prevedevano la non interferenza nella
politica dell'altro territorio) il governo di Saigon rispose con il
trasferimento dei villaggi contadini in territori considerati più
sicuri, ma nonostante le richieste americane per un buon
trattamento per le popolazioni, la cosiddetta operazione Sunrise si
concluse con un disastro. Nel gennaio del '62 Kennedy, preoccupato
che la caduta del governo anticomunista avesse causato la caduta di
buona parte dei governi filo occidentali della regione, decise
l'invio di 15.000 soldati a sostegno di Saigon, ma il provvedimento
risultò insufficiente.
Nell'agosto
del 1964 l'attacco di motosiluranti nord vietnamite contro le
cacciatorpe-diniere americane Maddox e Turner Joy (incidente forse
"cercato" dal governo di Washington) provocarono la reazione degli
Stati Uniti, e spinsero il Congresso ad autorizzare l'uso della
forza contro il governo di Hanoi; nuovi attacchi dei reparti
comunisti contro unità americane nello stesso anno diedero
l'inizio, nonostante le proteste sovietiche, ai bombardamenti
contro Hanoi. In un primo periodo gli Stati Uniti si impegnarono
contro i Viet Cong e contro il governo nord vietnamita con
l'utilizzo della forza aerea, ma la possibilità dei guerriglieri di
ritirarsi oltre confine e di stabilire lì le proprie basi
logistiche, rese non particolarmente efficace l'uso dell'aviazione.
Un ulteriore passo nell'escalation del conflitto si ebbe con
l'impegno diretto di unità regolari dell'esercito del Vietnam del
Nord contro il Sud, e l'invio nel '65 a fianco degli americani di
contingenti australiani, neozelandesi e sud coreani nella regione.
Johnson decise un impegno a sostegno del governo di Saigon sempre
maggiore, e nel '69 la presenza americana raggiunse la eccezionale
cifra di 542.000 effettivi.
Da
parte cinese e sovietica l'impegno a favore dei comunisti
vietnamiti fu notevole, con l'invio di grandi quantità di materiale
bellico ma anche di decine di migliaia di cinesi in operazioni di
supporto varie come la ricostruzione degli impianti distrutti nei
bombardamenti. La rivalità cino-sovietica non influì sulle vicende,
e fino alla conclusione del conflitto, il governo nord vietnamita
mantenne una rigorosa neutralità sotto questo punto di
vista.
L'azione
americana in Vietnam ebbe il sostegno degli alleati della SEATO e
del governo laburista inglese, ma non quello della Francia; il
generale De Gaulle sostenne nel 1966, durante una visita in
Cambogia che gli americani dovevano astenersi dall’esercitare
pressioni sul continente asiatico. Presso l'opinione pubblica anche
il consenso non era unanime, tuttavia alcuni documenti utilizzati
contro gli americani vennero successivamente ritenuti poco
attendibili. Gli americani avrebbero potuto agire con maggiore
capacità diplomatica approfittando del contrasto cino-sovietico,
ovvero di fare leva sul nazionalismo vietnamita per separare il
governo di Ho Chi Minh dall'ala protettrice delle due potenze
comuniste, ma gli atti di violenza dei nord vietnamiti contro i
piloti americani catturati, non favorirono la soluzione politica
del conflitto.
La
guerriglia Viet Cong e nord vietnamita venne condotta con grande
spreco di vite umane, comunque nelle zone interne dove avevano
possibilità di ritirarsi prontamente, riportarono dei successi. E'
difficile stabilire il grado di consenso di cui essi godevano
presso la popolazione delle campagne; in alcuni casi i contadini
vennero forzati a prestare sostegno ai combattenti, secondo una
statistica di fonte americana solo il 2% degli aiuti della
popolazione indigena era da considerarsi spontaneo. Il governo
comunista di Hanoi non ha avuto il sostegno popolare (come le
successive vicende hanno confermato), la popolazione vietnamita
sostanzialmente era desiderosa di pace, di sicurezza e di un certo
rispetto dei diritti umani, e se non costretta non parteggiava per
nessuno schieramento.
Una
parte importante della guerra venne condotta dall'aviazione
americana che nel corso della guerra sganciò una quantità
incredibile di bombe (superiore a quelle utilizzate durante la
seconda guerra mondiale), e nel dicembre del '65 condusse un
attacco contro il porto di Haiphong che avrebbe potuto avere gravi
conseguenze per la presenza di navi sovietiche in rada. Le regole
dell'aviazione americana nei bombardamenti in territorio nord
vietnamita erano tuttavia particolarmente rigorose; erano
interdetti non solo i centri abitati ma anche quegli obbiettivi
eccessivamente vicini a questi. i bombardamenti strategici anche a
causa dell'elevato livello della difesa contraerea, che disponeva
dei migliori armamenti sovietici, si rilevarono quindi dispendiosi
e relativamente poco efficaci.
La
principale operazione militare del conflitto fu l'offensiva del
Thet (il capodanno buddista) del gennaio-febbraio 1968 condotta da
Viet Cong e reparti militari regolari del Vietnam del Nord. In
occasione delle festività religiose le forze comuniste sferrarono
un grande attacco di sorpresa contro le grandi città, che finora
non erano state teatro di combattimenti, fra cui la stessa Saigon e
l'antica capitale imperiale Huè. La popolazione urbana non
solidarizzò con gli attaccanti, e si ebbero invece una serie di
atti di violenza da parte dei comunisti; nella città di Huè al
termine dei combattimenti venne scoperta una fossa comune con 3.000
cadaveri di presunti oppositori politici; l'uccisione di civili da
parte di guerriglieri, come quello di Dak Son, Quang Tri e An
Loc si ripeterono successivamente nel corso degli anni.
L'offensiva comunista si concluse in una grave disfatta; nel giro
di alcune settimane le città vennero riprese, e i guerriglieri
riportarono 45.000 morti e 7.000 prigionieri contro i 3.000 dei
soldati sud vietnamiti caduti e 1.500 americani. Nello stesso
periodo l'esercito nord vietnamita tentò una nuova Dien Bien Phu
attaccando in uno scontro campale la base militare americana di Khe
Sanh presidiata da circa 6.000 uomini. L'artiglieria di Hanoi
bombardò violentemente l'aeroporto, che costituiva l'unica via di
riforni¬mento della guarnigione, mentre la fanteria forte di 25.000
uomini, scatenò numerosi attacchi, ma alla fine le forze comuniste
con gravissime perdite dovettero cedere e ritirarsi oltre il 17°
parallelo.
I
comunisti non si ripresero dalla duplice sconfitta del '68 che dopo
alcuni anni, ma sul piano politico le due battaglie non
costituirono un successo per gli americani; la guerra portava a
delle distruzioni ritenute eccessive, l'impegno americano come
costi umani e come mezzi finanziari (la guerra arrivò costare alle
casse dello stato quasi 150 miliardi di dollari) risultava troppo
elevato per una contesa non particolarmente rilevante a livello
mondiale. Sotto la pressione dell'opinione pubblica americana ed
europea, Johnson decise pertanto di sospendere i bombardamenti
contro il Vietnam del Nord e di aprire negoziati, che si rivelarono
inutili, (l'unico scopo da parte comunista era di ottenere la
sospensione degli attacchi aerei) e consapevole degli errori
commessi sulla questione vietnamita il presidente americano decise
di non ripresentarsi candidato alle elezioni presidenziali
successive.
I
soldati dei nuovi reparti che sostituivano le truppe americane già
impegnate risultavano quindi fortemente demotivati e insofferenti
ad un duro sforzo di cui non si capivano le ragioni ideali,
progressivamente venne pertanto ridotto l'impegno dell'esercito
(anche a causa dell'incidente di My Lai dove un giovane ufficiale
americano si era reso responsabile della morte di numerosi civili),
e i compiti di prima linea vennero affidati a reparti sud
vietnamiti, infine sotto la presidenza Nixon il contingente
americano venne notevolmente ridimensionato. Nella nuova strategia
di Nixon venne data particolare importanza all'attacco delle basi
logistiche Viet Cong in Cambogia (nonostante i timori di alcuni di
un allargamento del conflitto), che misero in difficoltà il nemico,
tuttavia senza raggiungere dei risultati
soddisfacenti.
La
guerra in Vietnam non poteva non avere conseguenze nei due stati
più deboli che avevano fatto parte dell'Indocina francese, la
Cambogia e il Laos.
Il
regno cambogiano sotto la guida del principe Sihanouk si schierò
con la Francia contro i tradizionali avversari del Vietnam, e
stabilì in un primo momento buone relazioni con gli Stati Uniti dal
quale ottenne consistenti aiuti economici. Il timore di un
coinvolgimento nella guerra (nel 1954 le truppe comuniste
vietnamite erano entrate nel paese) spinse tuttavia il governo
della Cambogia ad una politica molto ambigua. Nel 1963 venne
stretto un trattato d'amicizia con la Cina Popolare, il cui governo
era stato riconosciuto già nel 1958, e venne chiesta la
convocazione di una conferenza internazionale sulla
neutralizzazione del paese, iniziativa ben vista dall'Unione
Sovietica e dalla Francia, ma non dagli Stati Uniti e dalla Gran
Bretagna; i rapporti con Washington si deteriorano rapidamente, e
nel '65 vennero interrotte le relazioni diplomatiche fra i due
paesi. Nel 1969 il principe cambogiano consentì l'ingresso delle
truppe nord vietnamite (circa 40.000 soldati) nel paese che suscitò
vivo malcontento, e nell'ottobre dell'anno successivo il primo
ministro e comandante militare Lon Nol, sosteni¬tore della causa
d'indipendenza del paese, instaurò un governo in contrasto con il
capo di stato che riparò all'estero.
L'accordo
internazionale sul Laos sancito dalla Conferenza di Ginevra del
1962 non ebbe lunga vita, e nell'anno successivo le forze del
Pathet Lao e quelle nord vietnamite ripresero il controllo della
parte settentrionale del paese e della Piana delle Giare utilizzata
dai Viet Cong come via di comunicazione con Hanoi. Il primo
ministro, il principe di tendenze neutraliste Suvanna Phuma
denunciò l'ingerenza nord vietnamita e cinese (5 battaglioni cinesi
penetrarono nel Laos nel dicembre '69), e con l'appoggio delle
truppe sud vietnamite e dell'aviazione americana riuscì a contenere
l'avanzata comunista. Nel marzo del 1970 Nixon chiese la riapertura
della Conferenza del Laos, ma il paese risultava sempre più
coinvolto nella guerra del Vietnam e senza possibilità di
soluzione.
Nel
corso degli anni più cruenti della crisi vietnamita si aveva un
ritorno di tensione in Corea. Il paese asiatico dopo la cessazione
delle ostilità aveva conosciuto numerose violazioni della tregua, e
una notevole instabilità. Nella Corea del Sud nel 1961 subentrò al
governo civile una giunta militare, che nonostante le numerose
proteste studentesche e le accuse di corruzione, si è mantenuta per
lungo tempo al potere. Nella Corea del Nord con Kim Il Sung si
instaurò un governo dispotico con pochi eguali al mondo (in tempi
recenti sono stati documentati campi di concentramento per detenuti
politici oltre confine all'interno della vicina Siberia). Il
dittatore coreano si era orientato dapprima moderatamente a favore
della Cina maoista, ma successiva¬mente, dopo la Rivoluzione
Culturale si pose in aperta rottura con Pechino. Nel corso degli
anni il divario delle due Coree venne ad approfondirsi, la Corea
del Sud diventando una delle potenze industriali asiatiche (con un
reddito pro capite annuo di 4.400 dollari), e il nord rimanendo in
condizioni di sottosviluppo con un reddito attestato sui 1.240
dollari.
Nel
gennaio del 1968, dopo una serie di scontri di confine, fra le due
Coree, cannoniere nordcoreane catturarono la nave spia americana
Pueblo con 82 uomini d'equipaggio al largo del Mar del Giappone in
acque internazionali. Nonostante alcuni atti di ritorsione da parte
degli Stati Uniti (nel corso dei quali venne abbattuto a 90 miglia
dalle coste e quindi al di fuori dello spazio aereo coreano, un
aereo americano) solo nel dicembre i marinai americani, che avevano
subito gravissimi maltrattamenti vennero liberati.
I
tragici eventi successivi alla proclamazione dello stato indiano
(500.000 morti, 15 milioni di profughi, distruzioni di numerosi
villaggi mussulmani e indù) ebbero notevole influenza sulle
relazioni fra India e Pakistan e sulla politica internazionale
dell'intera regione. Risolta la questione del Punjab con la
divisione dello stato in due parti, rimase aperta la questione del
Kashmir. Lo stato himalayano, sul quale si concentrarono gli
interessi anche dei cinesi, era abitato da una maggioranza
mussulmana, ma il maharajah di fede induista decise l'adesione alla
repubblica indiana; si ebbe immediatamente un conflitto fra le
tribù montanare appoggiate dalle truppe pakistane e l'esercito
indiano, che si concluse nel 1949 con l'intervento dell'ONU che
impose il cessate il fuoco nella regione.
India
e Pakistan si trovarono anche su schieramenti opposti in campo
internazionale; nel 1954 il Pakistan aderì alla SEATO e nell'anno
successivo al Patto di Bagdad, mentre l'India mantenne il suo
neutralismo terzomondista. Negli anni successivi tuttavia, lo stato
pakistano si avvicinò sempre più alla politica cinese, mentre
l'India consolidò, dopo la morte di Nehru, i suoi rapporti con
l'Unione Sovietica, con la quale venne firmato il trattato di
cooperazione del 1971.
Nel
1965, anno che segnò l'inizio di una grave carestia per l'India, si
ebbe un nuovo conflitto indopakistano, nella regione costiera di
Kutch e nel Kashmir; il governo di Nuova Delhi denunciò
l'infiltrazione di truppe irregolari pakistane oltre la linea del
cessate il fuoco, e attaccò il Pakistan. La Cina da alcuni anni
alleata del Pakistan, approfittò della situazione per una nuova
offensiva nella zona himalayana intorno alla regione del Sikkim
(sul quale il governo indiano avanzava delle rivendicazioni). La
Gran Bretagna sospese le forniture militari all'India, mentre gli
Stati Uniti che avevano relazioni amichevoli con entrambi i
contendenti, si dichiararono per il ritorno allo status quo e
imposero il blocco delle forniture militari ai due governi. Lo
scontro, durato alcune settimane, violento e non risolutivo, si
concluse con il ritorno alle posizioni precedentemente occupate,
accordo che venne sancito con la mediazione sovietica nella
conferenza di Tashkent. La contesa indopakistana ebbe
successivamente un nuovo sviluppo con l'appoggio del governo
indiano alle rivendicazioni del Bangladesh nel 1971. Il latente
contrasto fra la regione orientale del Pakistan, il Bengala, con il
governo di Islamabad, esplose nella primavera di quell'anno. Alle
richieste di autonomia dei partiti che nelle elezioni dell'anno
precedente avevano riportato la maggioranza, il governo centrale
sostenuto dalla Cina, rispose con una repressione durissima che
provocò quasi un milione di morti e la fuga in India di centinaia
di migliaia di persone. Nel dicembre il governo indiano con il
favore dell'Unione Sovietica, decise l'intervento a favore delle
popolazioni bengalesi e nel giro di breve tempo le truppe pakistane
furono costrette a sgomberare il paese. La Cina, con un
comportamento politico molto singolare per un paese che si
proponeva come guida del sud del mondo, tenne un atteggiamento
ostile verso il nuovo stato, e impedì l'accesso all'ONU della
neo-nata repubblica del Bangladesh. Lo stato del Bengala,
sovrappopolato e con un'economia in condizioni gravissime, ha
conosciuto negli anni successivi una notevole instabilità, numerosi
disastri naturali, e l'intervento dei militari al potere, che non
ha favorito lo sviluppo della regione. In seguito a tali eventi nel
1974 il governo indiano decise la realizzazione della bomba
atomica, facendo del proprio paese la sesta potenza
nucleare.
L'Indonesia
con la sua realtà composita e le numerose etnie in contrasto con il
centro di potere di Giava, non conosceva stabilità interna né buone
relazioni internazionali. Il governo di Giakarta con un atto
arbitrario nazionalizzò nel '57 le imprese olandesi e negli anni
successivi mise in atto azioni di guerra contro la vicina Malaysia
e la Nuova Guinea. Nel settem¬bre del 1965 i comunisti filo cinesi,
già alleati del governo, tentarono un colpo di stato ma senza
successo. L'esercito intervenuto a reprimere il movimento
insurrezionale allontanò dal potere l'anziano dittatore, e oltre
mezzo milione di comunisti o presunti tali, vennero eliminati nel
corso della repressione. Il generale Suharto, nuovo leader del
paese portò il paese su posizioni filo occidentali, ma mantenne le
strutture dello stato totalitario, e continuò la politica di
repressione delle minoranze etniche.
Nel
periodo in cui l'intervento USA in Vietnam entrava nel periodo di
massima tensione, si aprivano nuove difficoltà in America Latina.
La piccola repubblica Dominicana nel Mar delle Antille, con la sua
numerosa comunità nera, aveva conosciuto un lungo periodo di
dittatura. Nel 1930 salì al potere il colonnello Trujillo, che
favorì lo sviluppo economico della repubblica, ma diede vita ad un
regime autoritario. Il governo, in larga parte nelle mani dei
componenti della famiglia del dittatore, gestì il paese come una
proprietà privata, e negli anni successivi si trovò in contrasto
con gli altri paesi americani (l'amministrazione Kennedy secondo
alcuni tentò di eliminarlo) che stabilirono sanzioni economiche e
diplomatiche per il tentato assassinio del presidente del Venezuela
Betancourt. Le misure di ritorsione decise nel '60, non furono in
grado di imporre una maggiore democratizzazione delle repubblica
come richiesto dall'Organizzazione degli Stati Americani, e la
situazione del paese precipitò l'anno successivo con assassinio del
dittatore. Nonostante il disordine che seguì nel periodo
successivo, vennero organizzate nel 1962 libere elezioni, che si
conclusero con la vittoria del leader del Partito Rivoluzionario
Democratico, Juan Bosch, di tendenze socialiste democratiche. Il
nuovo leader progettò una riforma della vita politica del paese,
che ebbe però breve vita e venne rovesciato da un colpo di stato
militare alcuni mesi dopo.
Nell'aprile
del 1965 si verificò un tentativo non riuscito di conquista del
potere da parte di esponenti vicini al deposto presidente, che
provocò l'intervento militare americano, a cui si affiancarono nei
giorni successivi truppe di altri paesi dell'OSA. L'intervento era
finalizzato a proteggere l'incolumità dei cittadini nordameri¬cani,
sventare un colpo di stato da parte di esponenti comunisti facenti
parte dello schiera¬mento di Bosch ,e favorire un accordo nel
paese. La riconciliazione fra le parti venne presto raggiunta, e
nell'anno successivo si tennero nuove elezioni che portarono alla
vittoria del partito riformista social cristiano di Balaguer, e al
ritiro delle truppe.
Nella
regione non era solo la repubblica Dominicana a destare attenzioni.
La situazione di Cuba nonostante gli aiuti sovietici, rimaneva
difficile, dopo la statalizzazione dell'agricoltura e il fallimento
dell'industrializzazione, si ebbe una grave crisi a cui il governo
fece fronte con l'imposizione del razionamento alimentare. Fra il
'65 e il '70 centinaia di migliaia di cittadini (mezzo milione
secondo alcune fonti), soprattutto delle classi colte, fuggirono
dall'isola, mentre le misure repressive non cessavano di farsi
sentire. Nel corso degli anni decine di migliaia di dissidenti
vennero arrestati e condannati senza processo, (20.000 secondo
fonti governa¬tive) alcune migliaia vennero fucilati, e un numero
superiore costretto al lavoro obbligatorio nel settore agricolo per
ottenere il diritto di espatrio . La repressione non risparmiava
nemmeno i dirigenti politici della vecchia guardia rivoluzionaria;
nel '68 undici ex capi della rivolta del '59 vennero condannati per
tradimento a lunghe pene detentive.
Di
fronte l'embargo commerciale e alla rottura dei rapporti
diplomatici da parte dei paesi dell'OSA (con l'esclusione del
Messico), il regime castrista adeguò la sua politica a quella
sovietica, accettò la presenza di 3.000 soldati sovietici
nell'isola e si allineò alla condanna del comunismo cinese. Nel '68
si ebbe una crisi passeggera fra L'Avana e Mosca conclusasi con la
minaccia di un blocco delle forniture di petrolio da parte dei
sovietici. A seguito di essa il regime castrista dovette rinunciare
ad esportare la sua rivoluzione nel resto del continente, e ad
evitare ulteriori contrasti con gli Stati Uniti.
Anche
in anni recenti si sono verificate azioni repressive contro
l'opposizione e i dissidenti interni del regime. Nel 1989 venne
fucilato il vecchio comandante guerrigliero Sanchez Ochoa, insieme
ad altri tre alti ufficiali, dopo un processo a porte chiuse da
parte di un tribunale speciale. L'accusa era di traffico di droga,
ma si riteneva in realtà che uomini del regime abbiano voluto
sbarazzarsi di uno scomodo testimone del commercio internazionale
di stupefacenti e del riciclaggio di denaro sporco, nel quale
erano coinvolti uomini di primo piano del governo.
Fra
il '62 e il '65 si ebbe la formazione di gruppi guerriglieri in
numerose parti dell'America Latina, in paesi poveri come Colombia,
Guatemala, Venezuela, Perù, Bolivia ed Ecuador, ed in paesi
relativamente più progrediti come, Uruguay e Argentina. Fra i
protagonisti di questo fenomeno si ebbe il Che Guevara, che
abbandonò Cuba per divergenze con il governo e si impegnò nella
guerriglia in varie parti del mondo, e il coraggioso prete Camillo
Torres, figlio di una agiata famiglia borghese colombiana, che
aveva denunciato i poteri eccessivi di una ristretta oligarchia di
famiglie. La guerriglia ovunque prese la forma di un movimento di
contadini che lottavano contro la povertà; solo in Uruguay il
movimento dei Tupamaros prese le caratteristiche di un movimento a
carattere urbano. Ad eccezione dei movimenti rivoluzionari
dell'America Centrale, in nessun caso i gruppi guerriglieri, che si
finanziavano attraverso i rapimenti di persona, ottennero un
consenso tale da rappresentare una vera minaccia per le
istituzioni; le popolazioni desideravano una evoluzione graduale
verso riforme sociali ed economiche, e in diversi casi la
guerriglia non ebbe il sostegno dei partiti comunisti
locali.
Gli
anni Sessanta rappresentarono un periodo di notevole incertezza per
il mondo arabo oggetto degli appetiti delle grandi potenze. I paesi
arabi del Medio Oriente sia essi soggetti a monarchie tradizionali,
dittature o regimi militari non sono riusciti a darsi istituzioni
rappresentative stabili, né a dare vita ad un assetto democratico
dello stato; il panarabismo agitato da alcuni, rappresentava in
realtà più il tentativo di imporre la propria leadership sul resto
del mondo mediorientale, che non il progetto di unificazione
consensuale del popolo arabo. Le grandi ricchezze accumulate negli
ultimi decenni con lo sfruttamento del petrolio, hanno portato
scarsi benefici alla regione, e sono state utilizzate
principalmente per questioni militari che non per fini di sviluppo
economico civile.
Lo
Yemen nel sud della penisola arabica costituiva uno degli stati più
arretrati della regione con un tasso di analfabetismo elevato ed un
reddito nazionale molto basso. Il paese, povero di materie prime,
tuttavia per la sua posizione strategica, all'imbocco del Mar
Rosso, godeva di un grande rilievo dal punto di vista geopolitico.
La parte sud-est del paese venne nello scorso secolo occupata dagli
inglesi, mentre il nord si affrancò dal dominio turco al termine
della prima guerra mondiale, e divenne uno stato indipendente
legato tuttavia al regno saudita.
L'imam,
capo religioso e politico dello Yemen del nord, tradizionalmente in
contrasto con l'Arabia e la Gran Bretagna per la questione di Aden,
orientò la sua politica estera verso l'URSS, e nel 1958 entrò a far
parte della Repubblica Araba Unita. La nuova formazione politica
ebbe però vita breve, di fronte all'ingerenza egiziana la Siria e
lo Yemen ripresero la loro autonomia nel 1961, ma per lo stato
yemenita la rottura rappresentò l'inizio di un periodo travagliato.
Il capo di stato maggiore, il nasseriano Sallal, l'anno successivo
proclamò la repubblica costringendo l'imam a raggiungere le tribù
rimaste fedeli nel nord. L'Egitto inviò 40.000 soldati nel paese a
sostegno del regime repubblicano; la guerra civile che seguì, ebbe
un'attenuazione solo nel 1967 quando Nasser e re Feisal d'Arabia,
che sosteneva la fazione monarchica, sottoscris¬sero un accordo.
Con il ritiro delle truppe egiziane (in coincidenza con la guerra
dei sei giorni) le forze favorevoli al capo religioso ripresero il
controllo di buona parte del paese, ma l'intervento dei siriani e
dell'Unione Sovietica nel conflitto a sostegno dei repubblicani
impedirono la vittoria dei monarchici. I sostenitori dell'imam non
poterono imporre il ritorno della monarchia, prevalsero comunque le
forze moderate non ostili all'Occidente, e si giunse ad una
precaria sistemazione del conflitto.
Negli
anni successivi si ebbe un certo raffreddamento dei rapporti fra
l'Unione Sovietica e Nasser. Il Rais egiziano rinunciò alla
leadership sul mondo arabo, inaugurò una politica di conferenze
interarabe, e si riavvicinò alla Giordania e all'Arabia Saudita, ma
diversi elementi facevano pensare ad una ripresa del contrasto con
Israele. La regione continuava ad essere interessata da numerosi
fermenti, fra i profughi palesti¬nesi era sorta nel 1956 Al Fatah,
che dal 1964 iniziò la sua attività terroristica contro Israele.
Gli incidenti di frontiera e i cannoneggiamenti dei villaggi
israeliani da parte dell'artiglieria siriana aumentarono, e sorse
una contesa sullo sfruttamento delle acque del Giordano. Nel 1966
infine, Nasser iniziò una serie di violenti attacchi verbali contro
lo stato ebraico, strinse un accordo con Giordania e Siria, e
richiese l'allontanamento della forza di pace nel Sinai.
Successivamente inviò 7 divisioni (per circa 100.000 uomini e 1.000
carri armati) nella zona oltre il Canale di Suez, e pose nuovamente
il blocco degli Stretti di Tiran per impedire l'accesso alle navi
israeliane.
La
particolare conformazione geografica di Israele, dove la maggior
parte delle grandi città si trovano in una esile striscia di terra
costiera (Tel Aviv è a meno di 40 km dal confine con la
Cisgiordania) non consentiva a questo paese di assicurarsi una
difesa statica tradizionale. Questo problema è stato molto sentito
dal governo, che ha impostato la sua difesa su una struttura
militare particolarmente mobile. E' difficile comprendere le
complesse vicende mediorientali se non si comprende che il timore
degli israeliani non era di subire una semplice sconfitta in un
eventuale conflitto, ma di essere annientati, e di subire quindi
una sorte non diversa (probabilmente peggiore) di quella riservata
dagli irakeni ai kuwaitiani nelle recenti vicende del Golfo
Persico. Di fronte alle minacciose iniziative arabe, e ad un certo
disinteresse delle grandi potenze verso il suo destino, Israele
decise nel maggio del 1967 un attacco preventivo contro la
coalizione araba. L'iniziativa israeliana, che passò alla storia
come la "guerra dei sei giorni", fu dal punto di vista militare un
operazione di eccezionale livello strategico; il 5 giugno
l'aviazione distrusse al suolo quasi tutta la flotta aerea dei
paesi arabi. L'azione di guerra israeliana ha dimostrato che in una
guerra moderna che si svolga in spazi aperti il dominio dei cieli è
di estrema importanza. Sottoposte a bombar¬damenti incessanti le
truppe arabe furono costretta ad una precipitosa fuga abbandonando
una quantità incredibile di materiale in mano al nemico. Nasser il
giorno successivo all'attacco aereo accusò con deliberata menzogna
Stati Uniti e Gran Bretagna di aver partecipato al raid aereo, e
ruppe le relazioni diplomatiche con i rispettivi governi. Le
iniziative politiche comunque non alterarono l’andamento delle
vicende militari Gli egiziani dovettero cedere completamente il
Sinai e riparare oltre il Canale di Suez, i giordani che erano
entrati in guerra senza eccessiva convinzione dovettero abbandonare
la Cisgiordania, che costituiva la parte più ricca del piccolo
regno, e ritirarsi oltre il fiume Giordano , la Siria, che
all'ultimo momento evitò di aprire il terzo fronte, attirandosi la
condanna di tutto il mondo arabo, fu comunque costretta a ritirarsi
dalle alture del Golan, postazione strategica molto rilevante, e
solo l'entrata in vigore del cessate il fuoco impedì che le truppe
israeliane arrivassero a Damasco. Il governo siriano confidava
sull'intervento diretto dell'Unione Sovietica a suo favore (con la
quale era legata da un trattato di cooperazione), ma Stati Uniti e
Unione Sovietica si neutralizzavano a vicenda sotto questo aspetto,
e le grandi potenze non poterono fare altro che mobilitare le
flotte a scopo dimostrativo, richiedere la fine dei combattimenti,
e stabilire la pace in base al nuovo status quo venutosi a
creare.
Oltre
alla superiorità tecnica un altro elemento aveva giocato a favore
di Israele la risolutezza di soldati che combattevano per la
sopravvivenza del proprio stato, mentre gli eserciti arabi
numericamente preponderanti, erano non particolarmente motivati e
si mostravano diffidenti l'uno verso l'altro. Prima ancora
dell'entrata in vigore della cessate il fuoco richiesto
dall'Egitto, il Rais presentò le dimissioni, ma imponenti
manifestazioni a suo favore gli consentirono di ritirarle
successivamente. Sebbene i paesi alleati dell'Unione Sovietica
fossero stati sconfitti, il ruolo della potenza comunista nella
regione venne confermato, e anzi si rafforzò in quegli anni la
presenza della flotta sovietica nel Mediterraneo orientale e
nell'Oceano Indiano.
Alla
fine di agosto dello stesso anno si tenne un importante incontro di
capi arabi (assenti i rappresentanti di Siria, Algeria e Tunisia) a
Khartoum; i paesi maggiormente impegnati nel conflitto vennero
aiutati finanziariamente dai paesi arabi più ricchi, e nella stessa
sede venne deciso di tenere una linea intransigente nei confronti
di Israele - né riconoscimento né negoziato - e stabilito un
appoggio senza riserve alla causa palestinese. Negli anni
successivi la Francia, che era stata la maggiore fornitrice di armi
a Israele, di fronte alla ostilità araba ritirò il suo appoggio
allo stato ebraico, ma gli israeliani non disarmarono. Nel novembre
l'ONU prescrisse le condizioni per arrivare ad una pace stabile,
ritiro di Israele dai territori occupati, riconoscimento del
diritto di esistenza, con frontiere sicure e riconosciute, libertà
di navigazione nelle acque mediorientali per gli stretti di Tiran e
il Canale di Suez, l'iniziativa tuttavia non ebbe alcun
seguito.
Anche
nelle regioni al di là del grande deserto sahariano la situazione
politica rimaneva complessa, e l'instabilità politica diveniva un
fenomeno costante; in breve tempo gran parte degli stati africani
si avviò verso dittature militari e governi dispotici che
impedi-rono lo sviluppo economico e politico di quei paesi, e in
alcuni casi tali governi si resero responsabili di incredibili
fatti di sangue.
La
Nigeria con le sue ricchezze petrolifere, e le sue regioni
popolose, costituiva uno dei più importanti paesi dell'Africa
subsahariana. Il paese già colonia inglese, raggiunse
l'indipendenza nel 1960 insieme a diversi altri paesi del
continente africano, ma la sua eterogenea composizione etnica fu
alla base di una instabilità politica gravissima. Nel 1966 la
tensione fra gli Ibo, gli abitanti della ricca regione a est del
Niger, il Biafra, e le popolazioni mussulmane del nord, sfociò in
sanguinosi scontri armati, e nell'anno successivo le popola-zioni
biafrane proclamarono unilateralmente l'indipendenza. La questione
nigeriana venne resa più complessa da problemi internazionali,
buona parte degli stati africani e la Gran Bretagna (che attraverso
la British Petroleum, controllava una parte delle risorse
petrolifere), sosteneva il governo centrale nigeriano, (che
tuttavia per gli armamenti era legato all'Unione Sovietica) mentre
gli Stati Uniti, e più apertamente la Francia gollista,
appoggiavano la causa del Biafra. La guerra civile durò oltre due
anni, ed ebbe conseguenze catastrofiche con due milioni di vittime
a causa dei combattimenti e della conseguente carestia nella
regione controllata dagli insorti; le truppe nigeriane ebbero alla
fina la meglio, e nel 1970 gli Ibo furono costretti alla
resa.
Nello
stesso periodo si verificava uno stato di tensione che avrebbe
potuto degene-rare in conflitto, fra la Guinea, paese legato
economicamente all'Unione Sovietica, e il Costa d'Avorio filo
francese. Alcuni anni dopo, nel 1970 si verificò un'incursione di
mercenari contro alcuni obbiettivi civili guineani; l'azione
suscitò le proteste di molti paesi africani e l'invio di aiuti al
governo di Conakry da parte dell'Egitto e della Nigeria.
Successivamente si poté stabilire che si trattava di un'operazione
gestita dal Portogallo contro il comando dei guerriglieri del
Fronte di Liberazione della Guinea Portoghese.
Nel
corso degli anni della crisi mediorientale si sono verificati altri
motivi di tensione nel bacino del Mediterraneo, che hanno
interessato in particolare ex possedimenti britannici. A varie
riprese il governo spagnolo ha chiuso la frontiera ed effettuato
dimostrazioni navali al largo del possedimento britannico di
Gibilterra; della questione se ne erano interessate anche le
Nazioni Unite, ma nel '67 con un referendum una maggioranza
amplissima dei 31.000 abitanti del piccolo territorio si è espressa
per il mantenimento dei legami con la madrepatria inglese. Nel 1964
un altro importante territorio d'oltre mare inglese, l'isola di
Malta, raggiungeva la piena indipendenza; dopo un periodo di
attriti con la Gran Bretagna, a causa di una grave crisi con la
vicina Libia, si aveva un riavvicinamento con la ex potenza
dominatrice.
LA
RIVOLUZIONE CULTURALE CINESE
E IL
RIAVVICINAMENTO CON GLI STATI UNITI
La
Rivoluzione Culturale o più esattamente la "rivoluzione totale per
l'instaurazione della cultura della classe lavoratrice" secondo la
denominazione ufficiale, ha costituito uno dei fenomeni più
controversi della nostra storia recente; è stata considerata come
un movimento di democrazia diretta e di autorganizzazione spontanea
delle masse, che ha attirato le simpatie di quella parte della
sinistra marxista insoddisfatta del modello sovietico, ma sotto
altri aspetti rappresentò il perfezionamento del regime totalitario
esistente attraverso la eliminazione delle categorie ritenute meno
integrate nel regime. La rivoluzione culturale venne portata avanti
da quegli stessi esponenti che avevano sostenuto alla conferenza
internazionale dei partiti comunisti a Mosca del 1957 la necessità
di una direzione accentrata del movimento comunista, che avevano
contestato la condanna del culto della personalità, e che
successivamente si erano espressi a favore della invasione
dell'Ungheria e della soppressione di Imre Nagy. Significativo
anche il fatto che, come nella precedente campagna dei Cento Fiori,
la libertà di espressione sia stata concessa e ritirata dall'alto;
ed inoltre è ben difficile pensare che un paese che si reggeva su
metodi repressivi di massa (i gulag cinesi, i cosiddetti Laogai),
che non conosceva garanzie di diritto, potesse costituire un
modello per altri popoli. Molti fattori fanno invece ritenere che
la rivoluzione culturale fosse solo in parte un movimento spontaneo
(alcune istituzioni non vennero mai sottoposte a critica), dove si
poneva sullo stesso piano il fanatismo con la libertà, la violenza
livellatrice con lo spirito d'eguaglianza, l'indottrinamento
acritico con l’educazione delle masse.
In
Unione Sovietica la presenza di intellettuali come Sacharov e
Solgenitsin ha dato risalto alle persecuzioni del regime contro gli
oppositori, mentre in Cina il fenomeno sebbene di portata non
inferiore a quello staliniano, è passato relativamente sotto
silenzio e ha avuto scarso interesse presso l'opinione
pubblica.
La
Rivoluzione Culturale non ha creato uno stato diverso, le facce
sorridenti dei contadini dei filmati diffusi in Occidente, non
potevano occultare la rigida dittatura, e dietro la teorizzazione
dei "medici scalzi" si celava la supremazia delle categorie più
facilmente sottomesse su ciò che poteva essere "non integrato", e
tali erano le categorie colte in genere. La Rivoluzione Culturale
con le sue violenze, con le distruzioni del patrimonio storico
artistico e le "rieducazioni" ha assunto caratteri tali da
ricordare la realtà raccontata da George Orwell nei suoi
romanzi.
Lo
scontro fra i maoisti e i sostenitori del presidente della
repubblica e capo dei sindacati operai Liu Shao Chi, favorevole ad
un certo grado di autonomia dello stato e dell'economia dal
controllo politico, si fece più intenso nel 1965 senza comunque
dare seguito ancora a quelle agitazioni di massa che
caratterizzarono il periodo successivo. Nei primi mesi dell'anno
successivo lo scontro prese un andamento favorevole a Mao Tse Tung
che, grazie all'inter¬vento dell'esercito, riuscì a destituire il
sindaco di Pechino Peng Zhen e a prevalere nel Comitato Centrale
del partito. Oggetto della lotta non furono solo i tecnocrati e i
pragmatisti dell'apparato dello stato, ma anche gli intellettuali
come lo storico Wu Han e il presidente dell'accademia delle scienze
Kuo Mo-jo contrari all'autoritarismo populista maoista. Scuole e
università, ritenute luogo di incontro di categorie non
controllabili come quelle di studenti e intellettuali vennero
chiuse. Chiunque desse segni di scarso conformismo verso il regime,
ma anche chi conosceva una lingua straniera o aveva soggiornato in
paesi stranieri, fu oggetto di critiche e pesanti attacchi che si
concludevano nel migliore dei casi con umilianti esposizioni in
pubblico dell'accusato. Nell'estate di quell'anno venne costituito
ad opera del ministro della difesa Lin Piao, il movimento delle
Guardie Rosse, formato da giovani sostenitori ardenti e dogmatici
del presidente Mao, "guida geniale" del paese; il movimento
promosse grandi manifestazioni (gestite dall'organizzazione
militare), con distruzioni di opere storico artistiche ritenute
residuo del passato, e innumerevoli azioni di contestazione verso i
dirigenti di partito giudicati controrivo¬luzionari.
Durante
la Rivoluzione Culturale tutta la società venne sottoposta ad una
pressione propagandistica che non aveva eguali in altre parti del
mondo. Attraverso i mezzi di comuni-cazioni ordinari, stampa e
radio, e attraverso ta-zebao, altoparlanti nelle piazze venivano
diffusi gli slogan della rivolta; le rare librerie non chiuse dal
regime non esponevano che le opere del grande maestro. Particolare
attenzione venne data al contatto diretto con le masse. Nei luoghi
di lavoro durante le pause i lavoratori si riunivano per discutere
di politica; in queste discussioni, che nulla avevano in comune con
il dibattito come è inteso in Occidente, ogni contributo personale,
e ogni critica era rigorosamente bandita; non solo la vita sociale,
ma anche quella privata dell'individuo veniva sottoposta a
controllo, e i comportamenti ritenuti non conformi aspramente
criticati. La rivoluzione si fondava su parole d'ordine facilmente
comprensibili alle masse: "non bisogna pretendere di dare lezioni
alla masse", "bombardare il Quartiere Generale" e "occupatevi degli
affari dello stato", si trattava di affermazioni di immediato
effetto e ispirate da un fideismo senza limiti; il nostro "credo
deve essere saldo e irremovibile" ripetevano con monotonia i nuovi
rivoluzionari "il pensiero di Mao è l'incarna¬zione del
marxismo-leninismo in Cina, e il simbolo della verità"
.
La
scuola e l'insegnamento furono al centro della nuova politica,
anche le discipline strettamente tecniche non dovevano essere
neutre ma tendere all'esaltazione del pensiero di Mao. Professori,
studenti e chiunque altro emergesse in qualche modo dalle masse,
magari solo perché trovato in possesso di libri occidentali,
divenne oggetto di critiche. Anche la religione naturalmente non
poteva rimanere immune dalla rivoluzione; i templi buddisti, le
moschee, come le chiese cattoliche e protestanti, vennero chiuse e
numerosissimi membri del clero sottoposti a
"rieducazione".
Nella
fase più calda della rivoluzione ogni autorità venne messa in
discussione, e nel paese, portato in una situazione di quasi guerra
civile, si verificarono ondate di scioperi dei gruppi operai
favorevoli ad una linea più "ortodossa" del partito contro le
vessazioni delle Guardie Rosse; la protesta operaia non ebbe lunga
vita e venne repressa con particolare brutalità dalle forze che si
richiamavano al maoismo più rigoroso.
Rapidamente
come era sorto il movimento degli studenti venne riportato
all'ordine; nel gennaio del 1967 all'esercito venne affidata la
gestione delle scuole e la restaurazione della disciplina. In tutto
il paese vennero costituiti Comitati rivoluzionari formati da
rappresentanti delle Guardie Rosse, dell'esercito, ed esponenti del
partito favorevoli alla linea di Mao, il quale già dall'ottobre in
un messaggio aveva sottolineato la superiorità del ruolo delle
forze armate rispetto a quella della classe operaia, e di questa
sulle Guardie Rosse. Nel luglio del 1967 si verificarono scontri
armati nel grande centro industriale di Wuhan e nelle città di
Canton e Shangai domati solo dall'intervento dell'esercito il cui
ruolo acquistava una sempre maggiore rilevanza. Una nuova ondata di
repressioni si abbatté contro gli intellettuali e gli studenti che
in gran parte vennero inviati al lavoro agricolo più o meno coatto
in regioni remote dove non potessero costituire una minaccia per la
società; le scuole riaperte progressivamente dopo alcuni anni
vennero sottoposte alla autorità di Squadre di Controllo operaio;
al termine della rivoluzione si contarono oltre mezzo milione di
morti e circa una trentina di milioni furono i deportati.
Liu
Shao Chi e Peng Te Huai, uomini che avevano fatto la rivoluzione
del '49, e non uomini d'apparato come sostenuto dai maoisti,
vennero emarginati dal potere. Nel '68 dopo numerosi attacchi Liu
venne definitivamente deposto, e l'anno successivo troverà la morte
in seguito ai maltrattamenti subiti; 22.000 simpatizzanti del
presidente vennero arrestati e centinaia di migliaia di esponenti
del partito esiliati nelle province interne del paese.
Nell'aprile
del '69 si tenne il 9° congresso del partito che da undici anni non
veniva più riunito, l'assemblea del partito, i cui lavori vennero
in massima parte tenuti segreti, sancì la vittoria dell'esercito,
della direzione verticistica del movimento comunista, e
l'affermazione di Lin Piao. Due anni dopo però, il “Trotzsky
cinese” sparì in un misterioso incidente aereo dopo essere stato
accusato di complotto. Epilogo della rivoluzione culturale fu la
condanna dell'invasione sovietica della Cecoslovacchia ma anche
dell'esperimento riformista di Dubcek, giudicato come una
iniziativa politica revisionista. La crisi economica seguente la
rivoluzione culturale costrinse la Cina ad importare sedici milioni
di tonnellate di cereali.
I
progressi economici della Cina in venticinque anni di maoismo erano
stati notevoli nel campo dell'industria (almeno limitatamente alla
trasformazione di base), settore economico che al momento della
nascita della Repubblica Popolare risultava quasi inesistente, ma
molto deludenti nel campo agricolo, non diversamente da quanto
avvenuto in Unione Sovietica. Nel 1953 a fronte di una popolazione
di 540 milioni di abitanti la produzione cerealicola ammontava a
157 milioni di quintali, mentre nel 1973 la popolazione era
cresciuta a 800 milioni di abitanti e il raccolto garantiva 250
milioni di quintali di cereali. La produzione agricola pro capite
pertanto era rimasta quasi invariata nel corso del
ventennio.
Nel
1964 la Cina diede inizio al suo primo esperimento nucleare che non
poteva suscitare notevole emozione viste le idee dei dirigenti
cinesi riguardo ad una guerra totale; il governo di Pechino evitò
comunque di perseguire quella politica estera aggressiva che aveva
in precedenza suggerito ai dirigenti di Mosca e che era stata la
causa del contrasto cino-sovietico. Dopo l'insuccesso della crisi
di Cuba nel '62 anche la Cina preferì moderare, se non il
linguaggio che rimase aspro come sempre, la sua azione politica
reale, e la crisi dello stretto di Formosa, che aveva avuto qualche
sintomo di risveglio nel '59 e nell'estate del '62 venne
definitivamente chiusa. La politica estera cinese risultò sempre
più dominata dallo scontro con l'URSS; dopo il confronto con Mosca
sulla questione della strategia del comunismo mondiale, la contesa
negli anni successivi divenne su questioni territoriali. La Cina
riteneva che i trattati ineguali imposti nel corso dei secoli
precedenti avessero provocato la perdita di numerosi territori di
frontiera a favore dello stato russo. Secondo i principi del
comunismo, nello stato del proletariato le questioni dei confini
nazionali perdono di significato, ed il regime comunista inoltre
non riconosceva alcuna continuità con lo stato imperiale
precedente, tuttavia il governo di Pechino non intendeva rinunciare
alle pretese territoriali verso Mosca.
La
polemica nei confronti del comunismo sovietico non si è attenuata
anche con i nuovi dirigenti del Cremlino. Nel 1965 il viaggio di
Kossighin risultò totalmente infruttuoso, e nel '67 si verificò
l'assalto della ambasciata sovietica a Pechino da parte di
sostenitori del movimento delle Guardie Rosse, seguita da analoghi
tumulti a Mosca contro la rappresentanza cinese. Negli anni
successivi si verificarono diversi incidenti di frontiera, il più
grave dei quali avvenne per un minuscolo isolotto fluviale del
fiume Ussuri nel '69 che costò la vita a 23 soldati sovietici; a
questo seguirono spostamenti di truppe sovietiche verso la Mongolia
e di unità navali nel Pacifico, e quindi altri scontri con un
numero non conosciuto di morti nel Sinkiang e sul fiume Amur. Nel
'71 venne decretato in Cina lo stato d'allarme, diversi fattori
facevano ritenere possibile uno scontro su vasta scala fra le due
potenze comuniste; il governo cinese ritenendo che da un simile
conflitto avrebbe riportato conseguenze disa-strose moderò i toni
della polemica, e successivamente si impegnò per un miglioramento
delle relazioni con gli Stati Uniti.
Il
riavvicinamento con gli Stati Uniti non era da considerarsi facile,
neanche Kennedy che nel passato aveva contribuito al miglioramento
dei rapporti Est-Ovest, aveva mai mostrato disponibilità per la
Cina comunista (e nel '62 lanciò anzi un severo monito al grande
paese asiatico) né era da ritenersi facile un miglioramento rapido
negli anni successivi. La riapertura del dialogo fra le due potenze
avvenne invece in maniera abbastanza improvvisa; alla fine del '71
venne annunciato che la Cina Popolare poteva occupare il seggio
all'ONU che fino allora era stato assegnato alla Cina nazionalista,
e che nei mesi successivi si sarebbe tenuto un incontro fra Nixon e
i capi di Pechino. Nello storico incontro venne discusso il
problema di Taiwan, sul quale il governo cinese si impegnava a non
adoperare la forza contro l'isola, e gli americani ad un minore
impegno a favore del governo nazionalista, inoltre venne trattato
il problema della pace in Vietnam e delle altre questioni asiatiche
aperte, sui quali tuttavia si ebbero solo risultati parziali. Il
riavvicinamento USA-Cina destò stupore fra gli alleati filo
occidentali asiatici, come a Mosca, ma suggellò la politica più
prudente della Cina in tutto il continente negli anni successivi.
Il governo di Pechino rinunciò ad ogni disegno di imperialismo
limitando radicalmente (a parte nel 1979 un attacco contro il
Vietnam per alleggerire la pressione di questi sulla Cambogia) i
suoi interventi all'esterno. La distensione fra Cina e Stati Uniti
favorì in breve tempo anche un miglioramento dei rapporti con
il Giappone e l'Europa
Taiwan,
la roccaforte dei nazionalisti cinesi, è rimasta fino al 1988, anno
della morte del figlio di Chiang Kay Shek, un paese di frontiera.
La piccola isola (che ospita comunque una popolazione di 20 milioni
di abitanti) ha conosciuto un incredibile sviluppo economico, ma
una non facile politica interna e internazionale. Con un reddito
pro-capite di 8.000 dollari l'anno, oltre 20 volte superiore a
quello della Cina continentale, poteva aspirare ad un importante
ruolo nell'economia mondiale, ma il governo di Taipei era
riconosciuto ufficialmente solo da una ventina di piccoli stati
(opportunamente ricompensati per questo servizio) e la sua
situazione nel campo del diritto internazionale suscita notevoli
preoccupazioni.
Sul
piano interno il Kuomintang, pur rimanendo formalmente il partito
dei tre principi di Sun Yat Sen, (unificazione nazionale,
democrazia politica, democrazia economica), ha dato vita ad una
rigida dittatura, e la legge marziale proclamata all'indomani
dell'arrivo degli esuli, è rimasta in vigore per 39 anni impedendo
qualsiasi forma di dissenso. Per un lungo periodo di tempo l'isola,
che ha continuato a proclamarsi Repubblica di Cina e a chiamare il
governo di Pechino "banditi comunisti", è stata governata in
maniera dispotica dalla famiglia del dittatore; solo in tempi
recenti sono stati allontanati dl potere gli anziani capi militari
e il paese ha compiuto importanti passi in avanti nel campo della
democratizzazione e del miglioramento delle relazioni con l'altra
Cina. Il nuovo governo ha poi lanciato una proposta che potrebbe
avere incredibili risvolti; la creazione di una grande aggregazione
economica fra Taiwan, Hong Kong, la regione di Canton e di Shangai
e le altre regioni speciali cinesi ad economia liberista, che
porterebbe alla dissoluzione della Cina Popolare e alla formazione
di un importante polo economico mondiale.
LA RIPRESA DELL'ESPANSIONISMO SOVIETICO
La
prima metà degli anni Settanta fu un periodo particolarmente felice
per la distensione internazionale ma non risolutivo. I successi
ottenuti vennero sopravvalutati, e dal 1974-75 si assistette ad una
ripresa dell'espansionismo sovietico, e ad un deterioramento delle
relazioni fra Est e Ovest, anche se non si verificarono nuove sfide
dirette fra Stati Uniti e Unione Sovietica.
Il
superamento della questione tedesca, che aveva costituito la
controversia più grave fra Est e Ovest, gli Accordi di Helsinki
(che sancirono una situazione di favore all'URSS), gli accordi
commerciali a favore dell'Unione Sovietica, non portarono ad una
stabile distensione, né a soddisfare le continue pretese dei
sovietici; le minacce nel corso della guerra arabo israeliana del
1973, i mercenari cubani in Africa, lo schieramento dei missili "a
media gittata" contro l'Europa, ed infine l'invasione
dell'Afghanistan, costituirono la risposta sovietica alle proposte
di distensione, e confermarono che da parte di Mosca non vi era una
reale volontà di raggiungere un giusto accordo con l'Occidente.
L'idea di contenere le spinte imperialistiche di una nazione
accogliendo una parte delle sue richieste si confermò ancora una
volta una politica improduttiva. Gli Stati Uniti compresero tale
situazione prima dei governi europei, e nel 1974 venne approvato
l'emendamento Jackson-Vanik, con il quale lo scambio commerciale
con l'URSS veniva condizionato a una diversa politica dei diritti
umani da parte dei sovietici.
Se
si eccettua la questione del Portogallo, come nel precedente
decennio comunque i nuovi contrasti si giocarono tutti all'interno
del Terzo Mondo.
Nei
paesi del Terzo Mondo i sistemi politici pluralistici costituiscono
una minoranza, e le democrazie autentiche come sono intese in
Occidente sono praticamente inesistenti; si hanno quindi regimi che
adoperano la violenza come strumento ordinario di potere e dove non
esiste alcuna forma non solo di democrazia ma di legalità; è il
caso della Birmania, dell'Etiopia di Menghistu, della Cambogia di
Pol Pot, della Corea del Nord, dell'Irak. Un'altra categoria di
stati è quella dei regimi dittatoriali che non ricorrono a
persecuzioni di massa, ma dove il potere è concentrato in una
ristretta oligarchia e il rispetto dei diritti umani risulta
comunque molto precario, è il caso della maggior parte dei paesi
africani, infine si hanno regimi che ammettono una certa
tolle¬ranza, dove esistono istituzioni legalitarie e almeno in via
ordinaria sono rispettati i diritti umani, come nel caso dell'India
e dell'Egitto. La situazione di questi paesi ha fortemente
condizionato le scelte degli schieramenti esistenti.
Nel
1972 l'Unione Sovietica dovette rinunciare ad uno dei più
importanti alleati, l'Egitto. Dopo aver sottoscritto nel 1971
l'accordo di amicizia con i sovietici il presidente egiziano
successivamente chiese l'allontanamento dei numerosi tecnici e
consiglieri sovietici nel paese ritenendo che svolgessero una forma
d'ingerenza nella politica della nazione. Il presidente egiziano
Sadat diede quindi inizio ad una politica moderata che lo portò
successivamente al riavvicinamento con i governi occidentali e al
contrasto con i governi arabi più estremisti.
Nell'ottobre
del 1973 in occasione delle festività ebraiche dello Yom Kippur,
l'Egitto che disponeva di un esercito numericamente e
qualitativamente superiore a quello di Tel Aviv, d'accordo con la
Siria, decise l'attacco delle truppe israeliane nel Sinai. L'azione
militare secondo le concezioni egiziane aveva come fine non la
distruzione di Israele, ma la ripresa di quei territori perduti nel
conflitto del '67. L'attacco ebbe un certo successo, ma non
dispo-nendo di una potente aviazione gli egiziani dovettero
limitarsi a riconquistare quella fascia di territorio che poteva
essere protetta dalle batterie missilistiche antiaeree a terra. Nei
giorni successivi Israele completava la mobilitazione dei
riservisti, riuscì a contenere l'avanzata e a riprendere
l'iniziativa. Il 10 ottobre l'Unione Sovietica iniziò a rifornire i
paesi arabi di materiale bellico, e sei giorni dopo anche gli
americani adottarono le stesse misure nei confronti di Israele,
mentre i paesi dell'OPEC decisero alcuni provvedimenti (raddoppio
del prezzo del petrolio e riduzione delle forniture a quei paesi
europei che sostenevano Israele) al fine di costringere gli
occidentali a rinunciare alle proprie posizioni, peraltro molto
moderate.
La
guerra dello Yom Kippur costituì un tipo di guerra caratterizzata
da numerosi vincoli di natura politica. L'attacco siriano condotto
con forze soverchianti improvvisamente cessò quando si avvicinò
agli insediamenti ebraici, così come il contrattacco israeliano
successivo venne bloccato quando era giunto alle porte di Damasco e
sul fronte egiziano in prossimità delle grandi città arabe. Si
trattava di una guerra che aveva un preciso corrispon-dente nel
campo dei rapporti diplomatici USA-URSS; la partita doveva essere
limitata ad un campo ristretto e nessuno dei contendenti poteva
portare a termine un colpo mortale per l'avversario.
Sebbene
le grandi potenze avessero mantenuto un atteggiamento molto
prudente, il 24 ottobre l'Unione Sovietica annunciò che avrebbe
assunto iniziative più decise e che "...qualora non si riesca ad
operare congiuntamente su questa faccenda, [è Breznev che parla] mi
sentirò autorizzato a prendere iniziative unilaterali"
successivamente si venne a sapere che 7 divisioni aviotrasportate
russe erano pronte per un intervento, mentre la 6° Flotta americana
e il sistema di difesa nucleare era stato messo in stato d'allarme
da Nixon, il quale fece sapere che "qualsiasi azione unilaterale da
voi presa sarebbe per noi della massima gravità e foriera di
imprevedibili conseguenze" ; l'episodio risultava significativo,
anche in pieno periodo di distensione i numerosi appelli alla pace
e alla moderazione potevano essere da un momento all'altro essere
superati come nei periodi peggiori della guerra
fredda.
Le
conseguenze della quarta guerra araboisraeliana vennero abbastanza
rapida¬mente superate, l'Egitto si avvicinò sempre più alle
posizioni americane e a quelle dei paesi arabi moderati e nel '74
si poté giungere alla riapertura dell'importante via d'acqua del
Canale di Suez, e all'avvio di colloqui di pace dai quali venne
sostanzialmente estromessa l'Unione Sovietica.
Negli
stessi anni veniva a crearsi un nuovo focolaio di crisi in Libano,
le cui vicende si presenteranno in larga parte influenzate dagli
avvenimenti più generali del Medio Oriente. Il piccolo e florido
stato arabo era la sede di numerose attività commerciali e
finanziarie che avevano fatto del paese la Svizzera della regione
mediorientale, ma la notevole eterogeneità di gruppi e di
confessioni religiose, cristiani maroniti, greco ortodossi,
mussulmani sunniti, sciiti e drusi non consentirono la stabilità
del paese. La situazione già precaria, venne ad aggravarsi quando i
profughi palestinesi cacciati dalla Giordania si rifugiarono in
massa nel sud del paese costituendo una sorta di stato
autonomo.
Nel
1975 iniziò il conflitto fra mussulmani e cristiani, conseguente
agli scontri fra esercito e palestinesi, che in breve tempo
degenerò in una guerra caotica con numerose fazioni indipendenti e
altrettanti capovolgimenti di fronte. Oltre ai liberali nazionali
di Chamoun, ai falangisti di Pierre Gemayel, ai socialisti drusi di
Jumblatt, non mancavano formazioni delle più singolari come i
nazionalsocialisti del PPS legati al governo siriano. Nell'anno
successivo si ebbe l'intervento in veste di moderatore
dell’esercito di Damasco che si insediò stabilmente nella Valle
della Bekaa e in altre parti del territorio, con l'eccezione della
zona meridionale, nel timore di uno scontro diretto con Israele. I
siriani dapprima combatterono i palestinesi e altre formazioni
mussulmane, poi quelle cristiano maronite con violenza, provocando
una protesta internazionale. Nel 1978 il sud del Libano venne
invaso dalle truppe israeliane; l'intervento non poté impedire il
ritiro dei guerriglieri dell'OLP a nord con pochis¬sime perdite, ma
l'esercito di Tel Aviv riuscì a creare comunque nella regione una
milizia cristiana in funzione antipale¬stinese. In base ad una
risoluzione dell'ONU venne creata una forza di pace in quella
regione; il governo israeliano accettò di ritirare le proprie
truppe, ma i caschi blu furono del tutto impotenti a garantire la
pace nella regione e gli attacchi dei commandos palestinesi
ripresero seguiti dalle rappresaglie israeliane.
Nel
1982 si ebbe un nuovo intervento israeliano in Libano che si spinse
questa volta fino ai sobborghi di Beirut, nel corso del quale le
truppe israeliane assestarono durissimi colpi alle forze siriane.
Nel medesimo tempo si ebbero due importanti iniziative, la
creazione di una forza di pace formata da Stati Uniti, Gran
Bretagna, Francia e Italia, incaricata dell'evacuazione dei
combattenti palestinesi, e un tentativo di pacificazione da parte
degli stessi paesi che ebbe però scarso esito. Nel martoriato paese
si ebbero gravissimi atti di violenza; un attacco con autobombe di
un commando hezbollah suicida che provocò la morte di 240 marines
americani, seguito da un analoga azione nella quale perirono 58
soldati francesi, e da un grave eccidio compiuto da milizie
cristiane nei campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila. Si
ebbe la costituzione di un governo fra le fazioni non estremiste e
realmente rappresentative del paese, ma il Libano non poté comunque
avviarsi al ritorno della legalità a causa soprattutto
dell'affermarsi dei movimenti fondamentalisti sciiti in contrasto
con i palestinesi. Nel 1989 vennero sottoscritti gli accordi di
Taif che riconoscevano l'egemonia siriana nel paese; tale
situazione ottenne l'avvallo internazionale, confermato, una volta
eliminate le milizie cristiane filo irakene di Michel Aoun, dalla
partecipazione siriana alla guerra del Golfo. Attraverso l'alleato
siriano l'Unione Sovietica riportò un successo nella regione senza
mai doversi impegnare in prima persona.
Dopo
gli accordi sulla Germania del '70-'73 la situazione dell'Europa
settentrionale e centrale risultava stabilizzata e acquistava
importanza il fianco sud della NATO, il Mediterraneo, che garantiva
l'accesso alle materie prime e al petrolio del Medio Oriente. Il
biennio 1974-75 fu molto importante per i paesi dell'Europa
meridionale dove si ebbe la caduta di tre governi totalitari, dei
quali quello spagnolo e portoghese costituivano i regimi di
maggiore durata del secolo.
Il
Portogallo aveva conosciuto un lungo periodo di dittatura che aveva
mantenuto il paese in uno stato di arretratezza, con un elevato
tasso di analfabetismo fra la popolazione, aggravato dalla
particolare situazione economica del paese. Circa il 40% del
bilancio dello stato infatti era destinato al mantenimento di un
sistema coloniale iniquo e anacronistico, che aveva creato gravi
scompensi nel paese.
In
questa situazione si ebbe nel 1974 una insurrezione militare che
senza difficoltà riuscì ad estromettere dal potere il dittatore
Caetano, successore di Salazar, e ad instaurare una giunta militare
al potere, ma non a creare le condizioni per una democrazia e per
il ristabilimento della legalità. Il generale Spinola, l'esponente
di maggiore rilievo degli insorti e capo provvisorio dello stato,
venne allontanato dal potere, mentre a capo del governo venne posto
il colonnello Vasco Goncalves di tendenze comuniste;
contemporaneamente nel paese si moltiplicavano le interferenze
della giunta militare nella vita politica del paese e le minacce
contro l'opposizione e la stampa. Il timore di una nuova dittatura
era aggravato dall'orientamento politico del partito comunista di
Cunhal contrario all'eurocomunismo e vicino alle posizioni di
Mosca, con la quale vi erano stati contatti riguardo in particolare
la concessione di una base navale a Madera. Nell'elezioni dell'anno
successivo, alle quali non vennero ammessi i partiti "borghesi", i
socialisti e i socialdemocratici riportarono il 64%, mentre i
comunisti non ebbero più del 13%. Seguirono rivolte anticomuniste a
carattere locale, e un nuovo tentativo insurrezionale da parte di
comandanti militari filo comunisti, fallito per l'opposizione del
presidente Eanes. Nelle nuove elezioni indette nel 1976 vennero
confermati i risultati precedenti, e il paese si avviò alla
normalità con l'aiuto economico da parte degli altri paesi
europei.
I
fatti del Portogallo ebbero un vasto rilievo in Europa (non minore
dei fatti cileni di alcuni anni prima); anche nei paesi occidentali
erano presenti forze comuniste che intendevano gestire il potere
ignorando la volontà popolare, e con atti di forza non diversi da
quelli cecoslovacchi del '48; il tentativo autoritario mise in
difficoltà coloro che parlavano di eurocomunismo e di “terza via”
come conciliazione fra sistemi politici occidentali e
socialisti.
Nello
stesso anno dell'insurrezione militare che metteva fine alla
dittatura portoghese, la giunta militare al governo in Grecia dal
1966 di fronte al fallimento della questione cipriota era costretta
a cedere il potere, e nel 1975 alla morte del generalissimo Franco,
in Spagna ritornava sul trono il re Juan Carlos, che con
intelligenza ed equilibrio portava il paese alla
democrazia.
Intorno
alla metà degli anni Settanta i sovietici preso atto della
defezione di alcuni alleati come l'Egitto, l'Indonesia, l'Algeria,
il Ghana e la stessa Cina, ritennero quindi che la politica di
amicizia iniziata da Kruscev con regimi non strettamente comunisti
non avrebbe portato a risultati produttivi, e diedero inizio ad una
politica estera più aggressiva, che culminò nell'utilizzo dei
mercenari cubani nel continente africano e nell'intervento diretto
in Afghanistan. L'Africa centro australe e orientale divenne in
particolare il territorio dove Mosca puntò le sue attenzioni, e
dove per un certo periodo fu in grado di porre dei potenziali
ostacoli al traffico marittimo lungo il Mar Rosso.
L'Etiopia
costituiva uno dei paesi africani più arretrati nonostante alcune
iniziative costituzionali tese a democratizzare (almeno
formalmente) la vita politica del paese. La guida politica dello
stato spettava in forma esclusiva all'imperatore, massima figura
della chiesa copta e vertice della struttura feudale che di fatto
esercitava il potere. Nel 1960 il governo di Adis Abeba decise
unilateralmente l'annessione dell'Eritrea, paese mussulmano al
quale era legato da un patto di federazione, iniziativa che provocò
il sorgere di un attivo movimento di guerriglia sostenuto dai paesi
arabi.
In
seguito a diverse agitazioni, anche all'interno della corte
imperiale, e al verificarsi di una grave carestia nel paese, si
ebbe nel 1974 una sollevazione militare di giovani ufficiali che
destituì il governo e successivamente anche lo stesso imperatore.
Nei mesi successivi iniziarono una serie di contrasti e violenze
all'interno dei vertici militari nel corso dei quali il capo del
governo, il generale eritreo Aman Andom, filo occidentale, venne
passato per le armi insieme ad una sessantina di alte personalità
dello stato.
Nell'anno
successivo morì in circostanze misteriose il deposto imperatore e
venne dato l'avvio alla collettivizzazione forzata della terra che
provocò rivolte cruente in tutto il paese. Nel 1977 infine, un
nuovo colpo di stato militare portava al potere il colonnello
Menghistu, e dava luogo ad una vasta e sanguinosa repressione
contro gli oppositori e le tribù ritenute ostili, che si concludeva
con numerose migliaia di morti e un milione e mezzo di profughi.
Uno dei primi atti del nuovo regime fu di assicurarsi l'appoggio
dell'Unione Sovietica che si rivelò particolarmente ampio; il
governo di Mosca provvide all'invio di materiale bellico per due
miliardi di dollari, 20.000 mercenari cubani per la repressione dei
movimenti indipendentistici e 3.000 tecnici sovietici e tedesco
orientali. Negli stessi anni si intensificava nonostante l'opera di
repressione del governo, la guerriglia in Eritrea sottoposta a
sfruttamento da parte del governo centrale (con occupazioni di
terre da parte dei vicini gruppi etnici) e nell'Ogaden, una vasta
regione semi desertica, abitata da popolazioni somale.
Il
sostegno sovietico al regime etiopico modificò notevolmente gli
equilibri della intera regione africana. La Somalia, dove dal 1969
era al potere un gruppo di militari che aveva dato vita, sotto la
guida di Siad Barre, ad uno stato socialista fortemente autoritario
denunciò gli accordi economici e la concessione di basi militari
all'URSS. Anche il Fronte di Liberazione Eritreo e il Fronte
Popolare di Liberazione Eritreo di tendenze marxiste, che avevano
condotto un'efficace azione di guerriglia contro l'esercito
etiopico, ruppero i rapporti con Mosca e ripresero i contatti col
mondo occidentale.
Nel
1977-78 il contrasto sull'Ogaden degenerò in conflitto aperto fra
Etiopia e Somalia; a causa del sempre maggiore apporto militare
straniero al regime etiopico il conflitto si concluse a favore del
governo di Adis Abeba, ma negli anni successivi il paese comunista
ha conosciuto altre difficoltà. Nel 1984 e nel 1987 due terribili
carestie hanno sconvolto il paese e provocato la morte di oltre due
milioni di persone. Nello stesso tempo venne a mancare l'appoggio
sovietico, e l'estendersi della rivolta al Tigrai, all'Oromo, e ad
altri gruppi contrari alla dittatura, provocarono la caduta del
regime di Menghistu che la tardiva disponibilità ai negoziati non
poté impedire.
Negli
stessi anni la caduta della dittatura in Portogallo ebbe un'altra
importante conseguenza con l'avvento di nuove forze politiche nel
continente africano. La storia delle due principali e sfortunate ex
colonie portoghesi, Angola e Mozambico, è abbastanza simile sebbene
la prima disponesse di ricchezze naturali nettamente superiori e
fosse presente una più numerosa comunità bianca. Anche nelle
vicende dell'Africa australe di quegli anni fu determinante
l'intervento sovietico; fra il '76 e l'80 l'URSS inviò in Africa
australe armi per 4 miliardi di dollari, 10 volte superiore al
quantitativo americano.
In
Angola il movimento di liberazione si presentava diviso in tre
fazioni, l'MPLA di Agostino Neto di tendenze marxiste, l'FNLA di
Holden Roberto legato al governo dello Zaire, e l'UNITA di Savimbi
che nel corso degli anni ha assunto connotazioni politiche diverse.
Raggiunta l'indipendenza nel 1975 si costituì un governo di
coalizione che ebbe vita brevissima e al quale seguirono
immediatamente duri combattimenti nel paese. L'Organizzazione per
l'Unità Africana non raggiunse alcuna posizione sulla disputa e sul
governo a cui dare riconoscimento, e l'MPLA forte del sostegno di
10.000 mercenari cubani e di tecnici sovietici e tedesco orientali,
poté avere la meglio sulle altre componenti. Il Congresso degli
Stati Uniti impedì lo stanziamento di fondi a favore dell'UNITA
(l'FNLA aveva perso progressivamente di consistenza) e pertanto il
blocco sovietico riportava una facile vittoria. Tuttavia la
guerriglia antigovernativa continuava endemica, soprattutto nelle
più povere regioni interne, e in diverse occasioni truppe
sudafricane fecero ingresso nel paese per distruggere le basi della
SWAPO, l'organizzazione indipendentistica della Namibia. Nel 1977
un tentativo di colpo di stato da parte dell'ala moderata dell'MPLA
venne duramente represso, e nell'anno successivo il governo di
Luanda organizzò la penetrazione di guerriglieri nel vicino Shaba
(ex Katanga), la principale regione diamantifera dello
Zaire.
Successivamente,
con il ritiro dei sovietici il regime si è collocato su posizioni
meno radicali, ha avviato contatti con i governi occidentali e
dimostrato disponibilità al negoziato con le forze di
opposizione.
Le
vicende del Mozambico sono risultate fortemente legate a quelle
nella vicina Rhodesia-Zimbabwe. Raggiunta l'indipendenza nel 1975
sotto la guida dell'organizzazione indipendentista del FRELIMO, il
paese strinse legami intensi con il blocco sovietico dal quale
ricevette aiuti economici e militari oltre all'invio di un
contingente di mercenari cubani, che tuttavia non consentì di
raggiungere la stabilità politica. Il governo bianco di Salisbury
accusò il governo di Maputo di sostenere la guerriglia del
movimento di liberazione dello Zimbabwe, il quale a sua volta ha
accusato il primo per lo sconfinamento di truppe rhodesiane e per
il sostegno ai guerriglieri della RENAMO. Caduto il governo
segregazionista rhodesiano, l'opposizione armata al governo
marxista del Mozambico ha potuto continuare grazie all'appoggio del
Sudafrica. Come per l'altra ex colonia portoghese, il diverso
atteggiamento dei sovietici negli anni successivi, e la conclusione
della guerra fredda, ha favorito una soluzione pacifica, e nel 1992
il FRELIMO e la RENAMO hanno concluso un accordo di
pacificazione.
Anche
nel vicino Sud Africa l'Unione Sovietica fece sentire la sua
presenza; Mosca sostenne per un certo periodo di tempo l'African
National Congress, ma al tempo stesso mantenne legami segreti con
Pretoria, nonostante la condanna del governo razzista, per il
mantenimento di prezzi alti dell'oro e di altri minerali di cui i
due paesi erano i massimi produttori mondiali.
In
Rhodesia, dove hanno operato nel passato movimenti guerriglieri
filo sovietici e filo cinesi, sotto la pressione di Gran Bretagna,
Stati Uniti e di tutta la comunità internaziona-le, il governo
bianco ha dovuto accettare nel 1979 un accordo per il passaggio dei
poteri alla maggioranza nera. Nonostante alcune affermazioni di
marxismo-leninismo il nuovo governo di Mugabe, ha evitato qualsiasi
eccesso all'interno e contrasti a livello internazionale. Anche
paesi come lo Zambia, la Tanzania, e il Madagascar che si sono date
istituzioni socialiste, di fatto hanno mantenuto un atteggiamento
molto prudente in tutte le vicende del continente africano e hanno
evitato di essere coinvolti nei contrasti Est-Ovest. Un'altra crisi
si apriva nel 1976 con il ritiro della Spagna dalla regione
desertica del Sahara Occidentale; alla contesa prendeva parte il
Fronte del Polisario di una non bene identificata popolazione
locale (per il governo marocchino inesistente), a cui il governo
algerino e l'Unione Sovietica prestava aiuto; negli anni successivi
il governo di Rabat otteneva la meglio non senza il ricorso a
dispendiose attività militari.
La
Guinea Bissau e le isole di Capo Verde hanno invece conosciuto una
evoluzione relativamente più pacifica. Il movimento per
l'indipendenza della Guinea e delle isole capoverdiane del leader
non estremista Amilcar Cabral (morto un anno prima della
liberazione) ottenne nel '75 il ritiro dei portoghesi, ma l'unione
dei due territori non risultava gradito ad una parte dei guineani.
Nel 1980 la Guinea Bissau attraversava una nuova rivolta che
portava il paese a stringere legami economici maggiori con il campo
socialista, senza tuttavia entrare a far parte del blocco
sovietico.
Il
1975, con la creazione di un regime marxista in Portogallo, il
conflitto greco-turco per Cipro, la penetrazione del comunismo in
Africa e il crollo dell'Indocina, fu un anno particolarmente
difficile per la coalizione occidentale.
Gli
accordi di Parigi sul Vietnam del 1973 vennero rispettati solo per
la parte che prevedeva il ritiro del contingente americano, nelle
altre parti gli impegni rimanevano senza seguito, ed il governo di
Hanoi in particolare, procedeva ad un forte riarmo del suo
esercito. Nel 1975 l'esercito regolare del Vietnam del Nord diede
inizio ad un attacco massiccio contro Saigon; l'esercito sud
vietnamita oppose una certa resistenza ma a causa di gravi problemi
di approvvigionamento di carburante e di fronte all'atteggiamento
passivo degli Stati Uniti le unità iniziarono a sbandarsi e
ritirarsi disordinatamente fra masse di profughi che cercavano di
sfuggire all'invasione. Nell'aprile le truppe comuniste
potentemente armate fecero il loro ingresso nella capitale sud
vietnamita fra la diffidenza e la paura della popolazione, che in
gran numero abbandonarono il paese.
Contemporaneamente
i Khmer Rossi ebbero la meglio sul generale Lon Nol e penetrarono a
Pnom Penh dove instaurarono un governo filo cinese dal quale venne
però escluso il principe Sihanouk, mentre nel Laos il Pathet Lao
assunse il pieno potere, favorito dalla presenza delle truppe nord
vietnamite che in anni anche successivi alla fine delle ostilità
mantennero la loro presenza nel paese. Il periodo successivo alla
conclusione della guerra rappresentò un periodo terribile per
l'intera regione, dopo le elezioni farsa del 1976 le regioni
dell'ex Vietnam del Sud, conobbero il dominio del nord la,
collettivizzazione forzata delle terre e la repressione della
minoranza cinese degli Hoa. Il paese negli anni successivi si trovò
in condizioni economiche peggiori rispetto agli anni di guerra
(nell'86-'87 il paese fu colpito da una grave carestia che ha
interessato tre milioni di persone) e almeno due milioni di
persone, i cosiddetti Boat Peoples, hanno abbandonato il paese
disperatamente su precarie imbarcazioni. Nel Laos pure la miseria e
i metodi forzati di "rieducazione" hanno portato ad un esodo
massiccio della popolazione (300.000 persone pari al 10% della
popolazione hanno lasciato il paese negli anni successivi alla
guerra) e ad una non completa pacificazione.
Ancora
più tragica risultò la situazione in Cambogia con deportazioni in
massa dalle aree urbane, creazioni di grandi campi di
concentramento e l'eliminazione fisica nei campi della morte di
alcuni milioni di esseri umani, oppositori reali o presunti (si
trattava molte volte di persone che avevano studiato o conoscevano
le lingue straniere) utilizzando spesso ragazzini rimasti orfani
per spiare coloro che ritenevano sospetti. Una situazione che fece
dire al giornalista Tiziano Terzani "La Cambogia di oggi è al di là
della frontiera umana dell'orrore" .
Nel
1978 l'esercito di Hanoi invase la Cambogia per imporre un governo
di propria fi-ducia che venne duramente denunciato da Sihanouk
davanti all'assemblea dell'ONU. La Cina Popolare per proteggere il
suo alleato nel febbraio dell'anno successivo lanciò un attacco ai
confini nord del Vietnam, che ebbe un parziale successo ma dovette
essere fermato per timore di una reazione sovietica. Il duplice
conflitto destò stupore in una parte della sinistra, che riteneva
uno scontro fra nazioni socialiste in contrasto con i principi
marxisti.
Negli
anni successivi il controllo dello stato sulla società e
l'economia, in larga parte destinata alle spese militari, portò ad
un peggioramento delle condizioni del Vietnam che dovette ritirarsi
dalla Cambogia. Nel 1986 il grande leader Le Duc Tho venne
allontanato dal potere e successivamente il paese conobbe un
migliore destino. In anni recenti lo stato asiatico infine ha
conosciuto una svolta radicale con l'introduzione dell'economia di
mercato.
Nella
stessa regione si ebbe nel 1986 la crisi delle Filippine che se di
per sé non costituì una vicenda della guerra fredda, trattandosi di
un paese stabilmente inserito nell'alleanza occidentale, ebbe un
certo peso nelle vicende di quella regione e scosse l'opinione
pubblica mondiale. Nel 1965 salì al potere Ferdinando Marcos con un
programma progressista di riforma agraria e lotta alla corruzione.
Una volta stabilitosi saldamente al potere il presidente e sua
moglie Imelda diedero l'avvio ad un governo fortemente dispotico e
ad una opera di sistematica spoliazione delle riserve della banca
centrale. Nel corso degli anni i due coniugi sottrassero alle casse
dello stato dai 10 ai 40 miliardi di dollari in parte trasferiti su
conti in banche svizzere e in parte destinati per un lusso sfrenato
con pochi precedenti nella storia recente.
Nel
1986 la forte opposizione nel paese, nonostante gli imbrogli
elettorali del governo, diede vita con l'appoggio della Chiesa
Cattolica e del governo degli Stati Uniti, ad una rivolta popolare
che portò al potere la Corazon Aquino, vedova di un illustre
oppositore al regime. La nuova leader riportò il paese verso la
democrazia, tuttavia tale politica non ha impedito la prosecuzione
della guerriglia islamica e marxista nel paese, condotta da
movimenti contrari ad ogni forma di negoziato.
I
fatti dell'Indocina fra il '75 e il '76, portarono alla definitiva
caduta dei miti terzo-mondisti nei paesi occidentali, già scossi
dai deludenti risultati della rivoluzione culturale cinese e
dell'involuzione della rivoluzione castrista a Cuba.
Nel
1977 l'Unione Sovietica dispiegò nelle sue regioni occidentali e
centrali un elevato numero di missili in grado di trasportare da 1
a 3 testate da 150 a 300 chilotoni con gittata compresa fra i 2.000
e i 5.000 chilometri, capaci quindi di colpire tutti i paesi
dell'Europa occidentale . Alcuni anni più tardi l'Unione Sovietica
era arrivata a disporre di 243 SS-20 puntati contro l'Europa
(collocati al di fuori della portata dei missili da teatro
americani) e 107 contro la Cina, oltre a 231 fra i più vetusti SS-4
e SS-5. La reazione della NATO fu piuttosto lenta, solo due anni
più tardi i governi di Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e
Germania Federale su iniziativa del cancelliere tedesco, il
socialdemocratico Schmidt, (ma anche dei laburisti inglesi, almeno
in un primo momento favorevoli a contromisure militari) stabilirono
l'installazione di missili da teatro in Europa e l'apertura di
colloqui con i sovietici. Cruise e Pershing 2 risultavano inferiori
ai corrispondenti SS-20 per alcune caratteristiche (gittata
compresa fra i 1.800 e i 2.500 chilometri con unica testata di 200
chilotoni) ma superiori per livello qualitativo. Il Pershing 2 in
particolare venne considerato un'arma estremamente temibile dai
sovietici, non per le sue capacità distruttive, ma per il fatto di
disporre di un sistema di navigazione ed anti-intercettamento
contro il quale non esisteva difesa. I missili in questione erano
di gran lunga inferiori ai grandi missili intercontinentali (le cui
testate nucleari facilmente raggiungono i 50-100 megaton) e sono
destinati a distruggere non gli agglomerati urbani dell'avversario
ma le più importanti infrastrutture, aeroporti, centri radar,
comandi militari. In pratica consentivano, grazie alla loro
precisione, di eliminare la potenza bellica del nemico con
distruzioni umane più limitate. La collocazione dei missili
SS-20, formalmente non in contrasto con gli accordi SALT, faceva
ritenere che l'URSS volesse ottenere la superiorità negli armamenti
e anche senza il ricorso ad una guerra far sentire il peso del suo
potenziale bellico.
Negli
incontri a Ginevra i sovietici si dichiararono disposti a
sospendere lo schieramento dei propri missili se la NATO avesse
deciso di non dare seguito alla proposta di dispiegamento dei
propri, in pratica mantenendo lo status quo favorevole al Patto di
Varsavia. I rappresentanti della NATO si pronunciarono per la
cosiddetta "opzione zero": smantellamento (e non semplice
arretramento) dei missili a media gittata sovietici contro il non
dispiegamento dei propri, proposta che non incontrò il favore
dell'URSS. Sorsero ulteriori problemi, durante i negoziati su altri
aspetti, se il conteggio dovesse essere per testate o per vettore e
se dovessero essere inclusi gli arsenali "esclusivi" francese e
britannico, i negoziati in ogni caso si dimostrarono
inconcludenti.
Il
riarmo dell'Occidente ha trovato un'ulteriore ragione nella grande
massa di mezzi corazzati e di uomini che l'URSS ha concentrato sui
confini occidentali del proprio impero, che ha costituito una
pesante spada di damocle sulla testa dell'Europa. Il Patto di
Varsavia disponeva di 53.000 carri armati, 51.000 mezzi blindati,
11.500 aerei da combattimento, contro i quali la NATO era in grado
di schierare 17.000 carri armati, 42.000 mezzi blindati e 9.000
aerei da combattimento. Anche sul piano della guerra delle spie,
l'Unione Sovietica si presentava notevolmente in vantaggio rispetto
agli occidentali, il KGB coi suoi 500.000 agenti e 200.000 guardie
di frontiera e una rete di oltre mezzo milione di informatori,
secondo le rivelazioni della ex spia sovietica Oleg Gordievskij,
era notevolmente superiore a qualsiasi altro servizio segreto e in
grado di mettere a punto numerosi successi, mentre gli unici
risultati positivi degli occidentali furono quelli ottenuti dalla
fuga di funzionari sovietici nel campo occidentale; la CIA nel
corso degli anni, ha infatti fallito nel sostegno all'azione dei
cubani alla Baia dei Porci, non ha previsto l'attacco cinese in
Corea nel '53, l'offensiva del Thet, la guerra del Golfo, né il
colpo di stato conservatore comunista in Russia del
1991.
Nel
corso degli anni Settanta l'Unione Sovietica spese in armamenti 240
miliardi di dollari in più degli Stati Uniti e secondo il generale
Haig Mosca aveva raggiunto una posizione di superiorità non solo
quantitativa ma anche qualitativa nel campo degli armamenti
nucleari e nel campo dei MIRV in particolare. Per sopperire al
divario di forze creatosi, nel 1981 Reagan decise l'aumento del
bilancio della difesa del 10% (che negli anni di Carter era stato
ridotto), la produzione della bomba N, arma tattica nucleare con
limitato rilascio di materiale radioattivo, in grado di distruggere
grandi concentrazioni di eserciti e la produzione del missile MX,
con 10 testate nucleari trasportabile su speciali automezzi e
quindi meno vulnerabile dei missili con base fissa.
Nel
1983 iniziò quindi l'installazione in Gran Bretagna, Germania, e
Italia, (Belgio e Olanda opposero un certo numero di obiezioni)
degli euromissili il cui eventuale utilizzo doveva essere
concordato fra USA e paese ospitante. In seguito a questa decisione
Mosca decise l'interruzione dei negoziati di Ginevra.
i
movimenti pacifisti europei si mobilitarono contro l'iniziativa
NATO ma ignorarono il fatto che non si poteva avere una fiducia
illimitata nei negoziati. I paesi comunisti nel corso degli anni
avevano sottoscritto e non rispettato i più importanti accordi
internazionali, dalla Dichiarazione sull'Europa liberata, ai
principi espressi alla conferenza di Bandung (nel caso della Cina),
al più recente Atto finale di Helsinki, e pertanto gli occidentali
non potevano rinunciare ad una qualche forma di
deterrente.
Nel
1978 si aveva una nota positiva nel martoriato Medio Oriente con la
conclusione di un importante accordo di pace. L'Egitto, il paese
più progredito socialmente e cultural-mente nel mondo arabo fece
sua quella politica di pace e di tolleranza che lo pose in
contrasto con le altre nazioni arabe. Con la rottura del trattato
di amicizia con l'Unione Sovietica e lo storico viaggio a
Gerusalemme nel 1977, che mise in luce le qualità politiche del
grande ma non amato statista egiziano, Sadat, vennero poste le basi
per una diversa situazione nella regione. L'incontro accelerò quel
processo di pace che si concluse l'anno successivo in America. Gli
accordi di Camp David, "Schema di pace per il Medio Oriente" e
"Schema di pace fra Egitto e Israele", realizzati con la mediazione
del presidente americano Carter, prevedevano il ritiro di Israele
dal Sinai e l'autogoverno palestinese (anche se non espressamente
la sovranità), e costituirono un punto a sfavore dell'Unione
Sovietica, che si vedeva esclusa dai negoziati.
Gli
accordi di pace vennero confermati nel paese arabo in un
referendum, ma ciò non impedì lo scoppio di proteste interne e
l'isolamento dello stato egiziano da parte degli altri stati arabi.
Nel 1981 il presidente Sadat, Premio Nobel per la pace nel 1978,
venne assassinato da esponenti del gruppo religioso integralista
Fratelli Mussulmani, tuttavia l'assassinio non impedì la
prosecuzione della nuova politica egiziana.
Il
clima della guerra fredda conosceva un nuovo impulso quando apparse
un nuovo "incomodo" sulla scena internazionale, il fondamentalismo
islamico, che insieme alla politica dei regimi estremistici arabi
esistenti (libico e siriano soprattutto) costituiva una miscela
esplosiva in una delle zone più calde del globo. Dopo il
nazionalismo laico e socialista degli anni Cinquanta e Sessanta,
che ebbe in Nasser il massimo esponente, e il radicalismo del
regime di Gheddafi, si diffuse fra le masse più incolte arabe e
mussulmane un ritorno alla più rigorosa legge islamica. Il
fondamentalismo islamico ha dato vita a movimenti politici e gruppi
terroristi, a grandi manifestazioni popolari coinvolgenti i ceti
più miseri della società, ma non è riuscita a conquistare la
borghesia e il ceto intellettuale in genere, e pertanto con misure
diverse (anche non democratiche) i regimi "laicisti" hanno
dimostrato di reggere all'urto. Nel campo della politica
internazionale il fondamentalismo si dichiarava nemico giurato del
capitalismo e del comunismo; la massima autorità del
fondamentalismo sciita l'ayatollah Khomeini nel 1989 lasciava un
testamento spirituale nel quale si affermava che l'Iran doveva
"restare saldo e compatto sul sentiero tracciato da Dio senza
confondersi né con l'Oriente ateo né con l'Occidente tirannico e
blasfemo" , per una serie di circostanze tuttavia, l'Occidente ha
costituito il principale obbiettivo delle invettive e degli
attacchi degli estremisti.
L'esordio
del fondamentalismo si ebbe in un paese mussulmano sciita ma non
arabo, l'Iran, sottoposto ad una singolare opera di modernizzazione
condotta in forma autoritaria dal sovrano. Dal 1963 erano state
prese alcune importanti iniziative di rinnovamen-to dello stato e
della società che ricordavano in parte l'opera precedente di
Ataturk in Turchia. Lo Scià promosse una riforma agraria che favorì
lo sviluppo dell'economia (con un tasso di sviluppo del 12% annuo
secondo le fonti ufficiali) e un incremento senza precedenti della
scolariz¬zazione (fra il 1954 e il 1970 la popolazione studentesca
aumentò da 4 a 8 volte) ma al tempo stesso diede vita ad un sistema
autoritario attraverso una potente polizia segreta.
L'autoritarismo, il laicismo di stato e le non celate simpatie per
gli Stati Uniti, furono all'origine delle grandi proteste degli
anni successivi in cui si coalizzò la protesta studentesca
democratica e quella delle gerarchie islamiche.
Nel
1978 si ebbero una serie di grandi manifestazioni e scioperi (anche
nel settore petrolifero) che misero in difficoltà l'economia del
paese e culminarono nel settembre in una grande manifestazione a
Teheran che si concluse con un migliaio di morti. Nel gennaio
dell'anno successivo lo scià Reza Pahlavi abbandonò il paese, e con
il rientro del grande capo spirituale Khomeini si formò un governo
civile presieduto da esponenti democratici di sinistra, ed un
consiglio islamico, che attraverso il terrore prese immediatamente
il soprav-vento. Vennero nazionalizzate le banche e le principali
attività economiche, dato vita ad una serie di processi sommari con
centinaia di esecuzioni e imposti dei rigidi costumi in ogni
aspetto della vita sociale del paese fondati sulla legge coranica e
lo stato di subordinazione della donna.
I
primi atti del nuovo governo iraniano furono la repressione
sanguinosa dei Curdi e il sequestro del personale diplomatico USA,
una cinquantina di persone, con un atto senza precedenti che
declassificava il paese dal consesso delle nazioni civili. La
azione ebbe un notevole risvolto interno con grandi manifestazioni
antiamericane che misero in difficoltà il primo ministro Bazargan
favorevole alla trattativa. Il presidente americano Carter decise
come ritorsione la sospensione delle importazioni petrolifere e il
sequestro dei beni iraniani all'estero ma senza esito.
Successivamente si ebbe un tentativo di liberazione degli ostaggi
con l'uso della forza fallito forse anche per il contributo dei
servizi informativi sovietici, ma la controversia si chiuse solo
dopo un anno con il rilascio dei sequestrati a seguito di un
negoziato. L'opposizione al governo degli ayatollah comunque
continuò anche in seguito attraverso varie organizzazioni anche a
carattere politico-militare come il movimento dei
mujaiddhin.
Nel
settembre del 1980 ebbe inizio la sanguinosa guerra fra Iran e
Irak, durata otto anni, che costò la vita a oltre un milione di
uomini. Il governo nazionalista di Saddam Hussein, che nel '79
aveva realizzato una massiccia opera di repressione contro i
comunisti, riteneva, approfittando della situazione di difficoltà
dell'avversario di poter strappare ad esso la ricca regione dello
Shatt El Arab che da tempi lontani costituiva motivo di attrito fra
la nazione araba e quella iraniana. Il governo iracheno riteneva
inoltre di godere dell'appoggio degli stati arabi moderati,
timorosi della diffusione dell'integralismo religioso, e della
benevole neutralità dei paesi occidentali. In seguito ad attacchi
contro mercantili che attraversavano la zona, per un certo periodo
le forze navali occidentali presidiarono le rotte marittime del
Golfo Persico, e nel corso di tale operazione si verificarono
sporadici scontri fra le forze navali USA e quelle iraniane. La
guerra invece, non andò secondo le aspettative di Bagdad e si
concluse con il ritorno allo status quo sul piano territoriale e il
dissanguamento economico dei due stati. Un ritorno dell'Iran su
posizioni relativamente più moderate si ebbe solo nel 1989 dopo la
scomparsa di Khomeini.
Nonostante
i numerosi segnali di un peggioramento dei rapporti fra Stati Uniti
e Unione Sovietica il dialogo sul disarmo continuava, con
l'apertura di diversi tavoli di trattativa, il Mutual Force
Reduction, (MFR) sulla riduzione delle forze convenzionali in
Europa, che però non diede risultati concreti, e il Strategic Arms
Limitation Treaty, meglio noto come SALT 2. Il nuovo accordo sulle
armi strategiche venne firmato da Carter e Breznev nel giugno del
1979, dopo 7 anni di colloqui e sanciva la parità di forze fra USA
e URSS, sia come vettori che come testate nucleari (1.200 MIRV per
parte con base a terra e su sottomarini). Il trattato prevedeva
inoltre la limitazione dei bombardieri strategici, con particolare
attenzione al gigantesco bombardiere sovietico Backfire e dei
sistemi di lancio per missili strategici nucleari, nonché il
regolare scambio di informazioni sugli armamenti. La valutazione
degli arsenali sovietici da parte occidentale tuttavia non
corrispondeva alla realtà, secondo recenti dichiarazioni del
governo russo il numero di testate nucleari e la quantità di
materiale fissile per uso militare in URSS erano rispettivamente un
terzo e il doppio superiori rispetto alle stime
occidentali.
L'accordo
non venne comunque ratificato da parte americana a causa dei
successivi avvenimenti in Afghanistan, e secondo il presidente
Reagan il trattato "congelava gli Stati Uniti in una posizione di
permanente inferiorità" , ma di fatto venne rispettato per evitare
il peggioramento delle relazioni con l'URSS.
Negli
stessi anni, come previsto dagli Accordi di Helsinki, si tennero le
Conferenze di Belgrado e di Madrid che si dimostrarono scarsamente
concludenti a causa della questione del rispetto dei diritti umani.
Tale tema divenne oggetto di grande attenzione da parte
dell'amministrazione Carter, e mise in difficoltà i sovietici come
venne confermato dal ministro russo Andrej Gromiko nelle sue
memorie.
Nei
giorni successivi al natale del 1979 avvenne l'episodio che pose
termine al lungo periodo di distensione, l'invasione
dell'Afghanistan, la cui occupazione ha creato gravi difficoltà per
l'Unione Sovietica ed ha contribuito alla crisi politica della
potente nazione.
L'Afghanistan,
paese con un'economia molto povera e abitato da popolazioni di
diversa etnia, era dal tempo degli zar soggetto alle mire della
Russia. In tempi recenti il paese aveva stabilito buoni rapporti
con Mosca, ma ciò non consentì una reale stabilità politica. Nel
1973 il re Zahar Shah venne deposto da un colpo di stato militare
guidato dal generale Daud che tuttavia a causa della difficile
situazione economica non riuscì a consolidare il potere, e cinque
anni dopo venne rovesciato da un nuovo colpo di stato. Il nuovo
governo composto da ufficiali filo comunisti diede vita a vaste
repressioni nel paese che provocarono il sorgere di un'accanita
resistenza di ispirazione soprattutto religiosa. Il governo
centrale dava evidenti segni di dissoluzione, quando nel settembre
'79 il capo del governo Taraki venne assassinato dal vice ministro
Amin, capo della polizia segreta, e nei mesi successivi le forze
armate che inizialmente contavano 100.000 uomini si ridussero a
circa 25.000 a causa delle numerose defezioni.
L'imminente
caduta del regime, dilaniato anche da contrasti interni, spinse nel
dicembre del 1979 l'Unione Sovietica all'intervento attraverso un
corpo di spedizione costituito da truppe aviotrasportate e di due
divisioni meccanizzate che in brevissimo tempo presero il controllo
di Kabul e delle principali vie d'accesso del paese e fecero fuori
il capo comunista dell'etnia patkhana Amin che venne sostituito dal
tagiko Karmal.
L'occupazione
dei centri nevralgici del paese procedette con rapidità, ma a causa
dell'armamento pesante, inadeguato alle condizioni geografiche e il
verificarsi di diversi casi di solidarizzazione fra le truppe
originarie dall'Asia centrale e i combattenti afghani, i reparti
sovietici vennero in larga parte sostituiti.
L'Unione
Sovietica con l'intervento militare si proponeva due principali
obbiettivi, mettere a freno la diffusione del fondamentalismo
islamico che minacciava le regioni asiatiche dello stato e crearsi
una possibilità d'accesso all'Oceano Indiano. La regione
occidentale del Pakistan, il Pathanistan, era da tempo rivendicato
dall'Afghanistan, e approfittando di una crisi del governo di
Islamabad, non sarebbe risultato difficile mettere le mani su
quella parte del territorio.
L'invasione
dell'Afghanistan venne condannata a livello internazionale da 104
paesi dell'ONU e produsse una svolta nelle relazioni diplomatiche
fra Unione Sovietica e paesi occidentali. Il presidente americano
Carter decise drastiche riduzioni alla vendita di cereali, delle
relazioni economiche in genere con lo stato sovietico (l'embargo
commerciale tuttavia venne aggirato da diversi paesi anche latino
americani, e ridotto successivamente da Reagan) e il boicottaggio
delle Olimpiadi che si tenevano a Mosca. Tali misure non vennero
molto apprezzate, con l'eccezione della Gran Bretagna, dagli altri
paesi europei.
Nonostante
il ricorso ad una guerra indiscriminata (a differenza della guerra
del Vietnam la stampa non poteva seguire le operazioni di guerra),
con distruzione di numerosi di villaggi, a distanza di anni i
sovietici ed il governo comunista non riuscirono a migliorare la
propria situazione, mentre i mujaiddhin (combattente nella guerra
gradita a Dio) con l'appoggio del governo pakistano e degli Stati
Uniti conseguirono dei progressi come armamento e tecniche di
guerra.
Nel
giugno del 1982 si aprirono, con la mediazione dell'ONU, negoziati
fra i rappresentanti del governo comunista afghano e del Pakistan
che tuttavia non diedero alcun risultato; una vera svolta nel
conflitto si ebbe solo nel luglio del 1985 quando Gorbaciov
annunciò il ritiro del contingente sovietico (arrivato a
100-120.000 uomini) e il filo sovietico Karmal venne sostituito dal
meno compromesso Najibullah. Nel febbraio del 1989, il governo di
Mosca duramente provato dal conflitto, ritirò gli ultimi reparti
sovietici, ma il conflitto non si avviava a soluzione. I 7
principali gruppi che formavano la resistenza arrivarono ad una
rottura fra moderati e fondamentalisti, e nel 1992 il gruppo di
etnia tagika guidato dal moderato e principale capo militare Shah
Massud prese il potere a Kabul.
La
guerra in Afghanistan ebbe conseguenze gravissime con un milione di
morti e circa 2-3 milioni di profughi nel vicino Pakistan. Nel
campo sovietico 15.000 furono i morti secondo le fonti ufficiali
sovietiche, ma secondo fonti occidentali il tributo di vite umane
fu più elevato intorno ai 40.000 morti. La guerra in Afghanistan
confermava il fatto che la guerra per il controllo di paesi
stranieri risultava eccessivamente oneroso sotto tutti i punti di
vista per qualsiasi regime, e che le controversie internazionali
non potevano essere risolte che attraverso aggiustamenti
politici.
Verso
la fine degli anni Settanta si intensificarono i fenomeni di
guerriglia in America Centrale, particolarmente in Nicaragua, El
Salvador, e Guatemala, paesi a economia prevalentemente agricola
che non avevano conosciuto salde istituzioni
politiche.
Il
Nicaragua dal lontano 1936 era soggetto ad un governo dispotico
presieduto dal generale Anastasio Somoza, che attraverso uomini
della sua famiglia controllava tutte le principali istituzioni del
paese. Nel 1956 il dittatore venne assassinato, ma subentrò al
potere il figlio che continuò immutata la gestione del potere
ricorrendo al terrore e all'illegalità. Nel paese si sviluppò un
grande movimento d'opposizione comprendente numerose formazioni
diverse fra le quali quella più consistente era quella
rappresentata dal Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale (che
si richiamava al generale Sandino, eroe dell'indipendenza del
paese). La dittatura priva dal febbraio 1979 dell'aiuto militare ed
economico di Washington subì i colpi della lotta armata che in
quello stesso anno fu costretta a capitolare.
Il
nuovo governo rivoluzionario presieduto dal leader sandinista
Daniel Ortega promosse numerose nazionalizzazioni nel settore
industriale, bancario, commerciale ed agricolo, entrò in urto con i
paesi vicini Honduras e Costa Rica, e si avvicinò al blocco
sovietico dal quale ottenne importanti aiuti economici, e con
l'assistenza dei cubani i sandinisti fecero del proprio esercito il
più potente dell'America centrale. Nel 1985 la giunta al potere
decretò la soppressione delle libertà politiche, la persecuzione
dei gruppi Indios, la chiusura di diversi giornali e iniziò un
intensa opera di repressione degli altri gruppi politici con
numerose incarcerazioni di oppositori politici.
Nel
paese si sviluppò a partire dal 1982 il movimento dei "contras" che
diede vita, con il sostegno economico degli Stati Uniti, a numerose
azioni di guerriglia utilizzando basi d'appoggio nel vicino
territorio dell'Honduras. L'anno successivo alla nascita del
movimento guerrigliero si unì alla formazione il leggendario capo
della guerriglia antisomozista Eden Pastora, e grazie all'apporto
delle nuove forze, un tentativo nel maggio 1985 dell'esercito
sandinista di penetrare in Honduras per distruggere le basi dei
ribelli, si rivelò un insuccesso.
Su
iniziativa del presidente del Costarica Oscar Arias, Premio Nobel
per la pace, venne proposto un piano di pacificazione che prevedeva
un'amnistia per i detenuti politici, di cui beneficiarono 1.900
antisandinisti, il rientro in patria di una parte dei leader
dell'opposi-zione, il ripristino della libertà di stampa, e nuove
elezioni politiche con presenza di osservatori internazionali, da
tenersi nel febbraio 1990. La leader del principale movimento
d'opposizione, l'Union Nacional Opositora, Violeta Chamorro, vedova
di un esponente politico assassinato dai somozisti nel 1978,
riportò alle elezioni presidenziali il 54,3% dei voti contro il 41%
di Ortega, ma per un certo periodo di tempo sembrò che le forze di
governo non intendessero riconoscere la sconfitta.
IL
MONDO OCCIDENTALE NEGLI ANNI
DI
REAGAN E DELLA THATCHER
Nel
corso degli anni Settanta il mondo occidentale aveva conosciuto un
periodo di grave crisi economica e morale di fronte alla quale i
governi europei si erano dimostrati impotenti. La mancata reazione
di fronte alla violazione degli Accordi di Helsinki (in Unione
Sovietica vennero arrestati gli stessi membri dei gruppi di
vigilanza sul rispetto degli accordi medesimi) e la ripresa della
politica espansionistica di Mosca, mettevano in luce come il
vecchio continente avesse perso il senso di una politica di grande
respiro improntata a quei valori che sono alla base della sua
stessa esistenza.
La cultura predominante nel periodo precedente aveva visto nel
capitalismo un sistema economico antiquato e incompatibile con le
aspirazioni alla solidarietà umana. D'altra parte il "welfare
state" prospettato dalla sinistra europea aveva clamorosamente
fallito rivelandosi fonte di spreco di risorse, di corruzione,
(particolarmente nel caso italiano), e di nuovi privilegi, da parte
di coloro che disponevano di "accessi" alla classe politica. La
sottrazione di risorse economiche sotto forma di pressione fiscale
a favore di un apparato pubblico scarsamente produttivo, aveva
prodotto inoltre un rallentamento economico e gravi conseguenze per
l'intera società.
Gli
anni '80 si aprirono con un grande interesse per l'economia, una
grande fiducia nelle forze spontanee del mercato, che oltre a
rinnovare l'assetto socioeconomico del mondo occidentale, creò un
nuovo stile di vita, definito con un certo intento polemico,
"edonismo reganiano". Contemporaneamente i paesi occidentale
riacquistarono una maggiore fermezza che la sfortunata guerra del
Vietnam e la contestazione giovanile aveva fortemente
scosso.
Solo
in parte l'azione di Reagan, la Thatcher e dei movimenti che ad
essi si ispiravano può essere definita "conservatrice", lo
scadimento dello stato assistenziale, la diffusione della
corruzione, la tendenza alla deresponsabilizzazione dell'individuo
che trova nello stato un fornitore gratuito di servizi, si è
presentato e si presenta, trattandosi di un processo in corso, un
problema molto sentito. Da qui la richiesta di uno stato meno
invadente, di una pressione fiscale più equa, di un minore
soffocamento delle attività economiche private, e di un minore
potere delle grandi organizzazioni economiche di stato. Da parte di
alcuni gruppi liberisti si propone una struttura economica che
tenga conto delle necessità oggettive delle imprese, senza comunque
scadere in quello stato di servitù del capitale che caratterizza
l'economia giapponese e delle altre potenze capitaliste asiatiche
(i cosiddetti "4 dragoni" Hong Kong, Taiwan, Corea del Sud,
Singapore)
Il
primo segnale di reazione si ebbe in Gran Bretagna. Nelle elezioni
del 1979 il partito conservatore ottenne la maggioranza, e diede
vita ad uno dei più lunghi governi della storia britannica che ha
realizzato importanti riforme economiche, ed ha segnato un'epoca
nella storia europea. La energica leader Margaret Thatcher, prima
donna capo del governo in Europa, diede vita ad un nuovo sistema
economico fondato sul primato delle leggi di mercato, sulla
restrizione dell'apparato pubblico, e sulla diffusione della
partecipazione azionaria, che dava vita ad una sorta di capitalismo
democratico.
La
"ricetta" privatista diede i suoi frutti, una parte cospicua dei
servizi pubblici venne venduta a gruppi economici con un duplice
beneficio: migliore prestazioni per i cittadini, almeno in un certo
numero di casi, e sensibile alleggerimento del disavanzo pubblico
che passava nel 1987 dal 5% del PIL all'1%. L'economia britannica
ebbe un grande giovamento da questi provvedimenti e conobbe un
tasso di sviluppo al quale il paese da lungo tempo non era più
abituato, mentre l'inflazione e la disoccupazione subirono un forte
rallentamento.
Quella
della Thatcher costituiva una vera rivoluzione economica, nel 1989
il Regno Unito contava più azionisti (triplicati rispetto al 1979)
che iscritti al sindacato, il quale nel 1984 riportò una grave
sconfitta con il fallimento del più lungo sciopero dei minatori
nella storia del paese. Negli anni successivi tuttavia, anche
l'economia britannica conosceva un rallentamento ed una ripresa
dell'inflazione e quindi nel 1990 il governo inglese veniva
duramente contestato per l'introduzione della cosiddetta poll tax
(tassa a carico di ciascun cittadino indipendentemente dal reddito)
che fu all'origine di controversie all'interno dello stesso partito
conservatore.
Nel
1982 la Gran Bretagna conobbe una seria crisi, l'invasione delle
isole Falkland da parte dell'esercito argentino, che si risolse
comunque in un successo per la "Lady di ferro", come venne
soprannominata dalla stampa internazionale la Margaret Thatcher. Le
isole distanti 1.000 km. dalle coste argentine e abitate da oltre
un secolo da cittadini britannici erano da sempre rivendicate dal
governo di Buenos Aires, iI quale per far fronte alle difficoltà
interne del paese decise l'intervento armato. Seguirono lunghi
negoziati che non portarono ad alcun progresso nonostante la
disponibilità inglese ad un accordo sullo sfruttamento economico
(ma non sulla sovranità) delle isole contese. Il governo argentino
minacciò di distaccarsi dal blocco occidentale (a tal fine prese
contatti anche con Cuba), mentre gli Stati Uniti cercarono fino
all'ultimo di mediare fra le due posizioni volendo evitare un
contrasto con i paesi latinoamericani, ma alla fine diede il
benestare all'intervento inglese. La flotta britannica dopo un
lungo assedio, durante il quale evitò di colpire le basi
d'approv-vigionamento sul continente, ebbe la meglio sulle forze
argentine .
Nonostante
i contrasti interni al partito conservatore e un certo malcontento
nel paese che portarono alla caduta del governo Thatcher, il nuovo
premier John Mayor, attra¬verso una politica più moderata, una
maggiore attenzione ai problemi sociali, e una minore rigidità nei
confronti della Comunità Europea, riportò nelle elezioni del '92
una conferma del partito conservatore, mentre i laburisti a causa
di divergenze interne di linea politica e della costituzione del
gruppo dei verdi che sottrassero consensi al partito, rimasero
all'opposizione.
Un
movimento di pensiero analogo a quello della Thatcher si ebbe in
altri paesi. Negli Stati Uniti un anno dopo la vittoria
conservatrice in Gran Bretagna, salì alla presidenza Ronald Reagan
con un programma economico molto determinato. Riduzione della
pressione fiscale e "deregulation" furono i due obbiettivi della
nuova politica americana che stimolarono la crescita economica del
paese e consentirono la creazione di 19 milioni di nuovi posti di
lavoro, un sensibile incremento del PIL, accompagnato però da un
peggioramento del deficit dello stato e della bilancia dei
pagamenti con l'estero.
Un
insuccesso degli anni di Reagan fu la lotta al narcotraffico che
arrivò a costituire la maggiore attività economica clandestina nel
paese, con un fatturato non inferiore a quello di grandi gruppi
economici; la politica intrapresa dalla Casa Bianca dimostrò che il
commercio illegale disponeva di grandi mezzi e innumerevoli vie di
transito che lo stato non poteva tenere sotto controllo. Lo spaccio
di droga e la diffusione della criminalità ad essa collegata,
alimentata dalla presenza di un numero considerevole di immigrati,
divenne il maggiore problema di quegli anni.
La
politica estera inaugurata dal presidente americano diede nuovo
vigore all'Occidente, anche se non mancarono dissensi con gli
alleati europei. Venne abolito l'embargo alla vendita di cereali
all'URSS (dal momento che altri paesi, anche del blocco latino
americano, avevano aggirato tale provvedimento) ma mantenne un
atteggiamento molto fermo verso l'Unione Sovietica. Una particolare
attenzione venne rivolta alla questione del terrorismo
internazionale; la politica di ricerca dei mandanti e di
repressione con mezzi militari del fenomeno risultò particolarmente
proficua, e intorno al 1985-1986 il fenomeno venne quasi
completamente eliminato.
L'immagine
del battagliero presidente venne in parte offuscata negli anni
successivi con lo scandalo dell'Irangate; nel corso di una
conferenza stampa nel novembre 1986, Reagan fu costretto ad
ammettere alcune limitate violazioni dell'embargo imposto all'Iran
nel 1979; attraverso Israele l'amministrazione americana vendette
armi per un valore di 60 milioni di lire al fine di finanziare i
gruppi anticomunisti in Nicaragua che costituiva un'ulteriore atto
illecito avendo il Congresso americano proibito gli aiuti a tali
formazioni. Molti collaboratori e lo stesso presidente furono
costretti a giustificarsi dell'episodio di fronte all'opinione
pubblica e alla stampa internazionale.
Anche
in altri paesi europei si assisteva ad una ripresa del liberismo
sia pure in forma attenuata rispetto alle due grandi nazioni
anglosassoni.
Nel
1981 in Francia venne eletto presidente della repubblica il
socialista Francois Mitterand che diede vita, dopo mezzo secolo di
opposizione, ad un governo delle sinistre con un vasto programma di
nazionalizzazioni e di riforme, che tuttavia non ebbe particolare
successo e venne nel 1984 in larga parte abbandonato. I comunisti
avviati ad una crisi profonda di pro¬grammi e di consensi,
abbandonavano il governo e il primo ministro Mauroy venne
sostituito dal più centrista Fabius. Le elezioni amministrative
successive registrarono un sensibile spostamento a destra che
favorì l'approvazione del Piano Delors per i tagli alla spesa
pubblica e il rilancio dell'economia.
Le
elezioni per il rinnovo del parlamento nel 1986 diedero la
maggioranza alle destre creando la singolare situazione di potere
con un presidente della repubblica di sinistra ed un capo del
governo, Jacques Chirac, su posizioni golliste; la singolare
"convivenza" non ebbe termine che due anni dopo.
La
politica estera di Mitterand sotto certi aspetti sembrava voler
rilanciare le aspirazioni alla grandeur di gollista memoria. La
Francia si impegnò nel Ciad minacciato d'invasione dalla Libia, nel
Libano soggetto alle mire espansionistiche della Siria e in altri
interventi minori nell'Africa francofona. Analogamente il governo
si impegnava nel Medio Oriente con l'invio del maggiore contingente
militare dopo quello americano nella guerra del Golfo (suscitando
le proteste dell'estrema destra francese di Le Pen). Meno felice fu
invece l'incontro nel dicembre del 1985 con il generale Jaruzlesky,
autore della nuova politica autoritaria polacca che gli altri
governi europei avevano cercato di isolare diplomaticamente, e in
anni più recenti la conces¬sione di un visto d'ingresso al
terrorista palestinese George Habbash ricercato in numerosi paesi
come ispiratore delle azioni più sanguinarie.
Gli
ultimi anni sono stati caratterizzati in Francia dalla scoperta di
numerosi scandali che hanno coinvolto numerose personalità
dell'amministrazione socialista ed hanno profondamente deteriorato
l'immagine delle sinistre, avvenimenti che hanno favorito la
riaffermazione dei gollisti.
Un
fenomeno negativo che ha interessato la Francia, ma anche altri
paesi del nostro continente nell'ultima parte degli anni '80, è
stata la rinascita dell'antisemitismo e dell'odio verso gli
immigrati extracomunitari di cui ha tratto profitto l'estrema
destra di Le Pen che si è affermato in diverse competizioni
elettorali.
In
Germania il partito liberale, da sempre l'ago della bilancia della
politica tedesca, decideva nel 1982 di rompere l'alleanza con i
socialdemocratici, e di costituire una coalizione con i cristiano
democratici. Il nuovo governo presieduto da Helmut Kohl, che venne
confer-mato alle elezioni dell'anno successivo, si caratterizzò per
la sua moderazione e per programmi non particolarmente innovativi.
In Germania non si affermava nessuna nuova politica neoliberista,
ma si assisteva ad una semplice riduzione della spesa pubblica che
passava dal 50% del reddito nazionale del 1982 al 47% del 1986 che
favoriva un deciso rallentamento dell'inflazione (per un certo
periodo il paese conobbe anche una situazione di deflazione) ed un
positivo andamento economico. Helmut Kohl, personaggio politico non
particolarmente amato, pragmatico e considerato privo di una grande
originalità, ha rappresentato in quegli anni il modello di
esponente centrista in Europa.
Il
governo tedesco mantenne verso l'alleanza atlantica un
atteggiamento molto prudente, favorevole allo schieramento degli
"euromissili", preferì in alcuni casi un certo distacco da una
politica giudicata incauta, come quella perseguita dagli Stati
Uniti di Reagan nei confronti del terrorismo
internazionale.
Il
fatto veramente nuovo per la Germania di quegli anni fu
l'affermarsi di forze politiche nuove, la crescita di un partito
ecologista fortemente di sinistra che riusciva a scavalcare la
soglia del 5% dei voti previsti per la rappresentanza nel Bundestag
e la formazione di un partito di estrema destra (anche se non
espressamente neo nazista secondo le affermazioni del suo leader
Shonuber) dei Repubblikaner, che ha utilizzato la questione della
eccessiva presenza degli immigrati di colore per un rilancio
politico.
In
Italia gli anni '80 si sono caratterizzati per un ridimensionamento
del partito comunista, causato anche dalla sempre minore presa
della dottrina di potere affermatesi nei paesi dell'Est, e
dall'isolamento politico conseguente allo spostamento a destra del
partito socialista che ha acquisito posizioni di sempre maggiore
protagonista sulla scena italiana. Il nostro paese non è stato
toccato dal vento "liberista" ed anzi i problemi della finanza
pubblica, in controtendenza rispetto al resto dell'Europa, si sono
fortemente aggravati in quegli anni. L'altro grande fattore è stato
lo scadimento della vita politica del paese, dovuto allo scarso
ricambio della classe politica, fenomeno provocato in larga parte
dal sistema elettorale, che non consentiva il rinnovamento e la
formazione di stabili maggioranze ed opposizioni. I governi di
"pentapartito" degli ultimi anni si sono caratterizzati per una
gestione poco responsabile del bilancio dello stato e per il
diffondersi del malcostume politico, che ha portato il paese ad una
grave situazione economica e messo in difficoltà l'ingresso
dell'Italia nell'Europa di Maastricht.